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L'economista: gazzetta settimanale di scienza economica, finanza, commercio, banchi, ferrovie e degli interessi privati - A.41 (1914) n.2090, 24 maggio

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GAZZETTA SETTIMANALE

SCIENZA ECONOMICA, FINANZA, COMMERCIO, BANCHI. FERROVIE, INTERESSI PRIVATI

REDAZIONE: M. J . u n Jo h a n n i s — R. A. Mu r r a y — M. Ca n t a i,k o n i

Anno XLI - Voi. XLV

Firenze-Roma, 24 Maggio 1914

F I R E N Z E : 31, V ia d e l la P e r g o la R O M A : 4, V ia L u d o v is i

N. 2090

S O M M A R I O : Le interpellanze sugli zuccheri. — Per una razionale coltivazione delle foreste. — I proventi delle Gabelle negli esercizi 1912-13. — Il discorso dell’on. Corniani sugli zuccheri. — Verso il libero scambio, L. Ma r o i.

— Il progetto di legge per l'abolizione dell’autorizzazioie maritale. — INFORMAZIONI : Definitivo ritiro dei vecchi nichelini. —• Società Ferrovie Meridionali. — Nuovo trust marittimo tedesco. — La concentrazione delle grandi banche in Germania. — Tariffa postale internazionale. — RIVISTA BIBLIOGRAFICA: G. Br u c c o l e r i, La Sicilia d'oggi. — Per i soci della Cassa Pensioni. Il piano di riparto. — RIVISTA DEL COMMERCIO: Commercio francese primo quadrimestre. — Il consumo delle perle nei paesi principali. — Progresso delle biciclette in Francia.

— MERCATO MONETARIO E RIVISTA DELLE BORSE. — PROSPETTO QUOTAZIONI, VALORI, CAMBI, SCONTI E SITUAZIONI BANCARIE.

LE INTERPELLANZE SUGLI ZUCCHERI,

Non è la prim a volta che dobbiamo trovar ragione di deplorare in breve tempo le agitazioni parlam entari ed ex tra-p arlam en tari, intese a tu rb are ed a sconvolgere gli assetti dati da una ancor recente legislazione, ad alcuni fenomeni economici.

Ripetiam o oggi che nel nostro paese si pecca sovente, per parte di alcuni, nel non tener conto sufficiente dei gravi danni che una politica fiscale e doganale incerta, esitante e priva di indirizzo può recare, non tanto agli interessi specifici che sono presi di m ira, quanto, e molto più, alla economia tu tta del paese, a causa della sfiducia e della perplessità in cui tiene cosi antem ente il capitale, svogliandolo o minacciandolo nei suoi impieghi industriali.

Le odierne interpellanze sugli zuccheri, che avranno fine lunedi prossimo, sono per noi di­ mostrazione palese di questa lam en tata poca considerazione agli interessi generali, compro­ messi una volta di più dal desiderio in alcuni di tra rre soddisfazioni da campagne specifiche, le quali, se possono avere una qualche base giusta, non per questo appariscono meno prive di proporzioni tra gli effetti benefici cui mirano e quelli dannosi che realm ente producono.

A vero dire potevamo supporre che l ’argomento della industria zuccheriera fosse stato ormai esuberantem ente tra tta to ed in modo esauriente definito, fino dalla approvazione della, legge del 1910, tanto recente è l’eco di quelle discussioni; potevamo ritenere decisive le dichiarazioni del Governo dell’epoca: «n o n credersi l ’industria degli zuccheri in Ita lia ab bastanza solida per sopportare una radicale modificazione dell’a t ­ tu ale regim e », talché, almeno per tu tto il tempo di d u ra ta degli effetti di quella legge, fosse eli­ minato il bisogno di rito rn are sul problema.

Ma i sostenitori della tesi opposta amano ri­ produrre ancora oggi quasi integralm ente le a r ­ gomentazioni e gli errori che furono già am pia­ mente confutati in passato, cosicché conviene che si ribattano nuovam ente le viete fan tasti­ cherie.

Abbiamo sempre affermato, anche in passato, che siamo perfettam ente d’accordo cogli avver­ sari del protezionismo; ma in pari tempo ab­ biamo affermato ed affermiamo ancora, che fin­ ché du ra il protezionismo, bisogna, non solo cer­ care che sia bene applicato, ma doversi ottenere che esso abbia a tu rb are il meno possibile le industrie che nascono e si sviluppano sotto la sua influenza; ed invero quasi tu tte le industrie italiane, ad eccezione per ora di quella della seta, ma a cominciare dalla g ranicultura ed a finire colla siderurgia, sono sorte e vivono, per­ chè dazi più o meno equi, ma pur sempre pro­ tettiv i, tengono lontano il prodotto estero.

I nostri dazi di confine che non possono sempre essere proibitivi, perchè dobbiamo pur tu telare la esportazione, hanno permesso, come è noto, in questi ultim i venti anni il sorgere e l’accrescersi di alcune industrie, la esistenza delle quali per altro è basata soltanto sulla protezione, che, to lta | o dim inuita, causerebbe la perdita totale di quella ricchezza nazionale costituita dalle industrie stesse.

Nel caso degli zuccheri perciò non ci sem bra orm ai sia più il caso di discutere se fosse saggio 0 meno di inau g u rare con le tariffe del 1888 il | il sistem a protezionista, ma si può certo, senza | tem a di essere giudicati incoerenti, sostenere,

anche quando si professino principi decisamente

j

liberisti, non essere in alcun modo consigliabile,

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322 L ’ ECONOMISTA 24 maggio 1914

col m ettere quindi le altre tu tte in diffidenza ed in orgasmo.

Abbiamo invero ragione di credere che il Go­ verno attu ale, il quale non difetta di serietà, ri­ sponderà lunedì prossimo agli interpellanti della Camera, additando quanto sia recente l’andata in vigore dell’ ultim a legge sul regim e fiscale e do­ ganale degli zuccheri (1911); come quella legge, i cui effetti si debbono m aturare in sei anni, sia ancora nel suo prim ordiale corso di attuazione ; come convenga differire dunque ogni nuovo prov­ vedimento a quando di quella legge sarà stato fatto esperimento per tu tta la sua portata. E tale risposta, riteniam o, sa rà conforme ad una d ire t­ tiv a di coerenza, in quanto non potrebbesi per certo approvare una facile condiscendenza dei governanti, i quali volessero (specie quando si chieda, come nel caso attuale, che la funzione legislativa sia ad ib ita alla formazione di prov­ visioni tem poranee ed occasionali, anziché a g a ­ ra n tire ai cittadini un regim e di sicurezza e di costanza nell’incremento delle a ttiv ità econo­ miche) aderire a pretese di una parte del P a r­ lamento, sia pure rumorosa.

Alle esagerazioni ed agli e rra ti calcoli degli avversari della industria zuccheriera, già hanno risposto m inutam ente alcuni deputati, e fra questi l’on. Corniani, del quale rip e tia m o in a ltra parte del giornale, le giuste argomentazioni. Preciso e deciso potrà quindi essere il contegno del Ministero, il quale del resto av rà buon gioco nel rilevare la inopportunità nel momento pre­ sente di addivenire a provvedim enti dim inutivi di proventi erariali, non facilmente sopportabili dal bilancio.

Rim ane quindi sul tappeto u na obbiezione di un certo peso che i liberisti sogliono muovere, e cioè: se con la legge del 1910 si fosse com­ messo un errore, questo non si potrebbe correg­ gere al più presto, anziché rim andarne la rip a ­ razione ?

Invero nel caso specifico essi non hanno a n ­ cora saputo provare, nè convincere che la legge del 1910 sia sta ta o meno un erro re: essi af­ fermano favolosi guadagni delle industrie zuc­ cheriere, che sono per molta p arte solo nella loro im m aginazione e per la piccola parte di ve­ rità rim anente non possono assegnare ad essa un valore sufficiente a compensare delle conseguenze dannose che ne verrebbero a tu tta una v asta a ttiv ità industriale della nazione. Dall’altro canto anche se errore vi fosse stato o vi fosse, essi non provano neppure che la sua en tità sia davvero tale da richiedere l ’urgenza di affrontare le r i­ forme da essi sostenute per ottenere un lim itato e forse esiguo vantaggio del consumatore, ormai ad attato ad un regim e che è detto gravoso, ma neppure del tu tto insopportabile.

