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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

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Academic year: 2022

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(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

Facoltà di Scienze Corso di Laurea in Fisica

Tesi di Laurea

Diagnostica e stato di conservazione della Chiesa di San Giuseppe in Cagliari:

Studio Raman della volta affrescata

Relatore

Dott. Daniele Chiriu

Anno accademico 2015/2016

Candidato Francesca Assunta Pisu

(2)

A SH

perché tutto è nato da te

(3)

I

Indice

Introduzione ... 1

Capitolo 1: Raman applicato ai beni culturali: Tecniche e apparati sperimentali ... 3

1.1 Teoria Raman ... 3

1.1-1 Frequenze vibrazionali ... 9

1.1-2 Classificazione dei modi normali mediante la simmetria ... 11

1.2 Evoluzione della spettroscopia Raman e impieghi ... 13

1.3 Strumentazione ... 17

Capitolo 2: Tecnica dell’affresco ... 24

2.1 Intonaco e malte nell’affresco ... 24

2.2 Il disegno preparatorio ... 27

2.3 I pigmenti più comuni ... 28

2.4 Affresco della chiesa di San Giuseppe ... 32

Capitolo 3: Analisi dati ... 37

3.1 Presentazione dei campioni ... 37

3.2 Dati sperimentali... 39

3.3 Analisi e discussione ... 45

3.4 Diagnostica e stato di conservazione ... 51

Conclusioni ... 53

Indice delle figure ... 55

Bibliografia ... 57

Ringraziamenti ... 59

(4)

1

Introduzione

La microscopia Raman è una tecnica che unisce le capacità identificative della spettroscopia Raman con l’abilità di sondare il dettaglio mediante l’uso di un microscopio, tale tecnica acquisisce un enorme valore soprattutto se viene implementata con strumenti portatili che possono operare “in situ”. Un’analisi così minuziosa trova molti campi di applicazione, tra cui quello trattato in questo lavoro: diagnostica e stato di conservazione di un bene culturale.

Per diagnostica si intende la possibilità di caratterizzare la composizione di una superficie esaminata, comprendendo quale tecnica di realizzazione è stata eseguita, scoprendo azioni di restauro precedenti o di semplice modifica, rilevando inoltre alterazioni dei composti strutturali derivate dal tempo, dalle condizioni atmosferiche e da attività microbiologiche.

Lo stato di conservazione indica come si è conservato nel tempo il manufatto, ossia quali processi di degrado esso ha subito e dunque la presenza di determinate sostanze derivate da un processo di deterioramento chimico-fisico-biologico. È utile conoscere la tipologia di realizzazione, i pigmenti usati, la presenza di deterioramenti affinché gli esperti in restauro possano intervenire con le giuste modalità. Nella conservazione e nella pulizia di una pittura murale si usano solventi caratteristici in base alla tecnica pittorica eseguita; per tale è necessario sapere, prima di intervenire sull’opera, se è presente una coesistenza di due o più tecniche pittoriche sullo stesso supporto per evitare danneggiamenti. Un ulteriore danno potrebbe essere provocato dall’ignoranza di sostanze estranee alla pittura che creano un deterioramento sulla superficie.

Mediante un’adeguata analisi Raman i fisici e i chimici aiutano e indirizzano gli esperti nel lavoro di restauro.

In questo lavoro, insieme al Dipartimento di Ingegneria e Architettura di Cagliari, abbiamo soddisfatto questa richiesta. Abbiamo analizzato e caratterizzato mediante la microscopia Raman parti di affresco provenienti dalla Chiesa di San Giuseppe di Cagliari con l’intento di scoprire quali materiali sono stati usati dall’autore per realizzare l’opera, la presenza di modifiche pittoriche, la composizione della malta e dell’intonaco. Inoltre l’indagine è stata rivolta verso l’individuazione di eventuali prodotti di degrado sulla parte superiore dell’intonaco.

Il lavoro di tesi può essere riassunto nel seguente modo:

(5)

2

il primo capitolo è dedicato alla teoria Raman, alla strumentazione usata e allo sviluppo di questa tecnica di analisi;

nel secondo capitolo viene dato spazio alla tecnica di realizzazione dell’affresco e ai pigmenti più comuni nelle tecniche murali, infine ci si concentra sull’affresco esaminato;

il terzo capitolo contiene una descrizione dei campioni dell’affresco, l’analisi dei dati e una breve discussione sulla diagnostica e stato di conservazione dell’opera.

(6)

3

Capitolo 1: Raman applicato ai beni culturali: Tecniche e apparati sperimentali

Uno spettro Raman nasce dallo scattering anelastico tra i fotoni del fascio incidente e le molecole del campione esaminato. A seguito dell’urto, il fotone può cedere parte della sua energia alla molecola oppure acquistarne parte da essa. Il fotone diffuso avrà dunque una frequenza maggiore o minore rispetto a quello incidente. Lo spettro Raman sarà caratterizzato da righe a frequenza più alta dette anti- Stokes e a frequenza più bassa dette Stokes. Tale scattering anelastico è noto come scattering Raman dal nome del fisico C.V.

Raman che lo scoprì sperimentalmente e per cui ottenne il Nobel nel 1930.

Inoltre una parte del fascio incidente viene diffusa elasticamente: il fotone non varia la sua energia e viene riemesso con la frequenza originaria, ma cambia la sua quantità di moto.

Tale scattering prende il nome di diffusione di Rayleigh. Possiamo rappresentare, in approssimazione armonica, le interazioni tra i nuclei di una molecola come l’unione di oscillatori armonici [1]. I nuclei possono variare la loro posizione dal punto di equilibrio vibrando, per tutta risposta la molecola tende a riportare i nuclei all’equilibrio; tali vibrazioni avvengono con una frequenza caratteristica di quella particolare molecola. Le vibrazioni molecolari, e dunque le frequenze, possono essere rilevate mediante tecniche spettroscopiche quali la spettroscopia Raman.

1.1

Teoria Raman

In una molecola biatomica i livelli vibrazionali sono quantizzati e l’arrivo di un fotone di energia ℎ𝜈0 può causare delle transizioni quando la sua energia è pari alla differenza tra due stati [2]. Nell’effetto Raman si fanno considerazioni sulle transizioni vibrazionali, quando la radiazione incidente viene diffusa all’interno del materiale. La luce diffusa sarà di due tipi:

scattering di Rayleigh, con la stessa frequenza di quella incidente e scattering Raman, la cui intensità è 105 volte inferiore a quella incidente e con frequenze date da 𝜈0± 𝜈𝑚. A tali frequenze corrispondono delle linee nello spettro Raman, dette righe Stokes per 𝜈0 − 𝜈𝑚, e righe anti-Stokes per 𝜈0+ 𝜈𝑚. Dove 𝜈𝑚 è la frequenza di vibrazione associata a quella

(7)

4 particolare molecola. Calcoliamo quest’ultima come shift rispetto alla frequenza incidente 𝜈0 , che viene impostata come zero nello spettro, come si vede dal grafico sotto:

Figura 1: Tipico spettro Raman

La radiazione incidente è scelta in modo tale che la sua energia sia più piccola rispetto al primo salto elettronico: 𝑗 = 0  𝑗 = 1 . Essa porta il sistema in uno stato virtuale, più alto rispetto ai livelli vibrazionali, e viene detto virtuale per distinguerlo dal vero stato eccitato della molecola. Quando la molecola si diseccita rispetto a questo stato virtuale, essa può tornare allo stato vibrazionale di partenza, in tal caso non avendo alcuna transizione 𝑣 = 0 → 𝑣 = 0, abbiamo il noto scattering elastico di Rayleigh; quando avviene la transizione 𝑣 = 0 → 𝑣 = 1 nello spettro vedremo le righe Stokes.

Se invece la molecola si trovava in uno stato vibrazionale eccitato (𝑣 = 1) e dopo la diffusione ritorna allo stato fondamentale (𝑣 = 0), è avvenuto scattering Raman con righe anti-Stokes, come si osserva dalla figura sottostante.

