Capitolo 1 – I propellenti
I propellenti sono miscele di composti chimici che, a seguito di combustione, sono in grado di produrre un elevato volume di gas ad alta temperatura e ad una velocità controllata in grado di fornire la spinta necessaria per il movimento del vettore.
La combustione avviene in assenza di ossigeno libero, in quanto la presenza simultanea di combustibile e comburente rende questo processo autosufficiente.
I propellenti trovano principale applicazione in sistemi di lancio di proiettili (gun propellants) e di missili o propulsori spaziali (rocket propellants); possono inoltre essere utilizzati per muovere pistoni o turbine, nell'accensione di motori di aeroplani, nei sistemi di eiezione dei piloti, in speciali pompe o come fonte di calore.
1.1 – Propellenti liquidi
I propellenti liquidi sono composti da un ossidante liquido e da un combustibile liquido ricco di gruppi ossidabili. Di solito come ossidante viene impiegato ossigeno liquido. Questi si possono distinguere in due categorie:
Monopropellenti: costituiti da un unico composto, il quale produce una redox interna. Vengono solitamente utilizzati perossido di idrogeno, idrazina, acetilene. Bipropellenti: formati da due differenti sostanze, messe in contatto solo al momento della reazione. Di solito si impiegano come combustibile idrogeno, anilina, idrazina ed alcool etilico, come ossidanti invece si hanno ossigeno o miscele di composti, in genere acidi.
Questi propellenti vengono stoccati in un serbatoio esterno ed immessi nella camera di combustione solo al momento della reazione: i monopropellenti sono contenuti in un unico serbatoio; per quanto riguarda invece i bipropellenti, il combustibile e l’ossidante sono stoccati in due serbatoi separati e il miscelamento avviene solo dopo l’iniezione nella camera di combustione.
I motori per propellenti liquidi sono molto complessi ma hanno il vantaggio di poter agire sul flusso del propellente che può essere accelerato, interrotto e ripristinato.
Un buon propellente liquido deve possedere un alto impulso specifico e un’elevata velocità dei gas espulsi al fine di produrre esausti a basso peso molecolare.
Inoltre, un buon propellente liquido, deve avere una alta densità; infatti usando un propellente a bassa densità si ha un aumento delle dimensioni dei serbatoi e, quindi, del peso complessivo del vettore di lancio.
Altre proprietà da tener presente per un buon propellente liquido sono la temperatura di stoccaggio (un propellente che richiede una bassa temperatura di stoccaggio, come quelli criogenici, implica un sistema di coibentazione che aumenta il peso dei serbatoi), la tossicità (che implica un elevato rischio per il personale addetto al trasporto ed allo stoccaggio) e, caratteristiche fondamentali, una bassa tensione di vapore e una scarsa tendenza alla decomposizione (al fine di rendere sicure tutte le operazioni di stoccaggio).
I propellenti liquidi usati sono classificati in tre tipologie: fossili, criogenici e ipergolici.
1.1.1 – Propellenti fossili
I combustibili fossili derivano dalla raffinazione di oli pesanti e sono una miscela di idrocarburi composti generalmente da carbonio e idrogeno. Quelli più usati per la propulsione dei missili sono il kerosene o un tipo di kerosene raffinato chiamato RP-1 (refined petroleum).
Come comburente è usato generalmente ossigeno liquido.
1.1.2 – Propellenti criogenici
I propellenti criogenici sono gas liquefatti stoccati a basse temperature; l’idrogeno liquido (LH2) e l’ossigeno liquido (LO2) sono rispettivamente il combustibile e
l’ossidante maggiormente utilizzati.
L’idrogeno condensa a temperature dell’ordine di -250°C mentre l’ossigeno liquefa a -183°C. A causa delle loro basse temperature di ebollizione, i propellenti criogenici sono molto difficili da stoccare.
Inoltre l’idrogeno liquido ha una bassa densità e richiede dei volumi di stoccaggio superiori rispetto ad altri combustibili liquidi.
Malgrado questi inconvenienti, il sistema idrogeno-ossigeno ha un’elevata efficienza e l’impulso specifico è maggiore del 40% rispetto agli altri propellenti per missili.
1.1.3 – Propellenti ipergolici
I propellenti ipergolici sono miscele di combustibili e ossidanti che si attivano spontaneamente mediante una reazione ossidoriduttiva interna. La facile attivazione per la partenza e la capacità di riavvio li rendono ideali per sistemi di manovra di carichi spaziali. Questi propellenti condensano a temperature non eccessivamente basse e quindi non creano problemi di stoccaggio come i propellenti criogenici.
Gli ipergolici non sono frequentemente usati a causa della loro elevata instabilità, infatti, può aver luogo una detonazione durante il percorso che va dal serbatoio alla camera di combustione, causando un ritorno di fiamma che può compromettere l’integrità strutturale del missile.
I combustibili di questo tipo più usati sono: idrazina; monometilidrazina (MMH); dimetilidrazina asimmetrica (UDMH).
Gli ossidanti sono in genere:tetrossido d’azoto (N2O4);acido nitrico (HNO3).
1.2 – Propellenti solidi
I motori per i propellenti solidi consistono nel solo booster (Figura 1.2.1): esso è costituito da un involucro (in genere d’acciaio), riempito con una miscela di componenti solidi (combustibile e ossidante) che bruciano con elevata velocità espellendo gas caldi dall’ugello, ottenendo così la spinta. Una volta innescati, i propellenti bruciano partendo dal centro propagandosi verso l’esterno della carica solida.
La forma del canale centrale determina l’entità e la tipologia della combustione: quindi, la sua forma permette di controllare la propulsione in funzione del tempo.
Al contrario dei motori a combustibili liquidi, quelli a combustibili solidi non si possono arrestare: una volta avviata la reazione, la carica solida continua a bruciare finché non si esaurisce.
Se usati per scopi militari, una loro prerogativa deve essere quella di non produrre dei fumi traccianti in quanto potrebbero essere individuati.
Figura 1.2.1 - Sezione Motore per propellenti solidi.
Ci sono due famiglie di propellenti solidi: omogenei e compositi. Entrambi sono densi, stabili a temperature ordinarie e facili da stoccare.
1.2.1 – Propellenti omogenei
I propellenti solidi omogenei possono essere a base singola, doppia e tripla: quelli a base singola ricavano energia dalla combustione della nitrocellulosa che funge da ossidante e riducente; quelli a base doppia sono costituiti da nitrocellulosa addizionata ad un legante energetico, come ad esempio la nitroglicerina, che partecipa fornendo una spinta aggiuntiva per il decollo del vettore; quelli a base tripla, oltre al propellente ed al polimero energetico, hanno anche uno stabilizzante che serve a rendere appunto più stabile il propellente.
1.2.2 – Propellenti compositi
I propellenti di concezione moderna sono di tipo composito: costituiti da polveri eterogenee di sali ossidanti, in forma cristallina e finemente polverizzati, come il
perclorato d’ammonio che costituisce il 60 % - 70 % della massa solida e da alluminio, il combustibile più utilizzato.