Piuttosto chi osserva spassionatam ente simili dib attiti e vede com battere non già il sistem a

\protezionista, ma la protezione già accordata

a questa od a quella industria, riceve la im­ pressione che sia per correre grave pericolo la giustizia, ed è indotto a sospettare che esistano interessi più o meno palesi, i quali spingano ad insistere per l’abolizione -della protezione a que­ sta più che a quella industria.

Quando si avanzano ad esempio, ragioni di

igiene e di nutrizione per le classi meno ab­ bienti, stupisce che la cam pagna per gli zuc­ cheri non sia sta ta preceduta o non sia con­ tem poranea a quella contro il dazio sul grano. E quando si rispondesse essere conveniente co­ minciare le campagne dove si crede più facile la vittoria, crediamo di poter affermare che oggi la v itto ria appare per certo più probabile per un regime liberista sul grano che non sugli zuc­ cheri, dappoiché gli agricoltori, che per sì lungo tempo hanno goduto di un indisturbato assetto doganale, sono più prep arati ad un sacrificio di quanto non possano esserlo gli zuccherieri, i quali, soltanto quando la legge del 1910 avrà avuto la sua completa applicazione (cioè nel 1916), potranno avere convenientemente assestata la loro industria, in modo da poter consentire più facilmente di oggi, quelle rinuncio che al pre­ sente si mostrano prem ature.

P e r una ra z io n a le c o ltiv a z io n e

d elle foreste.

Se volgiamo uno sguardo ad una carta to­ pografica dell’Italia, noi vediamo che la mon­ tagna e la collina occupano per quattro quinti la sua totale superficie, e, per essere più esatti ; dei suoi 286.682 chilom etri quadrati, 103.649 sono occupati dalla m ontagna e 122.174 dalla collina, m entre la pianura ne ha solamente 60.859.

Eccezione fa tta per l’ Inghilterra, che molto diversa dalla nostra ha la sua n a tu ra geogra­ fica, nessuno dei m aggiori S ta ti d’Europa è a l­ tre tta n to montuoso e così povero di foreste còme l’ Italia.

Una recentissim a statistica a g ra ria ci dice che la superficie a ttrib u ita ai boschi è di 4.564.000 e ttari, comprendendovi i castagneti da fru tto ; ma nella sola regione di montagna, sede n a tu ­ rale del bosco, poco più di un quarto della sua superficie produttiva è coperta di foreste : 2.602 m ila e tta ri: scarsa quota, se si paragona ai 3.344.000 e tta ri di p rati e pascoli ed alla lar­ ghissim a estensione degli inarati.

Noi sappiamo invero che le nostre belle mon­ tagne erano in un passato non lontano coperte da secolari foreste: e da una som m aria inchiesta sui boschi d istru tti dal 1870 in poi, com piuta dal comm. Manfren, ispettore superiore fore­ stale, rileviam o dati desolanti ed impressionanti. Nella provincia di Palerm o la distruzione am ­ monta ad e tta ri 12.000, in quella di Campobasso a 17.795, di Basilicata a 30.000, di A lessandria 35.000, di Torino 47.000, di Poggia, B ari e Lecce 53.801, di Cagliari^ 91.446, di Sassari 125.070.

In Sardegna poi è sta ta una vera distruzione, perchè il magnifico legnam e di opera, costando troppo il trasporto ad un porto d’ imbarco, fu ridotto in carbone ed in legna da ardere.

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24 maggio 1914 L’ ECONOMISTA 323

I disboscameli!! consumati su vastissim a

scala, lungo le pendici dei monti e degli a l­ tipiani, conferiscono alle acque piovane un im­ peto e un disordine che sono causa di grave e ricorrente m in a. Sospinte dalle rapide pen­ denze e dai dislivelli del suolo ad una furiosa discesa alle pianure senza l’ostacolo di una fitta cultura boschiva, le acque esercitano una inces­ sante azione corrosiva sugli s tra ti superficiali del terreno è scalzano le falde del monte, tr a ­ scinando in basso il m iglior terreno superficiale atto alle culture e producendo i danni delle frane. Nelle pianure e nelle v alli sottostanti straripano i torrenti ed i fiumi, danneggiando strade, rovinando ponti e culture, ristagnando in pantani e paludi che diventano centro di in ­ fezione m alarica. L’acqua abbonda dove è no­ civa mentre le terre soprastanti soffrono l’a r­ sura del sole, e difetta spesso persino l’acqua da bere. Il bosco rappresenta il lim ite della vege­ tazione e può istitu irsi nei te rre n i più ingrati con lieve sacrificio della generazione presente e grande vantaggio della futura.

I boschi trattenendo le acqne alla superficie del terreno, impediscono la formazione di lavine e di burroni, m entre guidano negli s tra ti sot­ tostanti le acque che, non disperdendosi, vanno ad aum entare le sorgenti. Concorrono ad au­ m entare la quantità di vapor d’acqua nell’a t- mosfera, tendono ad abbassare la tem peratura d’estate e ad elevarla d’inverno, impedendo cosi i forti squilibri. Le potenti radici degli alberi affrettano la decomposizione delle roccie, sia meccanicamente sia chimicamente, coprono e me­ scolano i d etriti di esse con sostanze organiche e terriccio.

L’ influenza vantaggiosa delle foreste si estendè non solo alla fertilità e conservazione di un paese, ma ancora allo sviluppo di tu tte le sue industrie, e le foreste sono un mezzo potente di benessere e di produzione perchè danno legnam e da costruzione, combustibile, una serie di sva­ ria ti prodotti necessari nelle a rti e nelle in ­ dustrie, stram e e foraggio per gli anim ali, con­ cimi per l’agricoltura.

Trascurando le funzioni del bosco nei riguardi del suolo, del regim e delle acque ed in genere della pubblica u tilità , considerando invece il bòsco come qualsiasi a ltra coltivazione, per i redditi che fornisce, non vi ha dubbio che in adatte condizioni di am biente e ben governato il bosco può essere una cu ltu ra conveniente e talora altam ente redditiva, specialm ente in qnei terren i dove non è possibile alcuna cultura agraria.

Ma il nostro scopo non deve essere solo quello di avere i monti coperti dal bel verde dei bo­ schi, le pendici salvate dalle frane, ì piani dalle inondazioni, ed assicurata tu tta quella ricchezza che è nelle acque; ma ancora di ricavare tutto quel frutto che essi ci porgono e che solo sta a noi di raccogliere, non guastandoli, ne sper­ dendone da pazzi le ricchezze, m a coltivandoli e sfruttandoli saviam ente.

E come accanto all’agricoltura vi sono le in­ dustrie che da esse si alim entano ed alla loro volta la sostengono, così accanto alla silvicol­ tu ra, dovranno ben sorgere quelle industrie fo­

restali, che ne saranno il sostegno e ad un tempo faranno prò di quei frutti, che noi ora gettiam o al vento, per andarli poi a pagare a caro prezzo altrove.

! proventi delle Gabelle

nell’esercizio 1912-13

Il comm, Luciolli, direttore generale delle Gabelle, ha presentato al Ministro delle finanze on. Rava, la relazione annuale suU’Amministrazione delle Gabelle per l’esercizio finanziario 1912-913.