(8)

5 Figura 2: Transizioni Raman

In generale il riempimento degli stati energetici più bassi in una molecola segue la distribuzione di Maxwell-Boltzmann, per cui lo stato fondamentale avrà maggiore popolazione di quello eccitato. Questo implica che le linee Stokes saranno più intense delle anti-Stokes poiché vale la seguente relazione:

𝐼𝑎𝑛𝑡𝑖−𝑆𝑡𝑜𝑘𝑒𝑠

𝐼𝑆𝑡𝑜𝑘𝑒𝑠 = (𝜈0+ 𝜈𝑚)4

(𝜈𝑜− 𝜈𝑚)4𝑒−(𝐸1−𝐸0)𝐾𝑇 (1-1)

Possiamo dare una spiegazione del fenomeno dello scattering Raman usando la teoria classica [1]. Associamo al fascio laser sorgente un campo elettrico oscillante nel tempo, con ampiezza 𝐸0 e frequenza 𝜈0, dato dalla seguente relazione:

𝐸⃗ = 𝐸⃗ 0cos (2𝜋𝜈0𝑡)

(1-2)

Se una molecola biatomica viene investita da tale fascio, essa inizia a oscillare, ossia s’induce nella molecola un momento di dipolo 𝑃. Il momento di dipolo è dato dal prodotto tra il

𝑣 = 0 𝑣 = 1

(9)

6 campo esterno incidente e la polarizzabilità, che dipende dalla struttura della molecola, e la possiamo ricavare come derivata seconda dell’energia del dipolo:

𝛼𝑖,𝑗= −𝜕2𝐸𝑑𝑖𝑝

𝜕𝐸⃗ 𝑖𝜕𝐸⃗ 𝑗 (1-3)

Se la molecola è simmetrica (i=j) avremo un valore uguale in tutte le direzione, se è asimmetrica avremo valore diversi del tensore in base alla direzione.

Abbiamo dunque:

𝑃⃗ = 𝛼𝐸⃗ = 𝛼𝐸⃗ 0𝑐𝑜𝑠2𝜋𝜈0𝑡

(1-4)

La molecola vibra con una frequenza 𝜈𝑚 e possiamo rappresentare lo spostamento nucleare con:

𝑞 = 𝑞0𝑐𝑜𝑠2𝜋𝜈𝑚𝑡 (1-5)

Come detto in precedenza la polarizzabilità dipende dalla struttura della molecola e dalla sua vibrazione, se l’ampiezza di tali vibrazioni è piccola, 𝛼 sarà una funzione lineare di 𝑞:

𝛼 = 𝛼0 + (𝜕𝛼

𝜕𝑞)

0

𝑞 +. . .

(1-6)

Dove il primo termine rappresenta la polarizzabilità all’equilibrio, il secondo la variazione della polarizzabilità rispetto alla variazione di q, valutata all’equilibrio.

Sostituendo nella (1-4) le formule (1-6) e (1-5), si ottiene:

𝑃 = 𝛼0𝐸0𝑐𝑜𝑠2𝜋𝜈0𝑡 + (𝜕𝛼

𝜕𝑞)

0

𝑞0𝐸0𝑐𝑜𝑠2𝜋𝜈0𝑡 𝑐𝑜𝑠2𝜋𝜈𝑚𝑡

(1-7)

(10)

7 Notiamo che il campo esterno genera due effetti sulla molecola, il primo effetto, dato dal primo termine che dipende solo dalla frequenza incidente, è uno scattering elastico, il secondo effetto rappresentato dal secondo termine presenta due frequenze, per vederlo meglio usiamo la formula trigonometrica di Werner:

1

2(𝜕𝛼

𝜕𝑞)

0

𝑞0𝐸0[𝑐𝑜𝑠{2𝜋(𝜈0+ 𝜈𝑚)𝑡} + cos {2𝜋(𝜈0− 𝜈𝑚)𝑡}]

(1-8)

Abbiamo un termine di dipolo dipendente dalla frequenza 𝜈0+ 𝜈𝑚 e uno dipendente dalla frequenza 𝜈0− 𝜈𝑚 . Questi corrispondono allo scattering Raman rispettivamente anti-Stokes e Stokes. Quando sono presenti questi termini, la vibrazione è detta Raman-attiva. Se (𝜕𝛼𝜕𝑞)

0 = 0 resta solo il termine di scattering di Rayleigh e la vibrazione non è più Raman- attiva.

Possiamo descrivere l’effetto Raman da un punto di vista quantistico. Usiamo la teoria perturbativa dipendente dal tempo [3], considerando il fascio di luce incidente come una perturbazione periodica 𝐻= 𝜇𝐸 e la molecola allo stato iniziale sarà rappresentata da autofunzioni e hamiltoniana indipendenti dal tempo. Possiamo scrivere l’hamiltoniana totale dipendente dal tempo nel seguente modo:

𝐻(𝑡) = 𝐻0+ 𝜆𝐻′(𝑡)

(1-9)

L’equazione di Schrondinger dipendente dal tempo sarà data da:

𝑖ℏ𝜕Ψ𝑛(𝑡)

𝜕𝑡 = 𝐻(𝑡)Ψ𝑛(𝑡)

(1-10)

Applicato il campo esterno, il sistema viene perturbato, possiamo scrivere la nuova funzione d’onda che lo rappresenta fermandoci al primo termine perturbativo:

(11)

8

Ψ = Ψ𝑛0+ Ψ𝑛1

(1-11)

Sostituendola nell’equazione (1-10) e sottraendo i termini dell’ordine zero [4] si ottiene come funzione d’onda al primo ordine perturbativo la seguente espressione:

Ψ𝑛1 = 1

2ℏ∑ 𝜓𝑟0( 𝜇𝑟𝑛𝐸0

𝜔𝑟𝑛− 𝜔𝑒−𝑖(𝜔𝑛+𝜔)𝑡+ 𝜇𝑟𝑛𝐸0

𝜔𝑟𝑛+ 𝜔𝑒−𝑖(𝜔𝑛−𝜔)𝑡)

𝑟

(1-12)

Con 𝜔𝑟𝑛 = 𝜔𝑟− 𝜔𝑛.

La transizione da uno stato iniziale Ψ𝑖 a uno finale Ψ𝑓 è rappresentata dal valore d’aspettazione del momento di dipolo indotto tra stato iniziale e finale:

𝑀𝑓𝑖(𝑡) = ⟨Ψ𝑓|𝜇|Ψ𝑖⟩ ≈ ⟨Ψ𝑓0+ Ψ𝑓1|𝜇|Ψ𝑖0 + Ψ𝑖1⟩ = 𝑀𝑓𝑖0 + 𝑀𝑓𝑖1

(1-13)

Il termine all’ordine zero può essere trascurato poiché rappresenta una transizione normale di dipolo, non è legata all’effetto Raman. Esplicitando le funzioni d’onda e svolgendo i prodotti si ottiene:

𝑀𝑓𝑖(𝑡) = 𝑀𝑓𝑖1 = 𝑒𝑖(𝜔𝑓𝑖−𝜔)𝑡

2ℏ ∑ (𝜇𝑓𝑟(𝜇𝑟𝑖𝐸0)

𝜔𝑟𝑖− 𝜔 +𝜇𝑟𝑖(𝜇𝑓𝑟𝐸0) 𝜔𝑟𝑓+ 𝜔 )

𝑟

+𝑒𝑖(𝜔𝑓𝑖+𝜔)𝑡

2ℏ ∑ (𝜇𝑓𝑟(𝜇𝑟𝑖𝐸0)

𝜔𝑟𝑖+ 𝜔 +𝜇𝑟𝑖(𝜇𝑓𝑟𝐸0) 𝜔𝑟𝑓− 𝜔 )

𝑟

(1-14)

Se 𝜔𝑓𝑖 è positiva, abbiamo scattering Stokes, nel caso opposto avremo scattering anti- Stokes.