Il propellente quindi è una miscela solida d’ossidante e combustibile legata tramite un polimero, usualmente miscele di poliuretani, che può essere migliorato per dare un ulteriore contributo alla combustione, rendendolo energetico tramite gruppi azidici o nitrici.
I motori per propellenti solidi hanno una larga varietà di usi. Quelli di dimensioni minori sono usati per dare potenza agli stadi finali dei razzi o sono attaccati ai carichi per spingerli in alte orbite; quelli medi provvedono a portare i satelliti in orbite geostazionarie.
1.2.3 – Propellenti ibridi
I motori per propellenti ibridi (Figura 1.2.2) rappresentano uno stadio intermedio tra i motori per combustibili solidi e liquidi. Una delle sostanze è solida, usualmente il combustibile, mentre il comburente è liquido. Questo ultimo è iniettato nel serbatoio in cui è contenuto il solido; in questo caso il serbatoio funge anche da camera di combustione.
Il vantaggio principale è quello di avere notevoli performance, simili a quelle dei propellenti solidi, ma la combustione può essere moderata, fermata ed eventualmente riavviata.
Questa tipologia di motori è difficile da realizzare laddove è richiesta una notevole spinta, quindi è raramente utilizzata.
1.2.4 – Componenti di un propellente solido
1.2.4.1 - Combustibile:
Il combustibile solido più usato nei propellenti solidi è l’alluminio dato che, durante la combustione, la sua ossidazione è fortemente esotermica.
Un vantaggio dell’uso dell’alluminio come riducente sta nel fatto che aumenta il contenuto d’idrogeno nei prodotti di combustione e minimizza quello di vapor d’acqua riducendo l’energia persa per la dissociazione alle alte temperature dell’acqua presente come umidità.
Uno svantaggio per i vettori di tipo militare consiste nella formazione di allumina come prodotto di combustione che genera una scia bianca dietro il razzo.
Gli idruri d’alluminio o berillio, il boro o il berillio elementari offrono delle prestazioni migliori rispetto all’alluminio per quanto riguarda l’impulso specifico ma sono usati raramente perché hanno costi elevati, un’alta tossicità e sono instabili a lungo termine.
1.2.4.2 - Ossidante:
L’ossidante inorganico più usato nell’industria aerospaziale è il perclorato d’ammonio dato che le sue proprietà chimiche sembrano essere il miglior compromesso tra ossigeno disponibile, densità, basso calore di formazione e massimo volume di gas sviluppato durante la combustione.
La temperatura di decomposizione di questo sale è 439°C ma utilizzando degli ossidi metallici catalizzatori (ossido di ferro o cromato di rame) questa ultima si abbassa a valori inferiori.
Aumentando il contenuto di ossidante, si ha un incremento della densità, della temperatura adiabatica di fiamma e dell’impulso specifico del propellente.
I prodotti della combustione sono: HCl dalla riduzione del sale, Al2O3 dall’ossidazione
del combustibile ed una miscela di CO2, H2 e H2O dalla combustione del legante
polimerico.
Anche la velocità di combustione è influenzata dalle dimensioni dei grani del propellente; diminuendo il loro diametro da 400 a 1 µm, essa aumenta di sei volte; purtroppo aumentando la polverizzazione dell’ossidante aumenta anche la sensibilità all’impatto del propellente quindi si deve trovare un compromesso ottimale tra dimensione dei grani e velocità di combustione.
1.2.4.3 - Legante:
Il legante deve conferire al propellente la stabilità chimica e le proprietà meccaniche ottimali per la sua applicazione nella tecnologia dei propellenti solidi. Si tratta di un prepolimero amorfo, reticolato chimicamente per ottenere le desiderate proprietà elastomeriche. Aderendo alla carica redox, il legante garantisce una elevata superficie di contatto tra combustibile ed ossidante.
Le caratteristiche che un buon legante deve avere sono:
- bassa temperatura di transizione vetrosa (< 35°C) in modo da avere basse forze di coesione tra le molecole e comportamento visco-elastico (a temperatura ambiente);
- basso grado di cristallinità per avere un alto tasso di disordine delle molecole ed un più alto stato antropico;
- il prepolimero da reticolare deve avere gruppi funzionali che possono reagire con l’agente reticolante.
Una rassegna dei polimeri più utilizzati verrà fatta nel Paragrafo 1.3.
Le proprietà elastomeriche del propellente dipendono dalla quantità e dalla composizione del legante. Le proprietà fisiche e meccaniche oltre ad essere influenzate dal grado di reticolazione, sono anche dipendenti dalla cinetica di reticolazione, parametro di grande influenza sulla colabilità e porosità della sostanza.
1.2.4.4 - Plastificante:
E' addizionato al legante per modificare la sua flessibilità e processabilità a bassa temperatura e per incrementare le caratteristiche di sicurezza del materiale.
Oltre all'incremento di alcune proprietà meccaniche del legante, come l'allungamento, la resistenza allo sforzo applicato e la riduzione della temperatura di transizione vetrosa, il plastificante può svolgere altri ruoli secondari, ma non per questo meno importanti; tali ruoli comprendono la riduzione della viscosità della miscela per favorire la processabilità del materiale, l'aumento del contenuto energetico e, nel caso di propellenti, la modifica della velocità di combustione per adattarla alle esigenze balistiche.
Un buon plastificante deve avere:
- buona compatibilità chimica e fisica con gli altri componenti, - buona stabilità chimica ed assenza di tossicità,
- basso punto di fusione e bassa tensione di vapore, - disponibilità a basso costo.
L’attuale tecnologia dei propellenti solidi è orientata verso l’uso di materiali inerti poiché l’alto potere energetico del plastificante aumenta la sensibilità alla degradazione del propellente.
1.2.5 – Caratteristiche dei componenti di un propellente solido
La scelta di un propellente si basa su due principali considerazioni; la quantità totale di energia richiesta e la velocità con la quale essa è liberata.
In quest'ottica il propellente migliore è quello che genera il maggior volume di gas per unità di massa di propellente, alla più alta temperatura di fiamma, con la massima esotermicità di reazione. Inoltre un buon propellente deve avere una densità elevata, in modo tale che nell'unità di volume sia contenuta una elevata quantità di materiale energetico, e formare nella combustione prodotti di reazione a basso peso molecolare e stabili, cioè scarsamente inclini alla dissociazione endotermica nelle condizioni operative. Alla luce di queste considerazioni, i parametri da analizzare nella scelta di un propellente sono:
1.2.5.1 - Impulso specifico:
Rappresenta la quantità di energia per unità di massa liberata durante la combustione.
1.2.5.2 - Velocità di combustione:
E’ la velocità con cui procede la redox sulla superficie del propellente. Dipende dalla composizione del propellente, dalla temperatura e dalla pressione a cui quest’ultimo è sottoposto :
n b b P
R = ⋅
Dove Rb è la velocità di combustione, b è una costante geometrica funzione delle
dimensioni del grano e della temperatura, P è la pressione di esercizio ed n è una costante compresa tra 0,3 e 0,7.