Le condizioni in cui si è svolto l’esercizio finan­ ziario 1912-913, dice la relazione, non sono state fa­ vorevoli causa i perturbamenti recati al mercato ita­ liano e ai mercati degli altri Stati d’Europa dal pro­ lungarsi della guerra libica e dallo scoppio dei san­ guinosi conflitti balcanici, non ancora interamente sopiti. Con tutto ciò, esaminando obbiettivamente il vero significato delle cifre, si dovrebbe concludere ohe mai un così alto livello di benessere ha goduto il paese, giacché il provento totale dei tributi gabellari ha raggiunto, nell’esercizio finanziario chiuso il 30 giu­ gno ultimo scorso, la cifra di oltre 713 milioni di lire, cifra che supeta di 89 milioni quella dell’esercizio pre­ cedente, ed è la più alta fra quelle che siano state finora capaci di fornire le imposte sui consumi. Vero e che a sospingere a tanta altezza tale provento con­ tribuì, in via principale, l’abbondantissima importa­ zione di frumento estero, resa necessaria dalla defi­ ciente produzione granaria interna del 1912; ma anche facendo astrazione dal reddito sommamente aleatorio del grano, l’entrata gabellarla dell’ultimo esercizio ri­ mare ancora in forte aumento su quella del penultimo segnante il punto massimo raggiunto fin allora.

All’aumento di 89 milioni, il dazio sul grano con­ tribuì da solo per 56 milioni ; i rimanenti cespiti delle gabelle vi contribuiscono alla loro volta per la somma di 32 milioni, fornita in piix per 12.8 milioni dalle dogane, per 18.2 dalle tasse di fabbricazione è per 1.8 dai dazi interni di consumo.

Astraendo, nel campo degli aumenti, da quello ec­ cezionale di 56 milioni di lire fornito dal grano si trovavano nel gruppo dei redditi doganali altri note­ voli aumenti.

Per quello di 6.8 milioni di lire che presentano i dazi d’entrata sui prodotti non fiscali, occorre avver­ tire eh’esso è costituito dalla differenza tra la somma complessiva di 16.5 milioni riscossa in più e quella di 9.7 milioni riscossa in meno sulla intiera massa delle merci soggette a dazio, importate nel Regno, all’infuori dei prodotti fiscaii, ma che a determinare tale differenza contribuirono principalmente le mag­ giori importazioni dei granturco e dell’avena, dovute più che altro alle vicende della produzione interna.

Mentre nel novembre del 1911 la finanza italiana contava, per l’esercizio 1912-13 sopra una totale en­ trata gabellaria di 603.4 milioni di lite e nel novembre 1912, quando cioè poteva fondarsi sull’esperienza del­ l’intiero esercizio 1911-12 e dai primi quattro mesi di quello allora in corso, faceva assegnamento sopra altri 49.2 milioni in più, coi quali la nuova previ­ sione saliva all’alta cifra di 652.5 milioni, gli accer­ tamenti finali fornirono invece la nota entrata com­ plessiva di 713 milioni, con una differenza in più — rispetto alla previsione definitiva — di 60.5 milioni: 4.4, dei quali spettanti al solo grano, 8 allo zucchero, 4 allo spirito, 2.5 ai diritti di statistica e marittimi e 7.2 agli altri cespiti.

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324 IV ECONOMISTA 24 maggio 1914

dagli altri principali cespiti statali. E infatti mentre ancora nel 1911-12 l’entrata complessiva delle imposte sui consumi, accertata in 624.1 milioni, rappresentava 30.8 0/„ della totale entrata effettiva ordinaria dello Stato e superava di 113.7 milioni il reddito delle im­ poste dirette, di 106 quello delle privative e di 295.3 quello delle tasse sugli affari; nell’esercizio 1912-13 raggiungeva 31.1 °/0 della totale entrata ordinaria dello Stato, superando rispettivamente di 182.2, 174.8 e 381.3 milioni gli altri redditi testé menzionati.

Il i n dell'on. Coni sogli zuccheri.

Pubblichiamo con piacere il discorso dell’onore­ vole Corniani sugli zuccheri, perchè egli meglio di ogni altro e spassionatamente ha precisato i termini della questione, stabilendo la esatta condizione di al­ cune imprese che sono additate al pubblico disdoro, come ritenute capaci di ingenti guadagni. Evidente­ mente bisogna sfrondare il campo delle esagerazioni per attenersi ai dati di fatto e non ad esaltate af­ fermazioni, onde vedere una giusta soluzione.

Fu considerato come risultato lodevole auspicato anche da Cavour, l'aver potuto impiantare in Italia l’industria zuccheriera che già fioriva in altri paesi emancipati dal tributo che dovevano pagare all’estero e che pesava sulla bilancia commerciale.

L’industria zuccheriera lordata col concorso di ca­ pitali italiani e stranieri, aveva però bisogno della protezione governativa, protezione che riconosco es­ sere una forma di tassa indirotta, ma che è quella che permette di vivere a molte altre industrie italiane e di occupare molti lavoratori che diversamente an- derebbero ad ingrossare la nostra più ingente emi­ grazione per l'estero.

Questa industria, come asserì recentemente il prof. Garelli del Politecnico di Torino, oltre a l’aver dato occupazione a numerosi tecnici ed operai, ha dato largo alimento alla agricoltura, essendovi ora più di 50 mila ettari di terreno coltivato a barbabietole con una produzione media di 300 quintali per ettaro che al prezzo di sole lire 2,30 al quintale, rappresenta una produzione fra le più remunerative; e lo scorso anno si ebbe una produzione che toccò i 500 e 600 quintali, ed una produzione di zucchero di circa 200.000 tonnellate. Siamo lontani dalle cifre della Ger­ mania che aveva nel 1912 cinquecento mila ettari di terreno a barbabietole ed ùna produzione in zucchero di 2.750.000 tonnellate, ma dobbiamo riconoscere che 1 industria dello zucchero è stata utile anche per la agricoltura.

Ho letto che il Gruppo socialista ufficiale si è riu­ nito ed ha votato un ordine del giorno in senso com­ pletamente liberista. Si può essere liberisti e pacifisti in teoria, ma in pratica, mentre le altre Nazioni ar­ mano difese doganali e militari, non possiamo disar­ mare; del resto il protezionismo oltre al concetto fi­ scale di ingrossare i proventi doganali dell’erario ri­ sponde anche ad un concetto politico, quello che hanno le Nazioni di emanciparsi economicamente e di bastare a sé, e noi vediamo ora TInghilterra che sempre tra­ scurò l’agricoltura, che anzi la sacrificò alla industria, preoccupata per l’eventualità di poter essere aflamata in tempo di guerra, interessarsi in una riforma agraria intesa a trasformare quelle vaste tenute e pascoli in poderi produttivi di cereali.

Giorni sono leggevo nella Vita, giornale radicale democratico (che dedicava la notizia ai nostri liberisti) che avendo una ditta italiana vinto il concorso per fornitura di cavi sottomarini al Governo inglese que­ sto aveva messo per condizione che tutto il materiale fosse fabbricato in Inghilterra.

Ricordo che nella passata legislatura dai rappre­ sentanti delle varie.parti d’Italia vennero invocati e dal Governo concessi per le voci libere, aumenti di protezione doganale; così i bresciani l’ottennero per le armi, i sardi per i sugheri e cosi via.

Certo è che il prezzo degli zuccheri in italia é molto elevato in confronto di quello di altri Stati, ciò che ne limita il consumo a poco più di quattro chi­ logrammi all'anno per abitante; ma dobbiamo consi­ derare però che consumiamo molta frutta. 11 caro prezzo dello zucchero è dovuto non tanto al margine di protezione a favore della industria nazionale costi­ tuito dalla differenza fra il dazio doganale di 99 lire al quintale e la tassa di fabbricazione era di 74, quanto dalla elevatezza di queste due imposizioni, che hanno assorbito tutta la diminuzione del prezzo commer­ ciale dello zucchero che si è verificata in questi ul­ timi anni.

Di fatti nel 1876 il valore dello zucchero era di L. 100, ed il dazio doganale di L. 28,87. Nel 1898 essendo il valore dello, zucchero disceso a L. 28 il quintale, il dazio doganale era salito a L. 99. Note­ vole fu l’aumento del dazio votato nel 1877 essendosi in tale occasione creati i famosi 70 commendatori degli zuccheri.