Quando lo stato iniziale e finale coincidono si ha lo scattering di Rayleigh, che è proporzionale a |𝑀𝑖𝑖|2 , dove:

(12)

9

𝑀𝑖𝑖 = 𝑀𝑖𝑖1 =𝑒−𝑖𝜔𝑡

2ℏ ∑ (𝜇𝑖𝑟(𝜇𝑟𝑖𝐸0)

𝜔𝑟𝑖− 𝜔 +𝜇𝑟𝑖(𝜇𝑖𝑟𝐸0) 𝜔𝑟𝑓+ 𝜔 )

𝑟

+𝑒𝑖𝜔𝑡

2ℏ ∑ (𝜇𝑖𝑟(𝜇𝑟𝑖𝐸0)

𝜔𝑟𝑖+ 𝜔 +𝜇𝑟𝑖(𝜇𝑖𝑟𝐸0) 𝜔𝑟𝑖 − 𝜔 )

𝑟

(1-15)

1.1-1 Frequenze vibrazionali

Studiando una molecola biatomica con il metodo del problema a due corpi dotati di massa ridotta 𝑚 in approssimazione armonica [1] otteniamo la seguente espressione per la frequenza di vibrazione:

𝜈𝑚 = 1 2𝜋𝑐√𝐾

𝑚

Dove K è la costante di forza.

Le frequenze vibrazionali dipendono, come si vede dalla formula, dalle masse degli atomi coinvolti e dalla forza dei legami instaurati tra essi. Ad atomi leggeri legati in modo forte corrisponderanno alti spostamenti Raman, ad atomi pesanti ma legati in modo debole corrisponderanno frequenze Raman più basse. Per esempio i legami 𝐶 − 𝐻 hanno bande di vibrazione intorno a 3000 𝑐𝑚−1 nel polistirene, in confronto al legame 𝐶 − 𝐶 che presenta bande a 800 𝑐𝑚−1. Questa discrepanza, a parità di singolo legame, è dovuta alla differenza di massa tra l’idrogeno (leggero) e il carbonio (più pesante). Se consideriamo, invece, un doppio legame di carbonio 𝐶𝐶 molto più forte rispetto al legame singolo, le bande Raman saranno intorno ai 1600 𝑐𝑚−1.

Inoltre la frequenza che leggiamo nello spettro dipende dalla struttura delle molecole e dalle condizioni locali quali simmetria, fase cristallina, morfologia del polimero.

In una molecola si verifica un moto vibrazionale quando gli atomi che la costituiscono sono in moto periodico rispetto al costante moto rotazionale e traslazionale di essa. Una molecola costituita da n atomi avrà 3n-5 modi vibrazionali se è lineare, 3n-6 se non è lineare.

In una molecola si possono individuare due categorie di modi normali vibrazionali: lo

(13)

10 stretching e il bending. Lo stretching implica un accorciamento o allungamento delle distanze di legame, il bending una variazione dell’angolo di legame. Essendo più difficile allungare il legame, lo stretching richiede più energia di un bending. Entrando nel dettaglio possiamo avere:

 Stretching simmetrico (𝜈𝑠): i due atomi si allontanano o avvicinano contemporaneamente

 Stretching asimmetrico (𝜈𝑎): un atomo si avvicina e l’altro si allontana

 Scissoring 𝛿: deformazione simmetrica nel piano in cui giace l’angolo di legame, come l’apertuna e la chiusura di una forbice

 Rocking (𝜌): deformazione asimmetrica dell’angolo di legame, come un’oscillazione

 Twisting (𝜏): deformazione simmetrica fuori dal piano dell’angolo di legame

 Wagging (w): deformazione asimmetrica fuori dal piano dell’angolo di legame Riporto una immagina esplicativa dei modi vibrazionali normali sopra elencati:

Figura 3: Modi vibrazionali normali di una molecola

(14)

11

1.1-2 Classificazione dei modi normali mediante la simmetria

Gli atomi all’interno della molecola si trovano in una configurazione di equilibrio. Se si applica un’operazione geometrica alla configurazione originaria del sistema esso può essere trasformato: nel caso in cui la configurazione finale è sovrapponibile a quella iniziale, è stata applicata una trasformazione di simmetria e si dice che il sistema possiede elementi di simmetria [1].

Questi ultimi possono essere così classificati:

 l’identità E, quando si applica un’operazione che lascia il sistema invariato (anche in orientazione);

 l’asse di rotazione 𝐶𝑛, quando la molecola ruotando intorno a tale asse, sia in senso orario che antiorario, crea una nuova configurazione indistinguibile da quella di partenza;

 il piano di simmetria 𝜎, rappresenta il piano che taglia la molecola in due parti identiche;

 il centro di simmetria 𝑖, costituisce il punto medio che unisce le linee passanti per ogni atomo della molecola;

 l’asse di rotazione-riflessione, quando la molecola ruota di 360° intorno ad un asse ed esiste un piano perpendicolare a tale asse che divide la molecola in due parti identiche anche dopo la rotazione.

L’insieme degli elementi di simmetria di una molecola costituisce un gruppo puntuale (point group). I gruppi puntali possono differire tra loro a causa delle combinazioni degli elementi di simmetria presenti nelle molecole. La disposizione di un oggetto tridimensionale nello spazio è legato al concetto di gruppo spaziale. Combinando tutti gruppi puntuali con operazioni di traslazione sia semplici che complesse si ottiene un totale di 230 gruppi spaziali.

Le operazioni che inducono una trasformazione nel sistema possono essere rappresentate in forma matriciale, tali matrici sono dette rappresentazioni.

Se la matrice è diagonalizzabile in blocchi, ossia in sottomatrici, essa è una rappresentazione riducibile, altrimenti si ha una rappresentazione irriducibile. I singoli blocchi di una matrice riducibile sono rappresentazioni irriducibili. La traccia di queste matrici è detta carattere della matrice, e viene usata come parametro per la descrizione di un gruppo puntuale

(15)

12 all’interno della tavola di carattere. Tali tabelle sono importanti per la classificazione dei modi normali vibrazionali, poiché alcune caratteristiche di una molecola come modi vibrazionali, stati vibrazionali ed elettronici possono comportarsi allo stesso modo o in modo diverso in base alle operazioni di simmetria del gruppo puntuale della molecola. Questo comportamento è descritto dalle rappresentazioni irriducibili, che troviamo nella tabella.

Figura 4: Tabella di carattere per 𝐶3𝜈

La prima colonna è costituita dalle specie di simmetria (sono i tipi di rappresentazioni corrispondenti alle rappresentazioni irriducibili). Le ultime due colonne forniscono informazioni sulle attività Raman e IR delle vibrazioni normali. Una colonna della tabella è dedicata alle specie di simmetria del moto rotazionale (𝑅𝑥, 𝑅𝑦, 𝑅𝑧) e traslazionale (𝑇𝑥, 𝑇𝑦, 𝑇𝑧), l’altra (l’ultima) alle specie di simmetria delle 6 componenti della polarizzabilità.

La vibrazione sarà Raman-attiva se appartiene a una specie di simmetria che contiene tutte le componenti di 𝛼.

Nelle molecole non lineari le specie di simmetria sono indicate con 𝐴1, 𝐴2, 𝐵1, 𝐵2 (vibrazioni non degeneri) e E (vibrazioni doppiamente degeneri). 𝐴1 rappresenta il modo vibrazionale di stretching e bending simmetrico, invece 𝐵2 lo stretching asimmetrico. 𝐴2 e 𝐵1 rappresentano le vibrazioni fuori dal piano, rispettivamente twisting e wagging.

Un’attenta analisi dei modi di vibrazione consente di determinare eventuali distorsioni nelle simmetrie reticolari che possono condurre a un’interpretazione del degrado del composto analizzato.

IR activity Raman activity Point group

Characters of irreducible representations

Classes of symmetry

Symmetry labels

(𝑇

𝑧

)

(16)

13

1.2 Evoluzione della spettroscopia Raman e impieghi

Un apparato Raman dotato di microscopio e sorgente eccitatrice variabile ci può fornire diverse informazioni sul campione che si vuole studiare. La sorgente, in generale un laser, può avere una lunghezza d’onda tra i 1064 𝑛𝑚 (nel vicino infrarosso) e i 266 𝑛𝑚 (UV).

L’intensità Raman è proporzionale alla quarta potenza della frequenza della sorgente eccitatrice, quindi con un laser nell’UV avremo picchi molto più intensi. Bisogna però considerare effetti non desiderati quale fluorescenza da parte del campione o fotodecomposizione, che possono avvenire se si sceglie una sorgente ad alta frequenza.