La Rb dipende anche dalla granulometria dell’ossidante, naturalmente più quest’ultima
1.2.5.3 - Proprietà meccaniche e fisiche:
Un propellente solido composito deve mostrare un’ottima resistenza alle sollecitazioni meccaniche ed una bassa sensibilità all’urto. Queste proprietà sono determinanti per l’integrità strutturale del propellente durante tutto il suo tempo di vita, dallo stoccaggio all’uso.
Le proprietà meccaniche dipendono in primo luogo dalle caratteristiche del legante, dalla percentuale di massa solida presente e dalle dimensioni delle particelle.
È possibile determinare il campo d’elasticità lineare, quello di deformazione plastica ed il carico massimo a rottura del materiale tracciando un diagramma sforzo-deformazione.
Figura 1.2.3 - Diagramma tridimensionale che correla lo sforzo, la deformazione e la quantità di legante
contenuto nei propellenti.
La composizione del legante è l’aspetto che più influenza le proprietà del propellente, infatti, variando il rapporto polimero/agente reticolante e scegliendo un’opportuna quantità di plastificante, è possibile controllare entro certi limiti il modulo d’elasticità, conferendo al materiale maggiore o minore deformabilità. Si osserva dalla Figura 1.2.3 che il materiale tende ad irrigidirsi al diminuire della quantità di legante ed ad aumentare il suo modulo elastico, riducendo però la capacità a deformarsi elasticamente a parità di carico applicato. Quindi un propellente solido è soggetto ad un certo numero di test di laboratorio che mirano a stabilirne le proprietà.
I test di trazione sono molto importanti per capire il comportamento del materiale negli strati inferiori del booster carico, vale a dire quando è sottoposto allo schiacciamento da parte degli strati superiori del propellente stesso; altre prove sottopongono il materiale a forze centrifughe e vibrazioni comparabili a quelle attese durante il suo utilizzo.
I dati sperimentali sono correlati mediante tecniche empiriche per ottenere preziose indicazioni riguardanti le prestazioni meccaniche del materiale: in questo modo si prevede la sua resistenza strutturale.
1.2.5.4 - Reologia:
Tramite questa scienza si possono studiare le proprietà viscoelastiche del propellente, dallo stato non reticolato a quello completamente reticolato in funzione dei parametri chimico-fisici che influenzano la reazione di polimerizzazione.
La reticolazione del polimero è effettuata usando come agente reticolante un isocianato la cui reattività, insieme alla temperatura di reazione e al tipo di catalizzatore, è responsabile della cinetica; da questa ultima dipendono: colabilità, possibilità di rimuovere particolari difetti (bolle, vuoti, ecc…) in fase di colata e scarsa porosità del propellente.
Lo studio reologico non copre l’intero intervallo di reticolazione; permette di seguire solo la prima parte dell’andamento della viscosità in funzione del tempo, dopo di che deve essere estrapolato matematicamente per mezzo di una legge esponenziale.
La durezza in funzione del tempo permette di seguire la seconda parte del processo di reticolazione; questa prova si esegue fino a quando non si arriva ad un valore costante che è indice di fine reticolazione.
1.2.5.5 - Stabilità allo stoccaggio:
Una proprietà richiesta ai combustibili solidi compositi è quella di non deteriorarsi ne decomporsi durante lo stoccaggio per alcuni anni. A tale scopo sono aggiunti degli inibitori che sono in grado di prevenire la decomposizione autocatalitica del propellente. Il materiale si deteriora sviluppando dei gas e subendo delle variazioni nelle proprietà fisiche. In generale, questi effetti si riscontrano se le temperature di stoccaggio sono troppo elevate o se hanno subito delle oscillazioni troppo marcate.
Lo sviluppo di gas può causare la presenza di bolle all’interno della carica solida la quale porta alla formazione di crepe se la pressione interna di tali bolle è troppo elevata; inoltre, queste determinano una diminuzione delle proprietà energetiche e dell’adesione alle pareti interne del booster. Per determinare la loro presenza all’interno del propellente si usano analisi ai raggi X o agli ultrasuoni.
Le migliori condizioni d’immagazzinamento sono scelte confrontando le proprietà meccaniche del materiale stoccato con quelle iniziali: uno scostamento minore indica condizioni di stoccaggio migliori.
1.2.5.6 - Geometria di combustibili solidi:
La geometria dei combustibili solidi è determinata dall’area e dal contorno delle superfici interne del serbatoio di stoccaggio. Ci sono essenzialmente due tipologie di sistemi di stivaggio nel booster (Figura 1.2.4): carico cilindrico in cui bruciano i grani situati sullo strato superficiale frontale del cilindro(sistema chiamato anche bruciatore finale, produce una spinta costante durante tutta la combustione); carico cilindrico con combustione interna (il combustibile è stoccato all’interno del booster con una geometria cilindrica coassiale).
Figura 1.2.4 - Sezione del booster con propellente cilindrico e con canale interno.
Nel secondo sistema, la forma del carico (Figura 1.2.5) è scelta in base all’uso che deve essere fatto del propellente, infatti, la velocità con cui si consuma può aumentare, rallentare o rimanere costante durante la combustione e questo dipende appunto dalla forma del carico scelta.
1. Il profilo con canale cilindrico sviluppa una spinta progressiva.
2. Quello cilindrico con un cilindro cavo coassiale produce una spinta pressoché costante che si riduce a zero molto repentinamente quando il combustibile sta per terminare.
3. Il contorno a stella a cinque punte sviluppa una spinta relativamente costante che decresce lentamente verso la fine.
4. La forma a croce produce una spinta che diminuisce progressivamente nel tempo. 5. Il profilo a doppia ancora fornisce una spinta decrescente con un salto repentino al termine del combustibile.
6. La sagoma a denti produce una forte spinta iniziale seguita da una bassa propulsione quasi costante.
1.2.5.7 - Tracciabilità:
Sebbene i moderni sistemi di intercettazione missilistica operino in un vasto intervallo di frequenze (UV, IR), è importante, dal punto di vista di un'applicazione militare del propellente, che i fumi di scarico siano difficilmente individuabili nella regione del visibile.
I principali responsabili della scia sono i "fumi primari", particelle solide di Al2O3
provenienti dall'ossidazione dell'alluminio. Come precedentemente anticipato, la riduzione dell'alluminio nella composizione del propellente comporta un abbassamento dell'impulso volumetrico; pertanto limitare le emissioni di allumina significa diminuire l'energia del propellente.
Un secondo contributo alla scia visibile è dato dai "fumi secondari", dovuti alla condensazione di alcune emissioni gassose (principalmente HCl proveniente dalla riduzione del perclorato). L'industria civile aerospaziale non è interessata dal problema dei "fumi primari", ma è consapevole dell' impatto ambientale nocivo dei "fumi secondari"; infatti un' elevata concentrazione di acido cloridrico in atmosfera ha effetto, seppur trascurabile rispetto ad altre fonti di inquinamento, sulla riduzione dello strato d'ozono e sul problema delle piogge acide.