L’on. Giretti ha ricordato il progetto di legge del- l’on. Giolitti del 1909, col quale si riduceva il dazio doganale da 99 a 50 lire e la tassa di fabbricazione da 70,15 a 35 lire, con che la protezione per l’indu­ stria nazionale era limitata a lo lire; questa prote­ zione secondo la relazione ministeriale, era conside­ rata come un minimo necessario di protezione, tenuto conto del maggior costo in Italia rispetto alle altre nazioni della materia prima, la barbabietola, della sua minore potenza zuccherina, (dal 10 all’ 11 per cento invece del 15 per cento in Germania) della maggior spesa pel carbone mano d’opera od altre cause. Con tale riduzione si abbassava di mezza lira il chilo- gramma il costo di vendita dello zucchero, ma per far fronte alla perdita del Tesoro di 30 o 40 milioni all’anno si proponevano provvedimenti fiscali come inasprimento delle tasse ereditarie e altre che costi­ tuiscono parte dei nuovi provvedimenti finanziari, e si applicava la tassa globale che è una estrema ri­ sorsa ^ da conservarsi per supreme necessità. Ed è perchè il sollievo da una parte era neutralizzato dal­ l’altra che la proposta cadde, sembra a me fosse più conveniente altra proposta fatta dall’on. Casalini di fare un debito che compensasse le perdite ohe si sa­ rebbero verificate negli introiti, per la diminuzione della tassa fino a che l’aumentato consumo avesse fatto ricuperare i perduti proventi.

Con la legge del 1910 viene gradatamente ridotta la protezione industriale nel seiennio 1911-1916 dì una lira all'anno cosicché nel 1916 la protezione pel zucchero raffinato sarà 99 meno 76,15 ossia 22,85 al quintale e pel greggio 88 meno 73.20 ossia 15.80; ma queste sei lire di aumento nella tassa di fabbri­ cazione vanno a tutto vantaggio dell’erario che nel 1916 potrà ricavarne oltre 10 milioni cosicché il pro­ vento della lassa di fabbricazione supererà i 130 mi­ lioni annui. Il vantaggio sarebbe stato a favore del consumatore se la diminuzione di sei lire nella pro­ tezione si fosse effettuata diminuendo invece il dazio doganale.

Ma si dice che i zuccherieri sono troppo protetti e fanno troppi lauti guadagni; essi li hanno fatti spe- oialmente quando pagavano la tassa di fabbricazione nella misura prima di 1500 grammi poi di 2000 grammi per ettolitro di sughi defecati, mentre ora la pagano sulla produzione effettiva, e se alcune società fecero buoni affari, altre ne fecero cattivi.

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coopera-24 maggio 1914 L ’ ECONOMISTA 325

live cui faceva allusione Tori. Tasca di Cutò nel suo recente discorso sono dei trusts fatti per imporre con vari mezzi dati prezzi per la mano d’opera. Io penso che un trust industriale può essere utile quando si tratta di evitare la sopraproduzione ed il disperdi­ mento di capitali in quello che Luzzatti chiamò i dop­ pioni dell’industria, e di assicurare un lavoro rego­ lare ed un guadagno equo. Ma quando questi trusts eccedessero, non potrebbero vivere a lungo come è successo dei grandi trusts americani, ed il trust zuc­ cheriero si vedrebbe limitato dalla concorrenza stra­ niera, perchè come è detto nella relazione dell’on. Carlo Ferraris del 1910 la differenza fra il prezzo dello zucchero a Genova e quello sul mercato di Trieste è lieve.

Ma se l’industria dello zucchero ha prosperato, la cotoniera, ed altre hanno traversato ed attraversano crisi ed a questo proposito ricordo le parole pronun­ ciate da Luigi Luzzatti in un suo recente discorso: « Per questo contribuente italiano, agiato, ricco, io ricomincio a sentire più che invidia, pietà. Ma io purtroppo studio i bilanci, vedo una quantità di so­ cietà che non guadagnano più niente e questo mi addolora. Che cosa sono i lucri nostri, i guadagni delle nostre società rispetto a quelli che conseguono le grandi società fuori d’Italia?».

Ed a questo proposito mi sia permesso fermarmi un momento sopra alcune affermazioni fatte dall’on. Giretti nella seduta del 2 marzo e che hanno forte­ mente impressionato i colleghi.

L’on. Giretti, al qualo rendo omaggio per la com­ petenza da esso dimostrata in materia cosi complessa ha senza dubbio in piena buona fede trascurato di chiarire qui a noi alcune affermazioni di grande gravità.

Egli ha affermato che una fabbrica o meglio una Società belga che ha una fabbrica di zucchero a Pon- telongo ha potuto — cito le sue parole come sono nel Hesoconto della Camera — cominciare a lavorare una modesta produzione di 45 mila quintali nel 1911-1912.... e nell'ultima campagna 1912-1913 sopra 120 mila quintali di zucchero guadagnando L. 1.501.589 — ha distribuito sul capitale di L. 6.000.000, il 26,50 per cento.

Ora mi consenta il collega Giretti che io, unica­ mente sono mosso nelle mie ricerche dal desiderio comune di giovare al consumatore e di mantener viva l’industria italiana, chiarisca i fatti per lasciare sgombro da preoccupazioni il pensiero dei colleghi. Sta di fatto, come emerge dai bilanci pubblici della Società di Pontelongo, che questa società lavorò nel 1909-10, 1910-11, 1911-12 e 1912-13 in questi eser­ cizi per i primi tre nulla diede di dividendo e curò solo gli ammortamenti in misura esigua; nell’ultimo esercizio 1912-13 esso distribuì L. 680 mila cioè circa il 10 °/o comprese le riserve sul capitale allora esi­ stente dì 6 milioni e notisi dopo quattro anni di lavoro.

Nè può dirsi che le L. 880.000 di ammortamenti dell’ultimo esercizio 1912-1913 possono mettersi negli utili conseguiti, poiché rappresentando queste poco più del 7 % del valore degli stabili che figurano in bilancio per 12 milioni (essendo state emesse anche obbligazioni) e pensando che il macchinario rappre­ senta più_ dei due terzi del valore iniziale delle fab­ briche di zucchero, è evidente che ove il macchinario (che rapidamente si consuma) non fosse sovvenuto del 7 % annuo esso in pochi anni sparirebbe.

Ed ancora voglio fare una osservazione non detta alla Camera dall’on* Giretti ma da lui scritta in un opuscolo che é nelle mani di molti di noi, a proposito di un’altra società « L’Eridania » la quale (è detto a pag. 91 di detto opuscolo) avrebbe distribuito 55 °/0 alle azioni.

Veda on. Giretti io voglio essere franco con lei, e voglio dirle che è appunto quelTelevatissimo 55 % che mi ha spinto allo studio sereno di questa difficile questione. Poiché se si può comprendere che una

industria che presenta alee e difficoltà debba ricevere forti utili, qualora questi possono assurgere a pro­ porzioni cosi fantastiche, porterebbero per naturale conseguenza la necessità di provvedere con qualsiasi mezzo.

Dunque nelle ricerche da me fatte ho riscontrato (è il bilancio ufficiale dell’« Eridania » che mi forni­ sce i dati) anzitutto che il suo capitale non è di soli 6.500.000 lire circa, ma altresì di altri 20,500.000 cioè complessivamente di circa 27 milioni.

Per cui il 55 per cento si ridurrebbe soltanto al 10 e l’ i l per cento.

Ma vi è altro da osservare e cioè che 1’« Eridania » è una. società industriale e non soltanto zuccheriera; poiché col suo capitale di 27 milioni oltre l’industria dello zucchero ha: fabbrica di birra, iutificio, cotoni­ ficio, fabbrica di coperture di case « eternit», miniere, automobili Italia, eco. Cosicché non è facile verificare quanto del dividendo debba attribuirsi all’industra zuccheriera.

In queste mie poche osservazioni sono mosso dal solo desiderio di dissipare equivoci, onde la soluzione al problema zuccheriero sia più utile e rapido.