Possiamo comunque scegliere, grazie alla duttilità di queste apparecchiature, una sorgente eccitatrice con energia vicina a quella necessaria per la transizione elettronica per sfruttare il fenomeno della risonanza, che amplifica il segnale Raman, o lavorare con laser ad alta lunghezza d’onda (1064 nm) per avere spettri Raman chiari e utili. Ogni sostanza ha delle vibrazioni caratteristiche che vengono rivelate mediante la sorgente eccitatrice. Queste vibrazioni sono usate per identificare un materiale, tale principio sta alla base dell’analisi Raman.

La larga diffusione della spettroscopia Raman è sicuramente da attribuire ai suoi vantaggi in un’analisi microscopica, cioè essa è non invasiva e non distruttiva, caratteristiche fondamentali quando si lavora con campioni irriproducibili e unici quali opere d’arte o prove forensi. Altra caratteristica che le conferisce un ruolo di primato è la portabilità. Le apparecchiature Raman sono ormai arrivate a dimensioni palmari (fig.8), facili da trasportare e portare direttamente nel luogo in cui si trova il campione da porre sotto esame, è dunque possibile fare analisi in situ. Questa è una richiesta fondamentale quando il campione non può essere spostato, come un affresco realizzato su un muro. Lo strumento portatile, rispetto a quello da banco, permette di esaminare campioni molto ingombranti, che non potrebbero stare all’interno del limitato spazio riservato al portacampione di uno strumento da banco. Usando una sonda esterna possiamo esaminare oggetti dalle dimensioni più svariate senza vincoli.

(17)

14 Inoltre anche i costi si sono enormemente ridotti consentendo una diffusione su larga scala non solo nel campo accademico ma anche in tutti quei campi che richiedono indagini di caratterizzazione di una sostanza e della sua composizione molecolare. Grazie alla spettroscopia Raman possiamo analizzare sostanze in qualunque stato di aggregazione:

solido, liquido e gassoso. La possiamo usare per conoscere i pigmenti usati per dipingere un quadro, o per scoprire quali sostanze sono presenti su una prova scientifica, o esaminare l’effetto dei farmaci antitumorali sui tessuti malati in vivo (drug delivery), oltre che per lo studio di nuovi materiali e nell’ambito delle nanotecnologie. Dunque la spettroscopia Raman può essere usata in campi diversi tra loro quali Biologia, Scienze forensi, Arte, Scienza dei materiali, Geologia ecc. in modo semplice e poco dispendioso oltre che pratico.

L’indagine su un reperto archeologico effettuata con la spettroscopia Raman consente di conoscere i suoi componenti quali i pigmenti usati per decorare, i leganti usati per miscelare i colori e connetterli al film pittorico, e le sostanze che costituiscono il supporto.

Possiamo scoprire se ci sono stati precedenti interventi di restauro, correzioni o deterioramenti di tipo fisico e chimico, compiendo una concreta diagnosi sui campioni esaminati, e consigliare in base ai risultati ottenuti metodi di conservazione appropriati per il monumento. Ovviamente con questo metodo di analisi possiamo anche garantire l’autenticità del campione, e dunque identificare i falsi storici.

Figura 5: Uso della spettroscopia Raman in situ

(18)

15 Stessa diagnosi può essere eseguita non su un reperto archeologico ma su una prova forense. Per esempio la spettroscopia

Raman può essere usata per identificare tracce ematiche laddove la famosa tecnica del Luminol fallisce, come su un’arma arrugginita. Viene usata anche nel traffico antidroga perché ci permette di riconoscere la sostanza stupefacente anche se questa viene disciolta in liquidi generalmente alcolici, tecnica usata alla dogana per superare i controlli. Questa potentissima tecnica permette di individuare la presenza di cocaina nell’alcool se presente in quantità superiori solo all’8%, senza aprire e dunque danneggiare il contenitore. Inoltre il Raman trova anche tracce di esplosivi sugli abiti di qualcuno che li ha

maneggiati o che è stato solamente vicino a chi li ha maneggiati.

Figura 6: Spettroscopia Raman applicata ai beni culturali

Figura 7: Spettroscopia Raman applicata alle scienze forensi per individuare tracce ematiche su ascia

arrugginita

(19)

16 Il Raman viene anche usato nel riconoscimento e autenticazione di pietre preziose. É possibile identificare la presenza d’inclusioni naturali nelle pietre, o di quelle artificiali usate per riempire le cavita, e scoprire la presenza di collanti usati per unire frammenti di pietre e ottenerne fraudolentemente una più grande.

Altro settore nel quale la spettroscopia Raman gioca un ruolo importante è l’analisi alimentare. Capita spesso che alimenti con presenza di sostanze tossiche siano immessi sul mercato, per esempio mercurio nel pesce. Sono stati anche commercializzati alimenti realizzati con tecniche non consentite come l’uso di zucchero aggiuntivo nel vino e nei succhi di frutta. Inoltre è necessario fare delle analisi sugli alimenti per testarne la qualità e la provenienza, non di rado certi prodotti di scarsa qualità sono venduti sotto falsa etichetta come il caso dell’olio extravergine di oliva che presentava una miscela di oli vari. Il Raman riesce a caratterizzare le varie componenti dell’alimento posto sotto esame, e a determinarne sicurezza, qualità e reale provenienza.

La spettroscopia Raman, dunque, è una delle tecniche di analisi maggiormente usate in svariati settori, portando risultati utili laddove viene richiesto.

Figura 8: Spettrometro Raman palmare

Figura 9: Spettrometro Raman portatile

(20)

17

1.3

Strumentazione

Uno spettrometro Raman ha come componenti principali:

 Una sorgente eccitatrice

 Un sistema per la focalizzazione della luce incidente e di raccolta della luce diffusa

 Sistemi di filtraggio

 Un apparato dispersivo come il monocromatore

 Un rivelatore

Figura 10: Tipico schema dell’apparato strumentale per la microscopia Raman

La sorgente eccitatrice usata in tali apparecchi deve essere necessariamente monocromatica, si usa quindi una sorgente laser [1]. Il laser potrebbe presentare delle linee secondarie deboli che sono filtrate mediante un pre-monocromatore. Il laser monocromatico soddisfa un’altra richiesta nell’analisi Raman: un ridotto diametro del fascio incidente (1-2 mm), che può essere ridotto ulteriormente grazie a un sistema di lenti. Il laser usato è Nd:YAG, un laser a stato solido il cui mezzo attivo è costituito da un cristallo di ittrio e alluminio drogato al neodimio (Nd:𝑌3𝐴𝑙5𝑂12). Il sistema di pompaggio è realizzato con diodi laser o lampada stroboscopica (luce a intermittenza). La radiazione emessa dagli Nd:YAG e tipicamente usata ha una lunghezza d’onda di 1064 nm (vicino IR).

(21)

18 Lo scattering Raman è un fenomeno debole perciò la luce laser deve essere opportunamente focalizzata nel campione, nel nostro caso con un microscopio, e la luce diffusa deve essere efficientemente raccolta. Il sistema di raccolta è un apparato ottico costituito da una lente di focalizzazione e una di raccolta; può avere una configurazione a 90° o a 180°

(backscattering). La configurazione più adatta è quella a 180°, ossia la luce incidente e la luce diffusa hanno la stessa direzione ma verso opposto.

Il potere di raccolta della luce di una lente è legata al suo diametro 𝐷 e alla sua distanza focale 𝑓 tramite la seguente relazione:

𝐹 = 𝑓 𝐷

A piccoli valori di 𝐹 corrisponde un grande potere di raccolta.

La luce diffusa raccolta deve essere divisa in componenti monocromatiche, ciò viene fatto mediante un monocromatore. Prima di questo, però, va eliminata la riga di Rayleigh, la quale è molto intensa e nasconderebbe il debole segnale Raman. Viene dunque inserito nell’apparato un filtro notch che adempie a questa funzione. Questo è un filtro elimina banda, ossia lascia passare tutte le frequenze eccetto un ristretto range, che vengono riflesse.