1.2.5.8 - Sicurezza
Una sostanza pericolosa è classificata secondo un codice internazionale, suggerito da organi preposti dell’ONU, a seconda delle proprie caratteristiche di pericolosità [4]: 1. Esplosivi
2. Gas compressi, infiammabili e non, gas venefici 3. Liquidi infiammabili
4. Solidi infiammabili 5. Agenti ossidanti
6. Sostanze velenose, materiali irritanti 7. Materiali radioattivi
8. Sostanze corrosive
9. Miscele di sostanze pericolose
Tutti i propellenti, indipendentemente dalla loro composizione, rientrano in classe 1.
1.2.6 – Propellenti puliti
Come anticipato, la combustione dei propellenti compositi, contenenti perclorato di ammonio, produce significative quantità di sostanze inquinanti clorurate (HCl) corresponsabili della formazione di piogge acide e della riduzione dell'ozono nell'atmosfera.
Naturalmente il numero di lanci che vengono effettuati è piuttosto limitato e pertanto, quale che sia la composizione del propellente, l’impatto ambientale che ne deriva è estremamente modesto, se non trascurabile, a confronto con le moltissime altre fonti di inquinamento. Ciononostante, attualmente questo è un aspetto che deve comunque essere valutato e che può assumere un peso significativo (a parità di caratteristiche prestazionali) nella scelta delle formulazioni.
Nel prossimo futuro, congiuntamente allo sviluppo di lanciatori spaziali commerciali equipaggiati con motori booster di medio-alte dimensioni, l'aspetto ambientale potrebbe diventare una spinta verso l'impiego di nuovi propellenti denominati “puliti”. In questo campo due linee di intervento sembrano percorribili in tempi brevi e cioè: cercare di catturare l’HCl in fase di combustione con l’impiego di “filtri metallici” oppure sostituire il perclorato d’ammonio con materiali meno inquinanti.
1.2.6.1 – Cattura HCl durante la combustione
Questa linea di intervento permette di trasformare un propellente convenzionale in uno a basso inquinamento mediante l’aggiunta di particolari metalli o sali inorganici capaci di reagire molto rapidamente con l’acido cloridrico, prodotto dalla reazione del perclorato d’ammonio con l’alluminio, a formare specie non inquinanti.
In funzione della tecnica utilizzata (impiego di metalli o sali) nel linguaggio internazionale sono state delineate due nuove famiglie di propellenti denominate rispettivamente "neutralized" e "scavenged". La prima si basa sull’utilizzo di polvere di magnesio il cui ossido (MgO), prodotto primario dell’ossidazione ad opera del perclorato reagisce in maniera istantanea a formare prima Mg(OH)2 e successivamente
MgCl2 per reazione con l’acqua e l’acido cloridrico.
La seconda famiglia, invece, impiega nella formulazione quantità stechiometriche di NaNO3, in sostituzione di parte del perclorato, per bloccare l’acido cloridrico sotto
forma di NaCl. Anche se questa linea di sviluppo sembra vantaggiosa per l’impatto minimo sulla tecnologia convenzionale, alcuni dei suoi aspetti devono ancora essere approfonditi per verificare la reale applicabilità ed efficacia del sistema. Studi preliminari, infatti, hanno dimostrato la capacità del nuovo ingrediente di reagire in tempo reale con l’HCl, anche se una minima parte è ancora liberata nella combustione.
1.2.6.2 – Sostituzione del perclorato d’ammonio
Per quanto riguarda questa linea di sviluppo, anche se non innovativa da un punto di vista tecnico, si potrebbe considerare come probabile candidato il nitrato d’ammonio (NA). Però, seppure questo ossidante risulti idoneo per le considerazioni ambientali in quanto non contiene cloro nella molecola, da un punto di vista energetico il suo utilizzo comporta una perdita di circa l’8%. Ciò è dovuto alle sue caratteristiche intrinseche con riflessi negativi sia sull’impulso specifico sia sulla densità.
Ulteriori problemi connessi all’uso del NA sono relativi alla sua bassa velocità di combustione ed alla presenza, nell’intervallo di temperatura che il suo impiego comporta, di tre fasi cristalline che richiedono una stabilizzazione per evitare una sua transizione all’interno di esse.
Questi aspetti, nel passato, suggerirono di destinare il suo impiego in applicazioni particolari (laddove i costi e le basse velocità di combustione erano compatibili con i requisiti generali di sistemi quali i generatori di gas) e giustificarono l’avvento di un ossidante alternativo quale il PCA. Parte di questi problemi oggi, possono essere risolti introducendo nelle nuove formulazioni NA in combinazione con leganti energetici. Rimangono viceversa irrisolti i problemi legati ai costi elevati per l’uso dei nuovi leganti appesantiti ulteriormente dall’ossidante stabilizzato.
Un altro candidato alla sostituzione del perclorato d’ammonio, proposto recentemente da rinnovate ricerche, è l’HNF. Questa molecola, associando le sue peculiarità di non impatto ambientale ed il suo eccezionale contributo energetico (stimato essere circa il 10-15% maggiore dello standard attuale), potrebbe risultare estremamente attraente. Da segnalare che il forte contributo energetico dell’HNF è il risultato della decomposizione fortemente esotermica, del suo effetto ossidante sul combustibile e dei bassi pesi molecolari dei prodotti di combustione.
Tuttavia, nonostante i benefici segnalati, per una sua reale applicazione industriale, come risulta da una serie di pubblicazioni internazionali, il suo utilizzo richiede la risoluzione di numerosi problemi:
- presenta un’elevata reattività legata a parametri ancora non ben conosciuti che creano non pochi problemi reologici in termini di cinetica di reticolazione e colabilità;
- mostra un’incompatibilità chimica con il polibutadiene (PBHT) che impone l’uso di leganti energetici, o in ogni caso meno prestanti;
- mostra un’elevata temperatura di combustione il che, seppure contribuisca in maniera incisiva sulla prestazione energetica, comporta uno stress termoerosivo di alcune parti interne del motore che richiederebbe l’introduzione di nuovi materiali o un pesante ridimensionamento delle parti coinvolte;
- mostra caratteristiche di sensibilità prossime a quelle di sostanze esplosive, il che ripropone le problematiche già esposte;
- mostra un costo molto elevato che, al momento, limita fortemente il suo studio e quindi la comprensione e risoluzione dei problemi anzidetti.
1.3 – Polimeri energetici
I polimeri energetici sono polieteri caratterizzati dalla presenza in catena laterale di sostituenti, in grado di decomporsi esotermicamente ad alta temperatura (200-250°C). La presenza di questi gruppi, generalmente N3 o ONO2, non è l’unica caratteristica
necessaria per l’applicazione del polimero come legante elastomerico per propellenti solidi; esso deve anche essere reticolabile, possedere una bassa temperatura di transizione vetrosa (Tg<-30°C) ed un peso molecolare Mn compreso tra 1000 e 10000.