Nella seduta del 6 luglio 1910 in cui fu discusso l’aumento graduale di 6 lire nella tassa di fabbrica­ zione, il Ministro delle Finanze ed il nostro collega, Cesare Rossi autorevole rappresentante della grande industria, si trovarono concordi nel riconoscere che quello che più nuoce allo sviluppo delle nostre in­ dustrie è T incertezza, perché essa produce arresto e trattiene dalle migliorie con danno del perfeziona­ mento industriale e del miglioramento del personale. Abbiamo approvato una legge che avrà il suo svol­ gimento completo nel 1916. Intanto gli agricoltori potranno perfezionare la qualità e la produzione della barbabietola aiutati dalla esperienza della Stazione sperimentale in modo da poter fornire, senza loro danno, la materia prima a migliori condizioni all’in­ dustriale; questi potrà alla sua volta produrre a mi­ glior mercato e contentarsi anche di un guadagno più limitato. E lo Stato, liberato dalle presenti diffi­ coltà finanziarie, potrà alla sua volta pensare a di­ minuire le tasse sugli zuccheri; cosi queste varie cir­ costanze riunite contribuiranno insieme alla concor­ renza a fornire lo zucchero ai consumatori a prezzi più ridotti.

In una recente riunione tenutasi a Firenze, fu su proposta dcll’on. Incontri votato il seguente ordine del giorno: « L’assemblea fa voti che il Governo tu­ telando i legittimi interessi dell’agricoltura, dell’in­ dustria e del commercio, presenti sollecite provvi­ denze fiscali atte a diminuire fortemente il prezzo dello zucchero.

Concludendo! E bene che una questione così im­ portante si discuta ampiamente anche nel pubblico ed io penso che il Governo e più specialmente il Mi­ nistero di Agricoltura e Commercio, in base ai dati positivi e tecnici possa discuterla con gli stessi in­ dustriali in modo da portar luce sull’argomento ed ottenere una ulteriore graduale diminuzione nella protezione della industria che vada a tutto vantaggio dei consumatori.

Verso il libero scam b io 1’

Dal lungo esame dei vari stadi dell’industria co­ toniera e delle sue molteplici vicende possiamo trarre, per ora, la seguente conclusione: la nostra industria non potrà riprendere il suo normale as­ setto, se non quando riuscirà a stabilire un equi­ librio fra produzione e consumo, a procurarsi larghi sbocchi all’estero, aum entando le esportazioni in

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326 L'ECONOMISTA 24 maggio 1914

corso e conquistando nuovi mercati, a sistemare la propria base finanziaria e migliorare dal lato tecnico e commerciale la propria produzione.

« L a crise cotonnière — diceva Meline al Con­ gresso dell’industria cotoniera francese, il 21 giu­ gno 1904 — n’est pas un accident ordinaire et su­ perficie!, un trouble commercial passager qui finit de lui-même; c’est un état morbide permanent qui tient à des causes profondes préexistantes et tant qu’on ne s’attaquera pas à ces causes elles-mêmes, pour les conjurer ou les corriger, la maladie con­ tinuera ». Ai problemi accennati bisogna, dunque, che senza indugio la nostra industria cotoniera provveda con serietà di proposito e senza precon­ cetti.

Accenniamo prim a ai rim edi tentati e che si vanno attuando, e poi a quelli che, secondo noi, sarebbero più adatti e di esito più sicuro e dura­ turo.

Fra i primi i più im portanti sono: lo short-time e l'Istituto Cotoniero italiano.

Di fronte all’ imperversare della crisi sembrò che il restringimento della produzione fosse uno dei mezzi per accelerarne la risoluzione. E cosi nel 1909 fu anche in Italia adottato lo short-time già tentato, liti dal 1904, dagli industriali inglesi. In seguito ad un’ inchiesta fatta nel gennaio 1909 dall’Associa­ zione dei cotonieri, i rappresentanti dei maggiori cotonifici votarono a grande, maggioranza la pio- posta di sospendere il lavoro per 12 giorni. Nel 1910, per iniziativa dell’Associazione italiana, tale limi­ tazione fu di nuovo applicata; anzi, mentre nell’anno precedente avevano aderito solo due milioni di fusi, in quell’anno aderirono 12 ditte con 3.101.824 fusi e da 60 a 70 mila operai; dal marzo 1910 al gen­ naio 1911 furono ordinate 67 giornate di sospensione di lavoro, im portanti oltre 4 milioni e mezzo di giornate di disoccupazione per il personale operaio addettovi. Negli anni seguenti con successo quasi negativo, si è tentata l’organizzazione dello short Urne. Egli è die lo short-time, se può costituire rimedio per u n male temporaneo e per un’industria sana, riesce impotente a risolvere una crisi che trae le sue origini da uno stato di cose di lunga data e di na­ tura complessa. A causa della inferiorità tecnica e commerciale della nostra industria, nonché dello basi finanziarie poco solide delle varie aziende, tale sistema riesce esiziale; aumenta il danno per gli operai, che sono costretti a lunghi periodi di di­ soccupazione e per gli industriali che si trovano in condizioni economiche poco floride; costringe con troppa frequenza al credito e di conseguenza porta facilmente gli istitu ti a perdite considerevoli; au­ menta infine enormemente il costo di produzione, con grave danno del consumo interno e dell’espor­ tazione.

La nostra crisi, è detto in una relazione dei fila­ tori piemontesi, riportata nel Sole del 19 febbraio u. s. ed in successivo articolo comparso sullo stesso giornale il 27 dello stesso mese, è determ inata quasi interamente da una forte eccedenza di produzione, che supera presso che del 50% la richiesta interna; eccedenza che non può essere eliminata collo short-

time o con ferm ata di macchinari, che verrebbero

a gravare troppo sul prezzo di costo, ma che ha bi­ sogno invece di essere collocata sui mercati esteri a condizioni rim unerative. Del resto, che collo short-

lime non si sia raggiunto affatto, per la nostra in­

dustria cotoniera, lo scopo di equilibrare la produ­ zione al consumo, e quindi sostenere anche auto­ maticamente i prezzi, lo dimostra non solo il fafto della creazione dell’Istituto Cotoniero, ma la neces­ sità d i aver dovuto ricorrere ad un Sindacato auto­ nomo dei prezzi, che tante apprensioni ha giusta­ mente provocato, come fra poco ricorderò.

L’Istitiito Cotoniero Italiano, di recentissima co­

stituzione, è sorto collo scopo di equilibrare l’offerta

e la domanda a mezzo di un’intesa tra i fabbricanti di prodotti. Esso si propone di collegare presso che la totalità dell’industria in tu tti i suoi rami, in tu tte le sue fasi tecniche, in tu tti i suoi tipi di imprese, qualunque sia il grado, la consistenza e ro­ bustezza di queste, con l’intento di regolare l’in ­ dustria sia nella produzione che nella vendita e nell’esportazione.

A tali scopi l’Istituto provvede:

1° per quanto si riferisce alla produzione: a) col lim itarla, ove. occorra, mediante l’ado­ zione dello short-time, collegato ad un sistema di contributi annuali da ripartire fra gli aderenti in compenso del periodo di inazione;

p) col sostituire, quando si creda opportuno, allo short-time, il sistema del contingente, che sta­ bilisce, cioè, il massimo della produzione consentita ai singoli aderenti in ragione della potenzialità dei loro im pianti e del titolo medio filato.

2° per quanto riguarda la vendita:

a) con lo stabilire condizioni fisse di vendita, di pagamento, di durata dei contratti e perfino di misura dello sconto;

P) col promuovere sindacati per la fissazione dei prezzi di vendita;

Y) col costituire uffici di vendita per conto degli interessati per la l i partizione del lavoro e la vendita collettiva dei prodotti, oppure per la com­ pera e rivendita dei prodotti, sia nella forma di consorzio che di società indipendente;

5) coi creare, eventualmente, una Cassa centrale alla quale affidare tu tti i pagamenti.

3° per sviluppare l’esportazione:

a) coll’istituire, secondo il bisogno, consorzi e società di vendita all’estero;

P) coll’assegnare premi di esportazione; Y) coll’adottare misure di carattere straordi­ nario atte a dare all’esportazione più vigoroso e rapido sviluppo.

In una im portante lettera del senatore Ettore

Ponti, presidente del Consiglio generale dell’Istituto «

Cotoniero, apparsa sul Sole del 7 febbraio 1914, sono

chiaramente illustrati gli scopi della creazione ed i caratteri principali dell’Istituto stesso.