Il monocromatore è dotato di due fessure di larghezza regolabile, una per l’entrata del fascio e una per la sua uscita, e di un elemento dispersivo: un reticolo di diffrazione che lavora in riflessione. La luce entra tramite una fenditura variabile, questa è posta in prossimità del fuoco del primo specchio concavo, in modo tale che i raggi siano convogliati verso lo specchio, il quale in seguito riflette i raggi in direzione parallela sul reticolo. Il reticolo scompone il fascio in radiazioni monocromatiche che sono dirette su un secondo specchio concavo, che focalizza i raggi verso la fenditura d’uscita o direttamente verso il rivelatore.

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19 Figura 11: Schema di un monocromatore

I parametri caratteristici di un monocromatore sono la risoluzione spettrale, il bandpass e la risposta spettrale.

La risoluzione spettrale [5] è l’abilità di separare due linee spettrali adiacenti, ed è espressa dalla seguente relazione:

𝑅 = 𝜆 d𝜆

Questa dipende dal potere risolutivo del reticolo (il quale a sua volta dipende, come vedremo in seguito, dal numero di scanalature), dal cammino ottico che percorre la radiazione dentro il monocromatore (in modo proporzionale), e dall’apertura delle fenditure.

Se la fenditura d’ingresso è larga, lo spettro uscente risulta più ampio dunque aumenta il 𝑑𝜆 e la risoluzione diminuisce; dunque si ha una dipendenza inversamente proporzionale tra la R e l’apertura delle fenditure. Altro fattore che determina una buona risoluzione è la distanza tra il reticolo e le fenditure [6] poiché il monocromatore seleziona una determinata lunghezza d’onda e permette solo l’uscita di quella (avendo le altre un diverso angolo di diffrazione). Il reticolo dunque viene messo in rotazione per permettere a tutte le lunghezze di uscire ed essere rilevate. Aumentando la distanza tra reticolo e fenditura si riduce il numero di raggi a diversa 𝜆 che potrebbero uscire, migliorando la monocromaticità dello strumento.

Il monocromatore non riesce a realizzare una vera banda monofrequenziale, la banda avrà sempre un’ampiezza, anche se minima, detta larghezza del profilo strumentale. La BP (bandapassante) è definita come l’intervallo di lunghezze d’onda misurato a metà

(23)

20 dell’intensità della banda registrata (FWHM). Il bandpass può anche essere espresso con tale relazione:

𝐵𝑃 = 𝐷𝑙𝑖𝑛−1∙ 𝑊

La dispersione lineare (D) rappresenta l’abilità di un monocromatore di produrre una separazione spaziale tra due lunghezze d’onda vicine ed è legata alla dispersione angolare del reticolo:

𝐷 = 𝑑𝜆

𝑑𝑥≅ 𝐹𝑚 𝑑 Dunque si ha:

𝐵𝑃 ≅ 𝑑 𝑚𝐹𝑊

Quando impostiamo la 𝑊 (larghezza della fenditura) al suo valore minimo si ottiene la risoluzione limite RL, che è la risoluzione strumentale.

La risposta spettrale del monocromatore è legata alla lunghezza d’onda di blaze del reticolo, che a sua volta dipende dalla densità delle scanalature e dall’intervallo di lunghezze d’onda in gioco. Se lavoriamo con lunghezze d’onda lontane da quelle di blaze, l’intensità trasmessa sarà debole.

Figura 12: Risposta spettrale di due diversi reticoli

(24)

21 I reticoli a riflessione sono costituiti da righe riflettenti intervallate da righe scure o disperdenti. Si ottiene maggiore efficienza se realizzati con delle scanalature ad angolo di Blaze (reticolo blazed). L’angolo di Blaze è valutato rispetto al piano della superficie riflettente del reticolo. Si ottiene il massimo di riflettività quando il raggio incidente e diffratto sono in autocollimazione ossia 𝛼 = 𝛽 (condizione littrow) e sono perpendicolari ai tratti del reticolo:

Figura 13: Reticolo blazed in configurazione littrow

Il comportamento ottico del reticolo sotto tali condizioni è dato da:

2𝑑𝑠𝑖𝑛𝛼 = 𝑚𝜆

Se si pone 𝛼 = 𝛽 = Θ𝐵, si ottiene la lunghezza d’onda di blaze per un dato ordine di diffrazione m definita come la lunghezza d’onda alla quale l’efficienza del reticolo a un dato m è massima.

Una caratteristica importante dei reticoli già accennata in precedenza è il potere risolutivo, espresso dalla seguente equazione:

𝑅 = 𝜆

d𝜆 = 𝑚𝑁

Ossia all’aumentare del numero di fenditure il potere risolvente aumenta.

La radiazione diffratta esce dal monocromatore e viene focalizzata sul rivelatore. In generale il rivelatore è un fototubo o un fotomoltiplicatore [1] che sfrutta l’effetto fotoelettrico per trasformare il segnale luminoso in segnale elettrico. Il fotomoltiplicatore è costituito da un fotocatodo che viene colpito dalla radiazione emettendo fotoelettroni, in seguito questi sono attratti verso i dinodi posti a potenziale sempre crescente, colpendoli emettono elettroni secondari. Questo processo permette di amplificare il segnale.

(25)

22 In generale per le analisi Raman si usano i rivelatori con una serie di fotodiodi (photodiode array detection) i quali permettono di rivelare il segnale Raman per ogni frequenza sull’intero range.

I detector sono caratterizzati dalle seguenti caratteristiche [6]:

 responsività 𝑅, data dal rapporto tra il segnale elettrico di output e la potenza incidente;

 range di lavoro, ogni detector lavora su determinati range di frequenza (intervallo di lavoro) in quanto l’intensità delle righe spettrali è fortemente legata all’energia fotonica del raggio incidente, dunque alla sua frequenza;

 la costante di tempo 𝜏 è definita come il tempo al quale il segnale d’uscita è il 63%

del segnale costante d’uscita 𝑉0.

 NEP (noise equivalent power) è la potenza necessaria per creare un rapporto segnale- rumore pari a 1.

 la capacita di rivelazione è di solito indicata con D ed è l’inverso della NEP;

 la capacità specifica (𝐷 permette di confrontare rivelatori diversi, va dunque moltiplicata per la radice dell’area del rivelatore.

Il nostro detector è un InGaAs Array. Il software associato alla strumentazione usata è il BWSpec4.

Riporto di seguito le specifiche degli strumenti impiegati in questo lavoro [7]:

Laser

Eccitazione 1064 𝑛𝑚

Controllo potenza laser < 450 𝑚𝑊 Spettrometro

Modello i-Raman EX-1064S

Range 175 𝑐𝑚−1

− 2500 𝑐𝑚−1

Risoluzione ~9.5 𝑐𝑚−1

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23 Rivelatore

Tipologia InGaAs Array

Risoluzione digitale 16-bit

Tempo d’integrazione 200 𝜇𝑠 𝑎 > 20 𝑚𝑖𝑛 . Elettronica

Computer interface USB 3.0/2.0/1.1

Trigger mode 5V TTL

Caratteristiche

Dimensioni 17𝑥34𝑥23.4

Temperatura di lavoro 0 − 35°

Microscopio

Modello BWTEK BAC 151B

Lunghezza d’onda 532,785,1064 nm

Power input 5VDC, 300mA

Dimensioni 24.3 x 20.8x 37.8

Figura 14: Microscopio BWTEK BAC151B e Spettrometro i-Raman EX

(27)

24

Capitolo 2: Tecnica dell’affresco

L’affresco è una tecnica pittorica che richiede la stesura dei colori su un supporto costituito prevalentemente da calce quando questo è ancora fresco, cosicché il colore possa aderirvi e perdurare nel tempo senza l’uso di alcun legante ma solo mediante un processo chimico: la carbonatazione della calce. Grazie a tale processo l’affresco è considerata una delle tecniche pittoriche più durevoli. Il tempo di realizzazione di un affresco è limitato, poiché il colore va steso sull’intonaco fresco, quindi i pittori si limitavano a realizzare piccole parti di supporto (tonachino o velo) in base ai ponteggi del cantiere, creando l’opera “a pontate” come avveniva fino all’alto medioevo, o “a giornate” come si fece dal XIV secolo. L’artista doveva essere deciso sui movimenti da seguire e sui colori da usare poiché questa tecnica non consente ripensamenti una volta steso il colore. Gli errori si potevano correggere solo “a secco” ossia una volta che l’intonaco e il pigmento erano asciutti, e fissando il nuovo colore alla parete con l’uso di opportuni leganti.