Sono sostanzialmente state studiate due vie (Figura 1.3.1) diverse di sintesi di un polimero energetico:
- per polimerizzazione di un monomero energetico. Il principale limite di questa via è dovuto alla elevata sensibilità a frizione ed impatto dei monomeri energetici, molto più instabili dei corrispondenti polimeri. Questo problema diventa importante qualora lo si inquadri nell’ottica della produzione a livello industriale. Comunque questa è la via più comune con cui oggi si fanno i polimeri energetici di natura poliossetanica.
- per modifica di polimeri preesistenti. Consiste nella sintesi di un polimero alogenato, che costituisce il substrato per l’introduzione dei gruppi energetici tramite reazione di sostituzione nucleofila.
Figura 1.3.1 – Due vie teoriche per la sintesi del poliBAMO.
L’introduzione di gruppi energetici direttamente sul polimero consente di evitare la manipolazione di un monomero altamente instabile ovvero di limitare i rischi nello stadio più pericoloso della preparazione.
Le sintesi di questo tipo di polimeri possono procedere tramite due meccanismi diversi e in competizione tra loro: meccanismo cationico vivente (AMM, figura 1.3.2) e meccanismo con terminazione di catena (ACE, figura, 1.3.3). Il primo meccanismo è maggiormente favorito da una lenta aggiunta del monomero nella miscela di reazione (con una velocità di aggiunta paragonabile a quella di scomparsa del monomero) mentre il secondo lo è quando il monomero viene aggiunto in maniera veloce (praticamente istantanea). In ogni modo entrambi i metodi di reazione sono presenti simultaneamente. Per capire quale sia il rapporto tra i due meccanismi nella reazione di polimerizzazione, abbiamo a disposizione due elementi:
- La presenza di oligomeri ciclici (prodotti indesiderati) denota il fatto che la reazione è decorsa con il meccanismo ACE;
- Quando si ottengono valori di polidispersione bassi (a seguito di analisi GPC), sappiamo che il meccanismo che maggiormente ha influenzato la reazione è l’ AMM.
Si riportano di seguito due esempi di meccanismi ACE e AMM:
Figura 1.3.3 – Esempio di meccanismo ACE.
Come si nota nelle figure precedenti (Figura 1.3.2 e 1.3.3), la differenza tra i due meccanismi è che la specie attivata è sul monomero per quanto riguarda il meccanismo AMM; sulla catena in crescita per quanto riguarda il meccanismo ACE. Per questo motivo, se la catena propaga con il meccanismo AMM, l’agente di quench usato non influenza il numero di gruppi OH terminali ottenuti; se, invece, la propagazione della catena avviene con il meccanismo ACE, l’agente di quench influenza il numero di OH terminali dando dei gruppi OR (per il quench con Metanolo) o gruppi OH (per il quench con Acqua).
Vediamo ora alcuni tipi di polimero attualmente usati come leganti nell’industria dei propellenti solidi.
1.3.1 - Polimeri azidici
I primi brevetti sullo studio della sintesi e delle proprietà dei polimeri azidici, risalgono ai primi anni ottanta, quando alcuni ricercatori della Rockwell International Co. sintetizzarono il GAP (Glycidyl Azide Polymer) per azidazione con NaN3 della
poli-epicloridina a basso peso molecolare. Qualche anno più tardi, Manser brevettò la sintesi e la polimerizzazione di due monomeri ossetanici 3-azidosostituiti: il 3-azidometil-3-metil ossetano (AMMO) ed il 3,3-bis(azido3-azidometil-3-metil)ossetano (BAMO), che ancora oggi, dopo circa venti anni, destano l’interesse della ricerca nel settore aerospaziale.
O N3 O N3 N3 AMMO BAMO
3-azidometil-3-metil ossetano 3,3-bis(azidometil)ossetano
Figura 1.3.4 - Principali monomeri ossetanici 3-azido sostituiti.
La polimerizzazione degli ossetani è condotta per via cationica, utilizzando un catalizzatore acido di Lewis ed un promotore, generalmente un diolo (il primo sistema catalitico impiegato fu il trifluoruro di boro eterato/1,4-butandiolo TFBE/1,4 BDO). Il contenuto energetico dei tre omopolimeri azidici è proporzionale alla rispettiva percentuale ponderale di azoto, cioè pAMMO(33%)<GAP(42%)<pBAMO (50%). Questo potrebbe erroneamente portarci a dire che il pBAMO sia il migliore legante utilizzabile nella produzione di un propellente in quanto quello che fornisce il maggiore contributo energetico; in realtà questo materiale non è amorfo, poiché i monomeri ossetanici polimerizzando danno composti cristallini, e quindi renderebbe il propellente troppo fragile e sensibile agli urti. Di conseguenza, la soluzione migliore sembra quella di sfruttare l’elevato contenuto energetico del BAMO, introducendolo in copolimeri energetici random (p.es. con AMMO o glicidil azide) o a blocchi. Occorre cioè sacrificare parzialmente il contenuto energetico, a favore della lavorabilità del legante. Nel caso dei copolimeri random, si deve cercare il quantitativo minimo di comonomero necessario a garantire la formazione di un materiale amorfo, mentre relativamente ai copolimeri a blocchi è stata studiata la possibilità di produrre elastomeri termoplastici (ETPE “Energetic Thermoplastic Elastomers) costituiti da un copolimero a tre blocchi avente il segmento centrale amorfo e quelli laterali cristallini Il principale vantaggio di questi ETPE è legato al fatto che con essi non è più necessaria la fase di reticolazione in situ, mentre lo svantaggio è che probabilmente diviene piuttosto complicata la fase di miscelazione delle componenti solide, che deve garantire la formazione di un reticolo che sia intimamente distribuito nell’intera massa di propellente.
Alcune delle proprietà (misurate nei nostri laboratori) più importanti dei suddetti monomeri e relativi omopolimeri azidici sono di seguito riportati (Tabella 1.3.1):
Tg (°C) Tdec (°C) ∆H (kJ/kg) Test d’impatto (J) Test di frizione (kg) Polimeri pAMMO -40 244 846 Non osservata esplosione 36 pBAMO -39 258 2460 Non osservata esplosione 36 GAP -40 212 957 - - Monomeri AMMO - n. d. 1120 19.6 6 BAMO - n. d. 2578 0.49 4
Tabella 1.3.1 - Alcune proprietà dei più comuni monomeri ed omopolimeri azidici.
Il test di impatto consiste nel far cadere un peso di 5 o 1 Kg da diverse altezze su un campione di alcuni milligrammi e riporta il minimo valore (espresso in Joule e calcolato come prodotto dei Kg peso per altezza di caduta) necessario per innescare l’esplosione. Il test di frizione consiste nel sottoporre a sfregamento il campione mediante applicazione di una forza di taglio che viene gradualmente incrementata e riporta il valore minimo (espresso in Kg) necessario per osservare l’intervento di fenomeni degradativi.