E’ opportuno, quindi, farne un rapido cenno. Di fronte al notevole incremento nella potenzia­ lità produttiva delle aziende, determinato da una sproporzione di impianti, cui avevano dato luogo la nota legge sull’abolizione del lavoro notturno cd altre numerose cause deprimenti, ne risultò — nota il Ponti — « una precipitosa discesa dei prezzi sul mercato interno, alla quale fece presto riscontro sul mercato internazionale la più sfrenata concor­ renza dei nostri esportatori, -costretti a vendere a qualunque prezzo, sotto l’assillo dell’insufficiente sfogo interno, le merci che prima vendevano con piena libertà e con bastevole guadagno ». E poiché « non vi era luogo a sperare che l’aumento della domanda, in un ambito assai più vasto di quello paesano, o qualsiasi modificazione alle vigenti ta­ riffe potessero esercitare un influsso benefico sul corso dei prezzi », parve che Vorganiszazione fosse il solo strumento di possibile salvezza, a tta a surro­ gare ancora l’azione doganale dello Stato divenuta insufficiente nei suoi effetti immediati.

Tale organizzazione, nel concetto dei promotori, a mezzo della compensata ferm ata dei fusi e dello

short-lime, avrebbe dovuto restituire l’equilibrio fra

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24 m aggio 4914 L ’ ECONOMISTA 327

a prezzi miti. Dunque « l’Istituto Cotoniero nacque con l’intendimento legittimo e plausibile di sup­ plire in una forma più complessa e diretta, nel­ l’ambito di due mercati comunicanti (inaccessibile all’efficacia dei dazi), a quello stesso influsso rego­ latore della produzione, dei modi di pagamento e dei profitti (per la equa e regolare loro distribuì zione tra filatori e tessitori) d i e poc’anzi bìespli­ cava per via automatica ed unica in un ambito solo ed omogeneo — mercato interno — mediante In, difesa doganale ».

Il Cabiati, nella Riforma Sociale, ha mosso a tali scopi e mezzi dell’Istituto vivace critica, la quale si può riassumere nell’aver posto in evidenza la impossibilità non solo, ma i pericoli di unificare in una sola, impresa tu tta l’industria cotoniera e regolarla in ogni suo ramo.

Non è nostro scopo intrattenerci a fondo sull’ar­ gomento, anclie per il fatto che sarebbe immaturo formulare giudizi definitivi su di un Istituto che solo da pochi mesi ha iniziato la sua attività. Pos­ siamo, però, fin d’ora, prevedere che i fini che si prefigge saranno difficilmente raggiunti per varie ragioni.

Vi è, anzitutto, una difficoltà sostanziale, già da parecchi rilevata. Un Istituto che si propone di collegare un numero rilevante eli aziende, diverse p er costituzione, per carattere di produzione, per potenzialità finanziaria, è troppo lontano dalla realtà della vita commerciale, e le si mette addi­ rittu ra contro quando si prefigge di riunire tali imprese con vincoli reciproci, con obblighi uni­ formi. con norme tassative e precise.

Si può aiutare la produzione, favorirne lo svi­ luppo, e regolarne le linee direttive, ma non si può riassumerne le infinite manifestazioni e pretendere di applicarvi uguaglianza di norme, uguaglianza di intenti, uguaglianza di rimedi. In ogni indu­ stria, ed in quella cotoniera specialmente, accanto a stabilimenti sani, vigorosi, forniti di credito, sostenuti da ampie riserve, vi sono imprese sorte a fine di speculazione, senza patrimonio, dai sistemi di lavorazione im perfetti, oberate da gravi stock di merci, trascinanti pesanti immobilizzazioni ; ed un Istituto che nella sua ferrea costituzione pone gli uni accanto alle altre e si propone di rispettare qualsiasi azienda non solo, ma di aiutare le più deboli, ili sorreggerle con lo scopo, il più delle, volte vano, di ricostituirle, va inconsapevolmente contro gli interessi stessi dell’industria; riversa sugli industriali seri e previdenti le colpe di quelli che di tali doti non furono in grado di dar prova, e costringe le aziende forti e promettenti, produ­ centi a basso costo, ad oneri gravi per risanare le altre inferiori; fra le quali altrim enti si produr­ rebbe naturalm ente una benefica selezione a van­ taggio di tu tta quanta l ’industria.

Senonchè il Ponti, nella lettera sopra ricordata, osserva che non dovrebbe destar meraviglia il fatto che alcune aziende abbiano eccezionalmente potuto resistere all’urto della crisi ed altre no; poiché le crisi, come avviene sempre, portano con sé il sov­ vertimento di ogni assetto economico e finanziario. In tu tti i casi le ragioni della solidarietà — egli continua — scaturiscono evidenti ove si consideri che gli interessi dell’industria non sono soltanto

individuali, bensì anche collettivi, e che quindi non

è lecito volere il trionfo dei pochi più forti a prezzo della irreparabile iattura di tu tto uno stuolo di azionisti, creditori, banche, eco., e dei supremi interessi dell’economia nazionale e dello Stato.

Nessuna obbiezione potrebbe opporsi a queste parole piene di carità economica, se non avesse consistenza il timore, fondato sulla esperienza, che un Istituto sorto con questi scopi si risolve in una

nuova forma di protezione, la quale a lungo an­

dare, ha per risultato di proteggere la nascita di

imprese fin dall’inizio prive di energia propria e fidenti solo dell’altrui soccorso, di perpetuare la esistenza tisica di quelle numerose che da tempo si trascinano senza speranza di risurrezione, di sof­ focare nelle più forti ogni senso di responsabilità, ogni spirito d’intraprendenza; e procurare così, in breve, alla nostra industria, che ha bisogno del benefico vento della concorrenza, una vita, artifi­ ciale, viziosa, stagnante.

Difficoltà speciali poi si oppongono all’attuazione del programma. Innanzi tu tto ostacoli tecnici non trascurabili. Molte aziende esercitano contempora­ neamente più lavorazioni; vi sono, per esempio, Stabilimenti filatori-tessitori, o filatori-tessitori- stampatori ; come adattare ad essi le norme sinda­ cali predisposte per una netta separazione fra i diversi rami dell’industria! Come regolare poi la produzione! Con quali criteri so ne stabilirà il mas­ simo o la sospensione in un dato momento! E come si concilieranno, in quest’ultimo caso, i bisogni di uno stesso stabilimento che possiede vari reparti per i diversi stadi di produzione!

Da esecuzione di un altro punto del programma, la vendita con la tendenza di centralizzatile l’ufficio, è di riuscita molto dubbia, data specialmente la grande varietà della produzione, la mancanza di solidarietà e l’interesse che hanno venditori e compratori di mantenere rapporti personali fra di loro.

Illusorio, infine, è il tentativo di favorire l’espor­ tazione mediante premi. A parte la difficoltà enor­ me di applicazione ed il fatto che anche il peso del premio di esportazione verrebbe a gravare sul prezzo del filato destinato all’interno, e cioè su più della m età della produzione totale, il rimedio è troppo inadatto e meschino per lo scopo che si vuole raggiungere. Come nota il Tschierschky, il noto redattore della « Rivista tedesca dei Car­ telli », un premio di 50 centesimi per fuso arre­ cherebbe all’ industria un beneficio di due milioni, il quale, rispetto ad una esportazione di 200 mi­ lioni, rappresenta una somma veramente derisoria. L’industria cotoniera è preoccupata ancora, e lo sarà per molto tempo, a collocare senza perdita, le forti eccedenze della sua produzione. Il valore delle esportazioni, che nel 1913 è salito a lire 252.71-z.124 contro L. 199.316.090 nel 1912 e lire 225.687.867 nel 1911, ci prova che la preoccupa­ zione maggiore è quella di trovare nuovi sbocchi ai nostri prodotti. Specialmente le tessiture a co­ lori (esportate per L. 105.846.788 nel 1913 contro L. 85.662.505 nel 1912) e le stamperie (esportate per L. 36.155.270 nel 1913 contro L. 19.381.172 nel 1912) hanno questo difficile compito e vi atten­ dono con alacrità ed energia. Ma l’esuberante pro­ duzione si colloca col ribasso dei prezzi e non con l’aumento. L’industria cotoniera deve essere sa­ nata riducendo il più che possibile i costi di pro­ duzione, sì da farli avvicinare al limite di paesi in condizioni migliori delle nostre. Ogni riduzione di costo è un passo verso il miglioramento e la salute. L’Istituto Cotoniero, invece, che si propone mezzi che aumentano il costo, quali lo sliort-time. la ferm ata di macchinari compensata, il Sindacato di vendita, il Sindacato autonomo filati, i premi di esportazione, si allontana sempre più dalla ri­ soluzione di quella crisi che da tan ti anni affligge la nostra industria.