La tecnica dell’affresco era già nota alla civiltà egea (2000-1400 a.C.) come testimonia un affresco del Palazzo di Cnosso, fu adoperata dai Greci, dagli etruschi e dai Romani. In centro e sud Europa ebbe larga diffusione dal XIV secolo, e in questo periodo fu sottoposta a cambiamenti, non solo l’uso della divisione a giornata ma anche la realizzazione di un disegno preparatorio. In questo periodo si decide di gettare uno schizzo dell’opera nello strato precedente al tonachino, per evitare errori e avere delle linee guida. La creazione del disegno preparatorio subirà delle modifiche con il passare dei secoli e con l’imporsi di nuovi gusti del mercato d’arte e dei committenti. Tra i metodi usati ricordiamo la tecnica dello spolvero, della sinopia e dell’incisione indiretta.

2.1 Intonaco e malte nell’affresco

L’intonaco è un’opera di finimento, ossia si realizza in seguito al completamento della struttura muraria. Esso è generalmente composto da tre strati: rinzaffo, arriccio e velo [8].

Il rinzaffo è uno strato livellato di malta, costituita da sabbia piuttosto grossa, che può estendersi da uno fino a due centimetri. Viene steso direttamente sul muro con l’aiuto di

(28)

25 una cazzuola e deve apparire al tatto poco levigato e granuloso, affinché possa fare presa lo strato successivo, l’arriccio.

L’arriccio deve essere steso con uno spessore di pochi millimetri quando il rinzaffo è ormai asciutto. La malta usata ha i grani di sabbia più fini, presenta inoltre pozzolana o argilla cotta finemente setacciata. Su questo strato viene realizzato il disegno preparatorio.

In seguito viene steso il velo, uno strato finissimo come una pellicola, la cui malta può presentare anche polvere di marmo per rendere la superficie più liscia. Il velo detto anche tonachino o intonaco è il vero supporto pittorico, quello su cui verrà steso il colore a fresco.

Quando era applicato sull’arriccio, essendo fine e ancora fresco, si poteva intravedere lo strato sottostante, dunque il disegno preparatorio, che veniva usato dall’artista come aiuto per stendere il colore.

Figura 15: Strati fondamentali di un affresco

In generale un buon supporto per evitare il ritiro, ossia la creazione di cavillature nella sua superficie, deve essere almeno composto dagli strati sopraelencati. I Romani per esempio ne disponevano sei, ma già dal Medioevo per motivi economici si realizzavano affreschi dotati al massimo di tre strati.

La malta è un miscuglio di acqua, leganti e inerti; in base al legante usato può assumere vari nomi quali malta di calce, malta di calce idraulica, malta di gesso ecc. Gli inerti come sabbia, polvere di marmo, pozzolana e argilla cotta, sono quei composti che evitano il ritiro dell’intonaco e riducono le possibilità delle crepe. Si possono classificare le malte in base al rapporto tra legante e inerte: magre se il legante non copre i vuoti tra i granuli dell’inerte,

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26 grasse se tali vuoti vengono coperti in modo superiore al dovuto, forti se il quantitativo di legante è nettamente superiore all’inerte.

Le malte magre a causa della bassa presenza di legante risultano poco resistenti e durevoli, le forti invece pur essendo resistenti una volta asciugate tendono a presentare fessure dovute al fenomeno di ritiro, e con il tempo ciò può compromettere la stabilita dell’intonaco. Desta particolare importanza la scelta della sabbia per la resistenza del supporto pittorico. La più usata è la sabbia proveniente dai letti dei fiumi, che è composta da granelli finissimi e deve essere lavata prima dell’impiego per togliere le impurità che altrimenti potrebbero compromettere la stabilità della malta. Si usano anche sabbie trovate nel sottosuolo depositate grazie alle alluvioni, anche queste devono essere purificate da possibili residui organici. Viene adoperata anche la sabbia marina, dopo un'attenta eliminazione dei sali, in quanto questi risultano dannosissimi. Per la tecnica di affresco si predilige la sabbia di fiume o comunque una sabbia ricca di silice. Un altro inerte usato, soprattutto nello strato finale dell’affresco, è la polvere di marmo composta chimicamente da carbonato di calcio, la quale aiuta la resistenza del colore diminuendo l’azione corrosiva della calce. Negli strati interni si predilige come inerte aggiuntivo la pozzolana o l’argilla cotta. La pozzolana è un prodotto di origine vulcanica composta da silice, silicati idrati di allumina e vari ossidi quali: ossido di ferro, ossido di calcio, ossido di potassio e ossido di magnesio. Essa può essere usata sia come inerte sia come legante. In sostituzione alla pozzolana già in antichità si ricorreva all’argilla cotta, ottenuta come cocci di mattoni e tegole, la cui composizione chimica è il silicato di alluminio.

La calce usata nella realizzazione della malta non è altro che idrossido di calcio (e piccolissime quantità di carbonato di magnesio e ossidi di ferro); essa viene comunemente chiamata grassello o calce spenta. La calce spenta mischiata con acqua e sabbia da origine alla malta che in seguito al contato con l’aria e dunque con la 𝐶𝑂2 diverrà carbonato di calcio mediante il processo di carbonatazione:

𝐶𝑎(𝑂𝐻)2+ 𝐶𝑂2 → 𝐶𝑎𝐶𝑂3+ 𝐻2𝑂

Tale processo è molto lungo, per spessori piccolissimi ci vogliono minimo sei mesi, poiché l’anidride carbonica deve penetrare tra i pori capillari della malta. La presenza di granelli di sabbia facilita questo processo, velocizzando l’inserimento dell’anidride carbonica nella struttura.

(30)

27 I problemi legati alla durata dell’intonaco (e intero supporto pittorico) sono dovuti principalmente al gelo, all’inquinamento atmosferico (acido solforico) e alla presenza di calcinaroli (ossido di calcio non spento 𝐶𝑎𝑂 che a contatto con l’aria aumenta il volume e causa disgregazioni del supporto a forma spesso circolare).

2.2 Il disegno preparatorio

Intorno al 1300, grazie allo sviluppo dell’affresco in area europea, nascono nuovi metodi per la sua creazione. Ha particolare rilevanza la preparazione di un bozzetto che antecedeva la stesura del vero colore. Il disegno veniva riportato sull’arriccio quando questo era sufficientemente asciutto, ma non secco. Tale schizzo poteva essere riportato con la tecnica dello spolvero, con la sinopia o con il metodo dell’incisione indiretta o diretta, analizziamoli nel dettaglio [9].

Lo spolvero consisteva nel ricreare il disegno a dimensioni reali su cartoncino e forare le linee principali mediante un punteruolo. In seguito il cartoncino veniva appoggiato sull’arriccio e con l’aiuto di una sacca contenente polvere di carbone, che veniva tamponata sulle fessure del cartoncino, si faceva passare della polvere attraverso i fori. In seguito questi puntini scuri sull’arriccio erano uniti mediante un pennello bagnato, ricreando le linee continue principali del disegno. Una variante di questo metodo era l’unione dei puntini derivati dallo spolvero con la terra di Sinope. Con il passare del tempo lo spolverò si applicò solo alle parti che richiedevano maggiore precisione come mani e volti.

Nell’incisione indiretta il disegno è riportato su un cartoncino un po’ più spesso di quello impiegato per lo spolvero. Mediante uno stilo di metallo si ricalcano i contorni del disegno in modo da lasciare un’incisione non profonda sull’arriccio. Questo metodo era poco preciso, poiché lasciava linee troppo larghe, venne infatti evitato in parti quali i volti, che richiedevano maggiore accuratezza.