Come si può vedere da Tabella 1.3.1, per i monomeri energetici non è riportata una temperatura di decomposizione, in quanto a pressione atmosferica interviene prima l’evaporazione e la decomposizione si può osservare solo in ambiente pressurizzato. Tuttavia, entrambi i monomeri manifestano una sensibilità all’impatto ed alla frizione molto maggiore di quelle dei rispettivi omopolimeri. Si osserva, inoltre, che non esiste il dato relativo al monomero del GAP, perché questo viene prodotto per azidazione della poliepicloridrina, la quale deriva da un monomero non energetico.
Appare pertanto chiaro che i margini di sicurezza del processo di sintesi di polimeri azido-ossetanici sarebbero certamente più ampi conducendo la reazione di azidazione su substrati polimerici preformati, analogamente a quanto già accade nella sintesi del GAP. In tal modo, si potrebbe evitare la sintesi del monomero energetico che, senza dubbio, costituisce lo stadio più pericoloso della preparazione.
Seppur sia attesa una maggiore lentezza cinetica dell’azidazione quando essa è condotta su matrici polimeriche, sono molto poche le pubblicazioni che approfondiscono
dettagliatamente le effettive potenzialità e i limiti di questa strategia sintetica applicata a substrati poliossetanici.
1.3.1.1 – Poliossetani
Figura 1.3.5 - Sintesi di NMMO e BAMO.
La polimerizzazione dipende da vari fattori come il tempo e la temperatura di reazione, il sistema iniziatore, la velocità d’aggiunta del monomero; ciascuno di loro influenza il peso molecolare del polimero, l’indice di polidispersività, la viscosità, il numero di funzionalità idrossiliche terminali e la resa.
1.3.1.2 – Poliossirani
Il GAP in questo momento è uno dei polimeri energetici più studiati sia per la semplicità ed il basso costo della sintesi (Figura 1.3.6), sia per la bontà di alcune proprietà chimico - fisiche dell’omopolimero (bassa Tg e bassa viscosità). Può essere
preparato per l’omopolimerizzazione dell’epicloridrina, in presenza di glicerolo come promotore, e successivo con sodio azide per introdurre i gruppi energetici; in questo modo si ottiene un GAP trifunzionale, reticolabile per mezzo di un diisocianato.
Quando sono sufficienti due funzionalità idrossiliche, il primo stadio di sintesi può essere bypassato, poiché è disponibile in commercio la poliepicloridrina lineare idrossiterminata; ovviamente in questo caso sarà necessario utilizzare un triisocianato, nella successiva reazione di reticolazione, per ottenere il corrispondente elastomero poliuretanico.
Sono stati recentemente brevettati alcuni metodi di polifunzionalizzazione del GAP - diolo: ad esempio Ampleman ha sintetizzato un GAP a più funzionalità ossidriliche per epossidazione regiospecifica del GAP-diolo in condizione debolmente basiche e successiva apertura in ambiente acido con acqua, un triolo o tetraolo; in questo modo è stato ottenuto un polimero energetico rispettivamente a quattro, sei e otto funzionalità ossidriliche.
Sempre in quest’ottica, è stato ultimamente sintetizzato il cosiddetto branched-GAP; consiste in una lunga catena principale di GAP in cui sono innestate catene di GAP più corte. È sintetizzato per mezzo di un simultaneo processo d’azidazione-degradazione di una poliepicloridrina ad alto peso molecolare, con sodio azide in presenza di un agente basico di decomposizione (es. NaOH) in un solvente polare. Aggiustando il rapporto catalizzatore/polimero, è possibile controllare il peso molecolare del polimero azidato. In conseguenza di quest’innovativo processo è possibile ottenere un GAP con più di due funzionalità idrossiliche terminali in un singolo passaggio, con conseguente riduzione dei tempi e costi di produzione.
1.3.2 - Polimeri nitrici
I polimeri energetici, appartenenti a questa classe, sono polieteri ossetanici o ossiranici aventi in catena laterale gruppi –ONO2 (Figura 1.3.7). Utilizzando un polimero nitrico
nella composizione di un propellente solido, il surplus energetico deriva dall’azione ossidante dei gruppi nitrato che va a sommarsi a quella del perclorato. Questo comporta la possibilità di ridurre la percentuale di quest’ultimo nella formulazione complessiva, con il vantaggio di avere un propellente con minor contenuto di cloro e quindi meno inquinante.
Attualmente, i polimeri nitrici più studiati sono il poli- 3-nitratometil-3-metil ossetano (pNMMO) e il poli-glicidil nitrato (pGLYN), ottenuti per omopolimerizzazione cationica ad apertura di anello dei rispettivi monomeri energetici.
O ONO2 O ONO2 3-nitratometil-3-metil ossetano NMMO Glicidil nitrato GLYN
Figura 1.3.7 - Monomeri nitrici.
Generalmente, questi monomeri sono preparati per nitrazione con N2O5 dei rispettivi
precursori ossidrilici in cloruro di metilene, che è utilizzato anche nella successiva reazione di polimerizzazione; infatti, a causa dell’elevata instabilità dei monomeri nitrici, si preferisce non isolarli, ma mantenerli in soluzioni organiche sufficientemente diluite da garantire buoni margini di sicurezza in tutte le fasi della sintesi. Ovviamente, anche in questo caso tutte le fasi di manipolazione dei materiali, dalla sintesi alla carica e trasporto del motore, devono poter essere svolte in sicurezza e di nuovo i test di stabilità (Tabella 1.3.2) mostrano che i polimeri sono piuttosto sicuri da questo punto di vista. Le temperature di decomposizione, come era prevedibile, sono più basse di quelle viste per i polimeri azidici, ma restano sufficientemente elevate per poter dire che anch’esse non sono un fattore critico. Inoltre, entrambi gli omopolimeri hanno carattere amorfo (con temperatura di transizione vetrosa sufficientemente bassa) e si presentano come liquidi oleosi, di viscosità variabile in funzione del loro peso molecolare e quindi sono da considerare a tutti gli effetti come validi candidati per essere utilizzati come leganti. Viste le loro caratteristiche, i polimeri nitrici possono anche essere utilizzati come segmento centrale di copolimeri a blocchi, aventi caratteristiche di ETPE e quindi, se i blocchi esterni sono di pBAMO, il legante viene ad essere azido/nitrico.