Abbiamo ricordato il Sindacato autonomo filati: è pur necessario accennare brevemente agli scopi della sua creazione ed alle recenti polemiche sorte in proposito.

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raggimi-328 L ’ ECONOMISTA 24 maggio 1914

gere lo scopo con un Sindacato prezzi nell’ambito dell’ Istituto, avente la durata di questo, ed obbli­ gatorio per tu tti i suoi aderenti, molti Alatori de­ liberarono di ricorrere alla formazione di un Sin­

dacato autonomo per i prezzi dei filati America, il

quale sarebbe stato seguito a breve distanza da altro Sindacato per i filati India.

Contro tale nuovo Sindacato hanno protestato energicamente i tessitori del Piemonte opponendo che sarebbe distrutto l’equilibrio che deve regnare fra tu tte le categorie dell’industria cotoniera. Ed infatti un Sindacato tra i filatori avrebbe i se­ guenti effetti disastrosi già rilevati dai cotonieri piemontesi: conflitto di interessi fra i suoi membri e gli industriali non provvisti di filatura; venendo a trovarsi in condizioni privilegiate i concorrenti che possiedono filature annesse a stabilimenti di tessitura, come quelli che possono calcolare i filati al prezzo che vogliono, mentre gli altri, dovendo calcolare i filati al prezzo del Sindacato, si trove­ ranno in condizioni di inferiorità; una immanca­ bile riduzione di vendite così all’interno che al­ l’estero; un incentivo a creare nuove filature o rimettere in azione quelle inattive, da cui una nuova superproduzione e quindi nuovo periodo di crisi.

Nè vale opporre che l'aum ento dei prezzi sarà lieve, perchè, come faceva giustamente notare la relazione dei cotonieri piemontesi, se lo scopo è di rendere redditizia la quasi totalità della filatura, l’aumento dovrà invece essere rilevante ove si con­ sideri la enorme differenza di costo tra filatura e filatura e la necessità di proteggere allora non solo i forti, ma anche i deboli, che purtroppo sono i più numerosi.

È appena sorto l’Istituto cotoniero, che già co­ minciano a prodursi scissioni, le quali non ne favori­ ranno certo la solidità, e che d’altra parte ne di­ mostrano la impotenza a risolvere gli ardui pro­ blemi dell’ industria cotooiera.

*

* *

Non è dunque collo short-time, nè coll'Istituto Cotoniero che si solleverà l’industria cotoniera.

Sono, anzitutto, difficoltà tecniche e fiscali quelle che hanno impedito ad essa di potersi sviluppare e vantaggiosamente competere cogli altri Stati.

Entrato da poco tempo nel campo della grande industria, il cotonificio è tecnicamente inferiore, non per la natura degli im pianti industriali i quali, essendo forniti di moderni macchinari, non hanno forse nulla da invidiare agli stabilimenti stranieri, ma per un complesso di cause di cui qua e là nelle pagine precedenti ho fatto cenno più volte. E principalmente la nostra industria deve aspirare alla specialiszasione. Una stessa azien­ da molto spesso è in Italia nello stesso tempo adi­ bita alla filatura, tessitura, candeggiatura, spedi- tura, tu tte funzioni che richiedono attitudini e competenze differenti e che, invece, mal si affidano ad un personale inadatto ed incapace talvolta. La produzione non può riuscire di qualità fina, ed è poco adatta all’esportazione, dovendo i prodotti nostri, per la conquista dei mercati, sostenere la concorrenza di nazioni che producono meglio ed a migliori condizioni.

A tu tta la m ateria dei trasporti deve provve­ dersi poi largamente, se non si vuole che questo coefficiente importantissimo della buona riuscita dei commerci sia invece causa di inferiorità per l’industria italiana. Nelle importazioni e nelle esportazioni noi ci troviamo ancora a dover sop­ portare spese ingenti pei trasporti che gravano per le prim e Sul costo di produzione e per le se­ conde sul prezzo finale di vendita. Per le im porta­ zioni siamo costretti, come osserva il Di Nola, far

giungere il cotone greggio dai porti tedeschi e fran­ cesi, anziché dai nostri naturali del Mediterraneo e dell’Adriatico, perchè più convenienti sono le condizioni e più solleciti i trasporti.

K non solo ai mezzi di comunicazione m arittim i

dobbiamo provvedere, ma anche a quelli interni. « L’apertura e la frequenza di nuove strade, la fa­ cilità e comodità dei trasporti, non solo corrispon­ dono ad un abbattim ento generale di barriere in­ terne, inceppanti i commerci da luogo a luogo, ma virtualm ente allargano il territorio nazionale per lo scambio delle deirate e delle merci nazionali di ogni specie a scapito dei concorrenti forestieri » (Stringher). E noi, per l’industria del cotone, dob­ biamo non solo apportare tu tti quei miglioramenti che valgano a diminuire il costo di produzione, ma anche quelli che ne facilitino lo smercio al­ l’estero ed il consumo all'interno.

Ad abbassare sempre più il costo di produzione bisogna provvedere, infine, con opportune riduzioni fiscali, specialmente per ciò che riguarda gli oneri derivanti dall’imposta sui fabbricati, ove si eser­ cisce l’industria e la tassazione dei corsi di acqua costituenti la forza motrice, la quale, calcolata con tariffe elevate, ci fa doppiamente risentire la nostra inferiorità industriale, derivante dalla mancanza di carbón fossile di cui siamo larghi tributari dal­ l’estero.

Fra le cause della crisi cotoniera abbiamo dato speciale rilievo alla produzione eccedente i bisogni del consumo e la possibilità degli sbocchi all’estero. Ci siamo riservati di accennare ora ad un’altra causa che sfugge ordinariamente all’attenzione ge­ nerale. per poterne tra ttare più ampiamente a, pro­ posito dei nuovi orizzonti cui deve l ’industria del cotone rivolgere i suoi sforzi.

Per il provvedimento della materia prim a noi siamo soggetti _ oggidì ai mercati di produzione americani, egiziani, indiani; e l’incostanza ed una relativa elevatezza di prezzi, provocati da uno stato di semi-monopolio, sono non ultimecause della lung-a e disastrosa crisi (1). Quando si pensa che gli Stati Uniti producono il 60°/0 del cotone che si consuma nel mondo e 1’80% di quello tipo fonda- mentale, cioè adatto alla maggior parte degli usi, sara facile immaginare come il cotone americano sia padrone dispotico di tu tti i mercati esteri.

Nelle condizioni attuali il prezzo della materia prim a può essere ad ogni momento artificialmente aum entato per mezzo di operazioni finanziarie troppo bene conosciute al di là dell’Atlantico. Allo stesso modo del grano il cotone può essere acca­ parrato; ed allora non è possibile al compratore di procurarsi i suoi approvvigionamenti in America che ad un prezzo talmente elevato da cagionare necessariamente gravi perdite finanziarie. Alla dif­ ficoltà creata dalla penuria, può aggiungersi ad ogni momento un aumento di prezzo abilmente provocato ed a cui riesce impossibile all’acquirente di poter sfuggire.

È ovvio come il miglior mezzo per rendersi il più possibile indipendenti dal mercato Nord-Ame­ ricano sia quello di aumentare nei singoli paesi la superficie consacrata attualm ente alla cultura del cotone. Lo hanno compreso moltissime nazioni, le quali, come l’Inghilterra, la Germania, la Russia, la Francia vanno studiando i mezzi per estendere la cultura nei propri territori e nelle proprie co­ lonie. _ Così gli Inglesi in Guinea e nelle regioni del Niger e dell’ Ouganda, i belgi al Congo e i

(1) C fr. L a eo tonicultura nel M ezzogiorno (li Gu id o

Ma n g a n o.