La sinopia consisteva nel rappresentare il disegno direttamente sull’arriccio usando l’ocra rossa- bruna (𝐹𝑒2𝑂3) detta terra di Sinope. Questa pratica era tipica del medioevo.

(31)

28

2.3 I pigmenti più comuni

I colori stesi sull’intonaco umido penetrano in esso e vi restano inglobati grazie al processo di carbonatazione della calce (tormento), creando un tutt’uno con l’intonaco. I pigmenti da usare saranno pertanto quelli che si mescolano perfettamente con acqua e calce, quelli che sono stabili all’azione caustica della calce, e che non si scompongono se miscelati con altri pigmenti [8].

I colori si possono classificare in: pigmenti organici derivati da composti organici insolubili nel mezzo di applicazione, e inorganici come sali, ossidi e sali complessi. Nell’affresco sono usati principalmente i pigmenti inorganici minerali composti da ossidi, sali, e solfuri. I colori principali che un pittore possedeva erano: rosso, nero, giallo, verde, bianco, e blu. Questi venivano propriamente mescolati per ottenere sfumature diverse.

Il nero era comunemente ottenuto con la grafite (carbonio). Esistevano due varianti dette propriamente nero di lampada e nero d’avorio, quest’ultimo presenta anche fosfato di calcio derivante dalla composizione ossea [10]. Le righe Raman caratteristiche della grafite sono collocate a 1325 e 1580 𝑐𝑚−1 [11]. Il pigmento nero d’avorio presenta una riga in più dovuta allo stretching simmetrico del 𝑃𝑂4 3− a 961 𝑐𝑚−1.

Il rosso era ottenuto da vari composti, a ognuno si può associare una particolare tonalità.

Annoveriamo l’ematite composta da ossido di ferro (𝛼 − 𝐹𝑒2𝑂3) che presenta una tonalità spenta ed è abbondante in natura. È un pigmento durevole nel tempo adatto per tutte le tecniche pittoriche, in particolar modo per la pittura a fresco. I picchi Raman caratteristici dell’ematite sono posizionati a 223, 286, 404, 614 𝑐𝑚−1 [12]. Le ocre e le terre rosse sono

Figura 16: Tecnica della sinopia Figura 17: Tecnica dello spolvero

(32)

29 anch’esse composte da ossidi di ferro. I romani conoscevano cinque tipi di ematite che generavano intensità diverse di rosso, tra i quali va ricordata la sinopia, ocra rossa presa dalla città di Sinope, che era utilizzata anche per la realizzazione del disegno preparatorio negli affreschi. Tali disegni preparatori sono chiamati sinopia per l’uso di quel particolare rosso.

Il colore bianco deriva da pigmenti quali: il gesso che è composto da solfato di calcio (𝐶𝑎𝑆𝑂42𝐻2𝑂) oppure dal bianco di San Giovanni detto anche bianco di calce, formato essenzialmente da carbonato di calcio (𝐶𝑎𝐶𝑂3). Il gesso era usato nel Rinascimento come base bianca per i dipinti, e da esso venivano realizzati anche intonaci per interno. Il suo picco Raman caratteristico è osservabile 1006 𝑐𝑚−1 [13]. Il bianco di San Giovanni è ottenuto dalla carbonatazione della calce spenta. Essendo un carbonato reagisce con gli acidi provocando un deterioramento della pittura. Ad esempio la presenza di atmosfera inquinata potrebbe portare alla formazione del solfato di calcio che è più voluminoso del carbonato, provocando un rigonfiamento della superficie pittorica e successivo distacco. Le sue bande Raman sono collocate a 157, 276 e 1087 𝑐𝑚−1 [14].

Alcuni dei pigmenti gialli usati fin dall’antichità erano le ocre gialle, il giallo di piombo, e l’orpimento. L’ocra gialla è un pigmento contenente goethite (𝛼 − 𝐹𝑒𝑂(𝑂𝐻)) per un colore giallo-bruno e/o lepidocrocite (𝛾 − 𝐹𝑒𝑂(𝑂𝐻) che dava una tonalità giallo- arancio e talvolta vi era anche jarosite (𝐾𝐹𝑒(𝑆𝑂4)2(𝑂𝐻)6). Tutti questi minerali venivano indicati sotto il nome di limonite e tali ocre potevano contenere anche silicati, feldspati, gesso e calcare. Il giallo di piombo noto anche come giallo di Napoli o giallorino era un pigmento sintetico usato già dai Babilonesi, ma fu adoperato largamente nella pittura europea dal XV secolo. È un ottimo pigmento per la tecnica dell’affresco e presenta un’ampia banda Raman intorno a 329 𝑐𝑚−1 e un picco intenso a 140 𝑐𝑚−1. L’orpimento è un solfuro d’arsenico (𝐴𝑠2𝑆3) caratterizzato da una particolare tonalità dorata. Era usato già nel periodo egiziano per decorare sarcofagi e utilizzato nei manoscritti medievali e pitture ottocentesche. In seguito venne abbandonato per la sua tossicità. Non può essere usato in miscela con pigmenti contenenti piombo e rame e con alcuni tipi di leganti; inoltre non era adatto per la pittura a fresco poiché si decomponeva in ossido di arsenico e idrogeno solforato.

La colorazione azzurra si può ottenere dall’azzurrite e dal blu di smalto.

(33)

30 L’azzurrite è un carbonato idrato di rame (2𝐶𝑢𝐶𝑂3. 𝐶𝑢(𝑂𝐻)2), caratteristica per la sua tonalità di blu brillante. In generale si trova associata con altri carbonati quali la malachite e la cuprite. Era usato nella pittura murale, ma a causa dell’umidità tendeva a scomparire il blu dell’azzurite e a restare un verde derivato dalla malachite, o a causa dell’acqua con ioni di cloro l’azzurite diventava atacamite, cloruro basico di rame, sempre di colore verde. Fu usato in Europa fino al 1600. Il picco Raman più intenso è 404 𝑐𝑚−1 [14] e ne presenta molti altri più deboli. Il blu di smalto è una vetrosa drogata al cobalto (𝑆𝑖𝑂2𝐶𝑜𝑂) e può presentare anche potassio. La grandezza dei granuli dava gradazioni differenti alla pittura, quindi era venduto con granulazioni diverse. Gli egiziani lo usavano come vetro, nel Rinascimento iniziò a essere guardato da un punto di vista pittorico e si usò anche nella tecnica degli affreschi.

Presenta un elevato picco a 492 𝑐𝑚−1.

Le terre verdi e la malachite sono i tipici pigmenti verdi.

La malachite è un carbonato basico di rame (𝐶𝑢𝐶𝑂3. 𝐶𝑢(𝑂𝐻)2), usato dagli Egizi, Cinesi e Giapponesi. In Europa venne usata per miniature medievali e opere pittoriche, era usata in combinazione con gialli per ottenere un verde più brillante. Abbiamo intensi picchi Raman intorno a 150, 500 e 1450 𝑐𝑚−1 [14].

Le terre verdi sono costituite da due minerali a base di ferro quali la celadonite, un silicato di ferro e magnesio (e pochissimo Al) che si trova in rocce vulcaniche e la glauconite, molto simile alla celadonite ma contiene alluminio in dosi maggiori. É più pregiata la terra composta di celadonite per il suo colore verde chiaro, era estratta vicino a Verona e per questo diede origine al pigmento noto come verde di Verona. La terra basata sulla glauconite era estratta ad esempio in Cecoslovacchia ed era meno usata poiché presentava un colore verde oliva, inadatto a rappresentare prati e alberi. Le terre verdi erano adatte per ogni tecnica pittorica, e usata ampiamente negli affreschi. La terra verde fu usata nel Medioevo anche come base per gli incarnati.

Nella tabella sottostante riassumo le caratteristiche fondamentali dei pigmenti già trattati.