Polimero Tg (°C) Tdec (°C) ∆H (kJ/kg) Test d’impatto (J) pNMMO -35 187 -2351 Non osservata esplosione pGLYN -35 170 -2391 Non osservata esplosione
1.3.3 – Polimeri difluoroamminici
I polimeri difluoroamminici sono caratterizzati dalla presenza in catena laterale di gruppi -NF2. Da un punto di vista energetico, questi polimeri sono potenzialmente
molto interessanti in quanto durante la decomposizione liberano esotermicamente HF gassoso ed anche una certa quantità di F2, il che consentirebbe loro di contribuire
all’azione propellente sia grazie all’elevato sviluppo di gas, sia fornendo un buon agente ossidante il quale potrebbe sostituire parte del perclorato d’ammonio presente nella carica redox. Purtroppo, però, dalla tendenza del gruppo NF2 ad interagire con gli atomi
di idrogeno vicini e liberare spontaneamente acido fluoridrico, derivano un’elevatissima sensibilità all’impatto ed una scarsa stabilità chimica.
Omo e copolimeri difluoroamminici sono stati sintetizzati per via cationica, impiegando monomeri ossetanici (Figura 1.3.8) ed il classico sistema iniziatore TFBE/1,4 BDO.
O NF2 O NF2 F2N FMMO BFMO
3-difluoroamminometil-3-metil ossetano 3,3-bis(difluoroamminometil)ossetano
Figura 1.3.8 - Monomeri ossetanici 3-difluoroammino sostituiti.
Questi monomeri sono preparati mediante due passaggi consecutivi, partendo dalle rispettive ammine primarie ossetaniche: per prima cosa si sintetizza un dicarbammato che poi viene sottoposto ad un trattamento in corrente di fluoro gassoso per permettere la formazione dei gruppi NF2.
Nonostante il fatto che, analogamente a quanto visto per i materiali azidici, la sensibilità alle sollecitazioni meccaniche si riduca notevolmente passando dai monomeri ai rispettivi polimeri, negli ultimi anni lo studio dei polimeri difluoroamminici è stato progressivamente abbandonato a favore dei polimeri azidici e nitrici. Questo non solo per la maggiore complessità di sintesi rispetto a quest’ultimi, ma anche per problemi insiti nella stessa natura dei polimeri difluoroamminici che hanno temperatura di transizione vetrosa piuttosto elevata (Tg≈-20°C ) ed inferiore stabilità a lungo termine. Tutti questi motivi, nonostante la buona potenzialità della molecola, rendono piuttosto
1.4 – Stato dell’arte
Alla luce di tutto ciò che abbiamo visto finora, possiamo affermare che l’attuale tecnologia riguardante i propellenti è molto solida per versatilità, flessibilità e costi delle materie prime; questo ha permesso di sviluppare propellenti con prestazioni molto diverse tra loro garantendo un ampio intervallo di impiego.
Di conseguenza, i progettisti hanno potuto concepire sistemi di lancio utilizzando booster estremamente sviluppati che impiegano propellenti prossimi a lavorare ai massimi livelli raggiungibili.
Confrontando i dati tecnici risultanti dalle famiglie appartenenti all’ “alta energia” e “puliti”, contenenti nuovi materiali energetici, sembra evidente che per scopi industriali essi non sono ancora sufficientemente prestanti per un’applicazione immediata. Viceversa, limitatamente ai propellenti “puliti”, l’uso di una sostanza già nota quale l’NaNO3 in formulazioni innovative (classe scavenged), ha fornito risultati promettenti
anche per uno sviluppo industriale in tempi relativamente brevi.
In ogni caso l’evoluzione tecnologica dei propellenti solidi richiede un ulteriore approfondimento dei diversi problemi messi a fuoco ed, eventualmente, di studiare nuovi materiali capaci di competere con quelli oggi in uso.
1.5 – ARIANESPACE
Arianespace è l’azienda leader per trasporti commerciali nello spazio, grazie ai vettori Ariane 5.
Grazie all’ottimizzazione dei booster per l’Ariane-5 l’Europa ha il know-how per lo sviluppo e la produzione degli stadi a propellente solido destinati ai vettori pesanti. Il futuro razzo vettore Vega sarà il primo a sfruttare la nuova tecnologia, riducendo i costi ed aumentando le prestazioni.
L’Ariane-5 è stato impiegato per il lancio di satelliti per comunicazioni, per l’osservazione della Terra e per la ricerca scientifica.
1.5.1 – Ariane-5
L’Ariane-1 è stato utilizzato dal 1979 al 1986 (11 lanci), il secondo (5 lanci) ed il terzo (11 lanci) hanno lavorato tra il 1983 ed il 1989, l’Ariane-4 infine è stato lanciato fino al
2003, dopo quindici anni di servizio (113 lanci). Quest’ultimo poteva portare 210 ton di propellente rispetto alle 140 ton dei suoi predecessori, aveva booster di dimensioni maggiori, poteva trasportare satelliti fino a 4900 kg differentemente da quelli dell’Ariane-3 che arrivavano fino a 2700 kg. Durante la sua vita, l’Ariane-4 ha coperto il 50 % dei lanci di satelliti commerciali a livello mondiale.
Figura 1.5.1 – Da Ariane-1 a Ariane-5.
In Ariane 5 (Figura 1.5.2) due booster per combustibili solidi provvedono a fornire il 90% della spinta per il decollo; in seguito, lo stadio criogenico principale fornisce la potenza per la prima parte del volo. Il vettore è equipaggiato con un secondo motore criogenico nello stadio superiore, simile a quello che sospingeva il precedente vettore Ariane 4. Il sistema di decollo dell’Ariane 5 è costituito da quattro parti.
1.5.1.1 – Stadio criogenico principale (EPC)
Questo stadio (Figura 1.5.3), alto 31 metri e con un diametro di 5.4 metri, è il cuore dell’Ariane 5; opera per 589 secondi e prevede due punti di giunzione tra l’Ariane 5 ed i due booster per propellenti solidi. Il motore Vulcain fornisce potenza bruciando idrogeno (LH2) ed ossigeno (LO2) liquidi, stoccati in due serbatoi separati da una
paratia comune. Il serbatoio dell’ossigeno liquido è pressurizzato con elio gassoso mentre quello dell’idrogeno liquido è mantenuto in pressione con circuito di ricircolo dell’idrogeno gassoso. Lo stadio criogenico principale ed i due booster sono espulsi in volo mentre continuano a bruciare carburante per altri 459 secondi. Alla fine lo stadio criogenico principale rientra in atmosfera e si disintegra sopra l’Oceano.
Figura 1.5.3 – Stadio criogenico principale.
1.5.1.2 – Motore Vulcain
Il motore Vulcain dello stadio criogenico principale (Figura 1.5.4) che sostiene l’Ariane 5 produce 1350 kN di spinta nel vuoto. È coadiuvato da una turbopompa con raffreddamento rigenerativo. La camera di spinta è alimentata da due turbo-pompe indipendenti che utilizzano un singolo generatore di gas.
1.5.1.3 – Il booster per propellenti solidi
Ogni booster per propellenti solidi (Figura 1.5.5) genera una spinta di 5500 kN per far decollare l’Ariane 5 dalla postazione di lancio, vale a dire il 90 % della propulsione totale, con un’accelerazione di 50 G nella fase iniziale. Alti 27 metri con un diametro di 3 metri, sono caricati con 237.8 tonnellate di propellente solido. I booster sono avviati dopo il check di funzionamento del motore Vulcain e bruciano per 130 secondi prima di sganciarsi sopra la zona designata nell’Atlantico. Possono anche essere recuperati per un’analisi post volo. Gli ugelli sono direzionabili mediante attuatori idraulici.