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24 maggio 1914 L ’ ECONOMISTA 329

Francesi nell’Africa occidentale ed equatoriale stanno effettuando notevoli esperimenti. La Russia è divenuta produttrice im portante di cotone nei suoi possedimenti asiatici, specialmente nel Turkestan, la cui produzione, nel 1908, con le provincie cau- casiche, ascendeva a 355 milioni di chilogrammi.

Anche l’ Italia, che deve annualm ente importare molte centinaia di migliaia di quintali eli cotone, pagando agli Stati Uniti un tributo di circa 350 mi­ lioni di lire (nel 1911 si sono im portati Ql. 1.900.000 di cotone per un valore di 346 milioni di lire), non può mancare di dare alla questione il più grande valore.

Ho già, al principio del presente studio, accen­ nato alle ragioni che avevano provocato un note­ vole progresso nella cotonicultura ed a quelle che ne determinarono poi l’abbandono. Oggi la colti­ vazione del cotone è lim itata ad alcuni punti del Mezzogiorno: in Calabria, in Sicilia ed in qualche paese della Basilicata e delle Puglie. Non è il caso di indagare per quali ragioni si sia dim inuita la cultura del cotone: vi contribuirono certo i prezzi bassi del prodotto, l’aum entato tasso dei salari ed i cresciuti valori fondiari; ma ci avvicineremmo più al vero attribuendo il regresso al mancato au­ mento di produzione u n itaria ed ai mancati mi­ glioramenti di prodotto, che avrebbero permesso di superare le difficoltà derivanti dal diminuito prezzo del cotone.

L’interesse della nostra industria reclama che una parte del cotone che ci è necessario sia pro­ dotto in territorio nostro. Già nelle colonie (Eri­ trea, Somalia) abbiamo una discreta produzione. Da vari anni, in Italia, si è costituita la « Società per la coltivazione del cotone in Eritrea », la quale dopo grandi difficoltà si è definitivamente im pian­ ta ta con risultali discreti, perchè da ql. 473,35 nel primo esercizio, si è giunti oggi ad una raccolta di dieci mila circa. Ma la produzione delle colonie sarà sempre, malgrado i miglioramenti da adot­ tarsi ed i progressi che innegabilmente ne segui­ ranno, insufficiente; e non cesserà quindi l’appello ansioso agli agricoltori italiani di esperimentare su larga scala, specie nel Mezzogiorno, la cultura del cotone.

Una tale cultura è possibile e conveniente? Che sia possibile non può porsi in dubbio dopo gli esperimenti passati e la buona riuscita di essi; che sia conveniente lo prova il seguente giudizio della citata relazione: « In determ inate condizioni am­ bientali la cotonicoltura può essere conveniente­ mente diffusa nel mezzogiorno continentale ed in­ sulare, e ciò anche senza ricorrere a forme di pro­

tezionismo non nuove nell’agricoltura italiana.

Crediamo inoltre di poter dimostrare ohe la dif­ fusione della cotonicultura può anche riuscire indi­ rettam ente utile all’agricoltura meridionale, risol­ vendo o facilitando la risoluzione di qualcuno di quei problemi da cui dipende l’evoluzione econo­ mica di quelle regioni ».

Molto recentemente il prof. Goffredo Jaja, in uno studio sulla « questione cotoniera e la cultura del cotone in Italia » (Roma, 1914), con ampio corredo di documenti e di (lati, ha dimostrato che la coto- uieultura potrebbe, con grande utilità, essere eser­ citata nella Campania, nella Basilicata, nelle P u ­ glie, nella Calabria. Nelle provincie di Teramo, di Chieti, di Campobasso la zona cotonifera potreb­ be estendersi per circa 180 chilometri nel litorale dal Tronto al Fortore e per 4-5 chilometri tra la costa ed i primi contrafforti dell’Appennino. In Sicilia, come ha dimostrato il Bruccoleri ( f a Si­

cilia d’oggi, 1914, p. 186-201), in due grandi pia­

nure: quelle di Catania e di Terranova la cultura del cotone sarebbe possibile. Perchè dunque non studiare questa nuova fonte di produzione pel nostro paese, la quale si risolverebbe ancora in

un fattore di rinnovamento pel nostro Mezzo­ giorno ’?

Crede il Lavasseur che, malgrado le recenti crisi il mondo non sia ancora saturo di cotone; che il consumo aum enterà e determinerà l’accrescimento della produzione; e si è calcolato da altri che, mentre oggi la produzione media annuale di cotone è di 17 milioni di balle, quando tu tte le popola­ zioni del mondo saranno giunte ad un grado medio di civiltà, occorreranno 42 milioni di balle. È ne­ cessario, quindi, che per l’attuale interesse della propria industria cotoniera e per l’interesse avve­ nire, anche l’Italia pensi seriamente alla produ­ zione della materia prima nelle sue terre così pro­ m ettenti di buoni risultati.

La prosperità dell’industria del cotone dipende, finalmente, da una larga esportazione, sulla quale nulla può influire quanto un nuovo e migliore in­ dirizzo nella politica doganale. L’esperienza ha posto in luce, in Italia e fuori, i vizi della prote­ zione. I fatti — come dice il Pareto — parlano da per loro, senza bisogno uè di teorie nè di interpre­ tazioni più o meno arrischiale. Ed i fatti e le cifre ci dicono appunto che la nostra esportazione, quan­ tunque in via di aumento, deve aspirare ad una maggiore espansione ed alla conquista durevole di nuovi mercati.

11 8ole del 28 gennaio ultimo, ad esempio, faceva rilevare il lato debole del nostro commercio cogli Stati Uniti, in una insignificante partecipazione al­ l’importazione di m anufatti in quel paese, rappre­ sentanti solo il 7 per cento del totale commercio nazionale d’importazione, asceso a dollari 48.028.529. Siffatta inferiorità, di fronte all’elevata percentuale dei m anufatti piovenienti da altri paesi, se dipende in parte da differenza di razza, di costumi, da poca conoscenza del mercato americano da parte dei no­ stri fabbricanti, trova la spiegazione più naturale in un mancato sviluppo ostacolato da una politica doganale che nessuna sana vigoria ha saputo co­ municare alla nostra industria.

Avvertono i protezionisti « che sotto il regime dei tra tta ti di commercio e durante l’applicazione amichevole di convenzioni, le quali talora hanno agito di freno alle soverchie pretese dei banditori della protezione ad ogni costo, e ta l’altra hanno servito di propulsore e di stimolo alle correnti dei traffici, incitatrici di utili concorrenze, tu tta l’eco­ nomia italiana ha progredito » (Stringher). Noi non vogliamo mettere in dubbio i progressi fatti; vor­ remmo solo che fossero aperte le vie per quelli maggiori da effettuarsi, perchè noi non potremo mai essere un buono e fecondo popolo esportatore fino a quando la merce giungerà sul mercato estero con prezzi enormemente rincarati per effetto dei dazi protettori.

Aveva l’industria del cotone bisogno, nei primi anni della nostra vita di nazione, di un periodo di raccoglimento e di tu tela; e gli è stato concesso. Durante questo periodo si è perfezionata in modo tale da concorrere, come si è visto, sui mercati già occupati dai prodotti di altre nazioni. Se malgrado i vincoli, ov’era inceppata, la concorrenza è stata vittoriosa, una maggior libertà, da ottenersi con riduzione di dazi, non solo non potrebbe danneg­ giare la esportazione, ma le darebbe più vigore e padronanza di sè.

Le poche, ma luminose esperienze che abbiamo fino ad ora, sono di prezioso esempio.

In Inghilterra la grande patria della libertà com­ merciale, s’è vista nascere e sviluppare nel Lan­ cashire una potente industria cotoniera. Questo centro è divenuto la fortezza del libero scambio.

V Economist degli 8 gennaio 1910, così scriveva:

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