(34)

31 Nome del

pigmento

Colore Tecnica pittorica

Bande Raman

Azzurrite Azzurro Affresco, tempera

145w;284w;180w;250m;284w;335w;404vs;

545w; 746w(sh); 767m; 839m; 940w;

1098m; 1432m; 1459w; 1580m; 1623vw Blu di smalto Azzurro Tutte 462vs; 917m

Bianco di San Giovanni

Bianco Tutte 157vw; 282vw; 1088vs

Ematite Rosso Tutte 224vs; 291vs; 407m; 494w; 610m; 660w(sh) Gesso Bianco Affresco 181w; 414m; 493w; 619vw; 670vw; 1006vs;

1135m Giallo di

Piombo

Giallo Affresco e pittura a olio

129vs; 196s; 275w(br); 291w; 303w; 379w;

457m; 525w

Malachite Verde Tutte 155s; 178s; 217m; 268m; 354m; 433vs;

509m; 553s; 757vw; 1051m; 1085m; 1492vs Nero d’avorio Nero Tutte 961m; ~1325vs(br); ~ 1580vs(br)

Nero di

lampada

Nero Tutte ~ 1325vs(br); ~ 1580vs(br)

Ocre

gialle(goetite)

Giallo Tutte 240w(sh); 246w; 300m; 387s; 416m; 482w;

551w; 1008s

Ocre rosse Rosso Tutte 220vs; 286vs; 402m; 491w; 601w Orpimento Giallo Tranne

affresco e pittura a olio

136w; 154s; 181vw; 202w; 220vw; 230vw;

292m; 309s; 353vs; 381w

Terre verdi Verde Tutte 145vs; 399w; 510w; 636m; 685m; 820vw;

1007m; 1084m

(W= weak, s=strong; vs= very strong; m=medium; sh=shoulder; br=broad)

(35)

32

2.4 Affresco della chiesa di San Giuseppe

La Chiesa di San Giuseppe, sita nel quartiere cagliaritano di Castello in prossimità della Torre dell’Elefante, fa parte di un complesso monumentale più ampio fondato dai Padri Scolopi. Il complesso ecclesiastico partì con la costruzione del Collegio nel 1640 a partire da zone abitative preesistenti [15].

L’edificazione della Chiesa avvenne un ventennio dopo grazie a un progetto di rielaborazione del complesso in perfetto accordo con il fenomeno socio-culturale di rinnovamento dei principali edifici religiosi dell’Isola che investì quel periodo. L’inizio della fase costruttiva della chiesa è da collocare nel 1663

anno in cui ci fu la posa della prima pietra dell’edificio in onore di San Giuseppe e Santa Teresa, azione celebrativa svolta dall’arcivescovo di Cagliari Pietro Vico. I lavori procedettero lentamente sia per adempiere a ulteriori modifiche e richieste del restante complesso monumentale, sia per questioni amministrative interne.

Nel 1673 i lavori ripresero con continuità grazie alla nomina del nuovo vicario provinciale e si protrassero fino al 1700. In quest’arco temporale fu portata a termine la Cappella Maggiore, iniziata forse nel 1672. S’inserisce sempre in questo periodo la costruzione della sacrestia su interessamento del viceré, conte di Santo Stefano.

Agli inizi del ‘700 l’organismo chiesastico era costituito dalla Cappella Maggiore, dalla Sacrestia e da tre cappelle laterali che affiancavano la navata centrale. I lavori si fermarono nei primi decenni del 1700 per questioni belliche.

Figura 18: Chiesa di San Giuseppe, facciata esterna

(36)

33 Fino a quel periodo, infatti, la Sardegna era stata sotto la

dominazione spagnola e, agli inizi del XVIII secolo, dopo la morte del re Carlo II di Spagna, si verificò una guerra di successione al trono che portò a un periodo di bombardamenti sull’Isola ad opera delle milizie inglesi, olandesi e austriache poiché questa riconobbe come nuovo sovrano la Francia. La stessa chiesa è stata colpita da uno di questi bombardamenti e a testimonianza di questo evento, in un pilastro in cui è rimasta incastrata una bomba, è presente un’epigrafe che suggella il giorno del bombardamento: 12 agosto 1708.

Nel 1718 la Sardegna fu data ai Savoia e in questo periodo ripresero i lavori della Chiesa di San Giuseppe, che si conclusero nel 1735. La struttura ultimata era costituita da una navata longitudinale con tre cappelle laterali per lato, con rispettivi altarini all’interno (oggi perduti).

La navata e le singole cappelle erano coperte da una volta a botte, e oltre a questo spazio longitudinale si ergeva uno spazio centrale dovuto alla Cappella Maggiore.

Figura 20: Interno della Chiesa di San Giuseppe, navata centrale

Figura 19: Chiesa di San Giuseppe, epigrafe e bomba

(37)

34 Al termine dei lavori si procedette a una fase decorativa degli interni. L’arricchimento decorativo della struttura fu attuato a più riprese in base alle disponibilità economiche, perciò l’arco di tempo di realizzazione va inquadrato tra la fine della costruzione dell’edificio fino anche alla prima metà del XIX secolo. L’abbellimento interno annoverava sculture marmoree, altari lignei e pitture murali.

La pittura murale interessa la superficie interna della volta appartenente alla Sacrestia, la cui descrizione deriva dal canonico Giovanni Spano [16]:

“La volta della Sacristia è dipinta a fresco: in mezzo vi è rappresentata la fondazione dell’ordine: vi è S. Giuseppe coi discepoli; ed è curioso il Ven. Glicerio il quale prende delle brace per divorarle colla bocca (per eseguire il comando del Santo) che però miracolosamente si cambiarono in frutta. La pittura sembra del cav. Massa”

Figura 21: Chiesa di San Giuseppe, sacrestia, affresco della volta, dettaglio della falsa cupola

(38)

35 L’autore probabilmente, come afferma nel libro Spano, è il cavaliere Antonio Maria Francesco Massa, attivo tra il 1763 e 1803.

L’affresco riportato precedentemente usa una tecnica di finzione prospettica: la quadratura, tale per cui si ha l’illusione di una profondità inesistente di uno spazio cupolato (falsa cupola). La gradinata ascensionale presente nella parte inferiore accentua questo effetto ottico, indirizzando lo sguardo verso l’”occhio”, riprodotto solo parzialmente. Nella parte destra prendono vita due angeli che sorreggono un quadro raffigurante la Madonna con il bambino Gesù, il quadro parzialmente esce dalla cornice architettonica della rappresentazione aumentando l’illusione ottica.

La cornice del dipinto, lo sguardo dei due padri raffigurati sulla sommità della gradinata e il banco su cui posano gli angeli creano delle diagonali che convogliano l’attenzione dell’osservatore verso il fulcro dell’affresco: Padre Calasanzio (fondatore dell’Ordine degli Scolopi) che regge in mano lo stemma dell’Ordine.

La raffigurazione è racchiusa da una cornice quadrangolare quadrilobata avente fiocchi nelle parti spigolose e putti in quelle semicircolari. Questi elementi decorativi sono uniti da festoni a forma arcuata. L’affresco si adatta perfettamente alla geometria della volta lunettata. Lo stile pittorico adottato dall’autore rimanda alla pittura barocca monumentale.

Il padiglione della volta ospita altri elementi decorativi in stile tardo barocco: lunette sormontate da unghie e putti tra esse. La lunetta e l’unghia sono incorniciate insieme con motivi uguali. Le unghie sono decorate con motivi a conchiglia, invece le lunette ospitano delle figure femminili che rappresentano l’allegoria delle virtù, come testimoniano le scritte ad esse sottostanti. Abbiamo rispettivamente a nord-ovest la Constantia, la Religio, la Iustitia; a sud-ovest la Fortitudo, la Prudentia e la Modestia; a sud- est la Charitas, la Fides, e la Pes; a nord-est oggi sono visibili solo la Castitas e la Intelligentia.

Tra gli spicchi del padiglione si notano putti sorreggenti oggetti simbolici quali uno stemma araldico, una croce doppia traversa che sostiene un drappo con il simbolo dell’Ordine, una berretta ecclesiastica, dei gigli (simbolo delle virtù di Maria), una tiara e un pastorale papale.

(39)

36 Figura 22: Chiesa di San Giuseppe, sacrestia,

dettaglio affresco della volta

Figura 23: Chiesa di San Giuseppe, sacrestia, dettaglio affresco, unghia e lunetta

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