Figura 1.5.5 – Booster per propellenti solidi.
1.5.1.4 – Lo stadio criogenico superiore (ESC-A)
Lo stadio ESC-A (Figura 1.5.6) ha un diametro di 5.4 metri ed una lunghezza di 4.8 metri; è spinto dal motore HM7B che brucia idrogeno (LH2) ed ossigeno (LO2) liquido
stoccati in due serbatoi separati allo stesso modo di quelli dello stadio criogenico principale. Il motore HM7B sviluppa una spinta nel vuoto di circa 65 kN ed il suo scopo è quello di espellere il carico e portarlo in orbita con un’estrema accuratezza.
1.5.2 – Vega
Il vettore Vega (Figura 1.5.7) (Vettore Europeo di Generazione Avanzata) è stato sviluppato dall’Agenzia Spaziale Europea con il supporto di Belgio, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera e Francia. Il programma nacque negli anni ’90 da un’idea dell’agenzia spaziale italiana (ASI) supportata da diverse industrie per verificare la possibilità di adottare un veicolo complementare per piccoli lanci della famiglia dell’Ariane, usando la tecnologia dei propellenti solidi. Vega dovrebbe entrare in funzione a partire dal 2007 dal Guyana Space Center, nella Guyana francese.
Figura 1.5.7 – Razzo Vega.
1.5.2.1 – Sistema di propulsione
Il sistema di propulsione del vettore Vega è costituito dai seguenti componenti: - la sezione inferiore è composta da tre stadi di propellente solido;
- lo stadio del bipropellente (UDMH/NTO) Attitude and Verner Upper Module (AVUM) che include il modulo di propulsione (APM) e il modulo di equipaggiamento (AAM).
1.5.2.2 – Stadio inferiore Primo stadio (P80 FW)
Questo primo (Figura 1.5.8) stadio misura in tutto, senza ugello di propulsione, circa 11.5 metri, con un diametro di 3 metri e consiste in un motore alimentato con propellenti solidi. Questo ultimo si basa su un progetto nuovo e perfezionato, lo
delle fibre di carbonio grafitico impregnate di resina epossidica che costituiscono il rivestimento esterno autocoibentato tramite l’EPDM a bassa densità. Il propellente HTPB 1912 (poli butadiene idrossiterminato) è impacchettato a stella nella zona dell’ugello.
L’ugello è così composto:
- una gola con 3-D Carbon - Carbon;
- un’articolazione flessibile protetta che permette all’ugello di orientarsi in tutte le direzioni con un angolo di 8°;
- un cono d’uscita composto da carbonio e resina fenolica con un attuatore ad anello che è articolato all’uscita del cono mediante la sovrapposizione delle strutture.
Figura 1.5.8 – Primo stadio.
Secondo stadio
Il secondo stadio (Figura 1.5.9) ha una lunghezza totale di 8.5 metri, escluso l’ugello di propulsione), con un diametro di 2 metri e consiste in un motore per propellenti solidi Z23 e 2T3 inter-stadio. La propulsione del secondo stadio, chiamata ZEFIRO 23 (Z23), è basata su una versione estesa dello ZEFIRO 16 SRM. Lo SRM è simile al primo stadio, il motore P80 FW, ed impiega la stessa tecnologia a fibre di carbonio grafitico impregnate di resina epossidica che servono a creare il rivestimento esterno e la coibentazione tramite l’EPDM a bassa densità.
Figura 1.5.9 – Secondo stadio.
flessibile protetta che permette all’ugello di orientarsi in tutte le direzioni con un angolo di 7°.
Terzo Stadio (Z9)
Il terzo stadio (Figura 1.5.10) ha una lunghezza totale di 3.5 metri, escluso il becco di propulsione, con un diametro di circa 2 metri e consiste in un motore per propellenti solidi (Z9). Questo stadio è simile allo SRM Z23 basato sul modello ZEFIRO 16 SRM originale. Lo SRM impiega fibre di carbonio grafitico impregnate di resina epossidica che servono a creare il rivestimento esterno e la coibentazione del motore è ottenuta mediante l’EPDM a bassa densità. La struttura dell’ugello comprende una gola in 3D Carbon-Carbon, un cono d’uscita di carbonio e resina fenolica con un’articolazione flessibile protetta che permette all’ugello di orientarsi in tutte le direzioni con un angolo di 6°.
Figura 1.5.10 – Terzo stadio.
1.5.2.3 – Stadio del bipropellente
L’AVUM è il quarto stadio multifunzionale del VEGA (Figura 1.5.11): è progettato per pilotare i primi tre stadi di volo, distaccare il carico e terminare la messa in orbita. I propellenti sono stoccati in quattro serbatoi in Titanio da 142 litri: due serbatoi sono usati per l’ossidante (N2O4) e gli altri per il combustibile ovvero dimetilidrazina (NH)2(CH3)2 UDMH. Lo stadio ha capacità d’iniezioni multiple e brucia i due componenti liquidi: le sue prestazioni sono tali da garantire un alto numero di missioni.
1.6 - Il ciclo di impasto
In questo abbiamo le seguenti fasi:- Premiscelazione dell’impasto del propellente con il polimero: abbiamo prima la miscelazione del polimero con Al ed altri additivi, poi l’unione di questa miscela ad Fe2O3 precedentemente essiccato;
- Preimpasto propellente: si ha miscelamento tra polimero e perclorato d’ammonio;
- Fase di conservazione a caldo;
- Impasto finale con altri additivi (tra cui l’agente reticolante).
1.7 Ciclo di caricamento
Le fasi del ciclo di caricamento sono cosi schematizzabili: - trasporto del segmento da caricare;
- inserimento del segmento nel pozzo di colaggio del propellente; - applicazione del vuoto;
- arrivo crogiuolo con propellente; - colaggio del propellente;
- cottura del propellente; - smontaggio delle attrezzature; - distensione;
- controlli dimensionali e peso.
1.8 Scopo della tesi
Gli scopi del presente lavoro di tesi sono stati:
- Dimostrare che, delle due vie usate per la sintesi di un polimero energetico, la seconda (ovvero la modifica di polimeri precostituiti) è la più sicura;
- Studiare, in fase di sintesi, l’effetto che il gocciolamento del monomero e l’agente di quench hanno sul prodotto finito, al fine di ottenere polimeri tramite il meccanismo cationico vivente;
- Studiare i risultati che si possono ottenere con la produzione di copolimeri (in questo lavoro ECH/BBrMO), al fine di ottenere leganti più maneggevoli e molto energetici;
- Indagare sulla presenza di gruppi terminali –OH (uno per parte di ogni catena), al fine di ottenere prodotti reticolati il più possibile elastomerici.