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OGGETTO: Pratica num. 38/PA/2021

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OGGETTO: Pratica num. 38/PA/2021 - Ministero della Giustizia: Trasmissione atto del Governo (285) sottoposto a parere parlamentare relativo allo schema di decreto legislativo recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.

(delibera 3 novembre 2021)

«Il Consiglio,

visto l’Atto del Governo (285) relativo allo schema di decreto legislativo recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali;

vista la richiesta proveniente dal Ministero della Giustizia e volta ad ottenere un parere in ordine al predetto atto;

letto l’art. 10, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195;

osserva:

I. Premessa.

In data 31.3.2016 entrava in vigore la direttiva (U.E.) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, approvata il 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.

La direttiva si richiama espressamente al rafforzamento di taluni aspetti della ‘presunzione di innocenza’ e non di ‘non colpevolezza’ dell’indagato/imputato. La scelta lessicale appare importante perché espressiva dell’intento di porre l’accento sullo status di soggetti che non sono stati attinti da nessun provvedimento giudiziario che abbia accertato in via definitiva la loro responsabilità penale in relazione ad un fatto reato.

La direttiva si applica inoltre solo alle persone fisiche (art. 2). I considerando, in particolare, danno atto che la Corte di giustizia ha riconosciuto che i diritti derivanti dalla presunzione di innocenza non sorgono in capo alle persone giuridiche allo stesso modo rispetto a quanto accade per le persone fisiche (considerando 13) e che, pertanto, allo stato attuale di sviluppo del diritto e della giurisprudenza nazionale ed europea, appare prematuro legiferare a livello di Unione sulla presunzione di innocenza con riferimento alle persone giuridiche (considerando 14).

Con specifico riguardo alle principali disposizioni della direttiva, essa prevede che:

- gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione d’innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza (art. 3);

- sono adottate dagli Stati le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole e che siano altresì predisposte misure appropriate in caso di violazione di detto obbligo (art. 4, par. 1);

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- la divulgazione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico (art. 4, par. 3);

- sono adottate dagli Stati misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in Tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, salvo che ciò sia necessario per ragioni di sicurezza (art. 5);

- grava sull’accusa l’onere di provare la colpevolezza degli indagati e imputati, salvo l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove sia a carico sia a discarico e il diritto della difesa di produrre prove in conformità del diritto nazionale applicabile (art. 6, par. 1);

- ogni dubbio sulla colpevolezza è valutato in favore dell’indagato o imputato (art. 6, par. 2);

- agli indagati e imputati è riconosciuto il diritto di restare in silenzio e di non autoincriminarsi in merito al reato che viene loro contestato. L’esercizio di tali diritti non impedisce alle autorità competenti di raccogliere prove ricorrendo a poteri coercitivi legali indipendentemente dalla volontà dell’indagato o imputato (art. 7, parr. 1, 2 e 3);

- l’autorità giudiziaria può tenere conto, all’atto della pronuncia della sentenza, del comportamento collaborativo degli indagati e imputati conformemente al diritto nazionale dei vari Stati (art. 7, par. 4); l’esercizio del diritto al silenzio o a non autoincriminarsi non può in ogni caso essere utilizzato contro gli indagati e imputati e non è considerato quale prova che essi abbiano commesso il reato (art. 7, par. 5);

- gli indagati e imputati hanno diritto a presenziare al proprio processo; una decisione sulla colpevolezza o innocenza dell’indagato o imputato può svolgersi in assenza di essi se sono stati informati per tempo del processo e delle conseguenze della mancata comparizione;

oppure non sono stati informati ma sono rappresentati da un difensore incaricato; (art. 8, par.1 e 2);

- una decisione adottata in absentia può essere eseguita nei confronti dell’indagato o imputato se l’indagato o imputato non sono rintracciabili nonostante gli sforzi profusi: in questo caso, però, gli Stati garantiscono che gli indagati o imputati, una volta informati della decisione, siano resi edotti della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, in conformità dell’articolo 9 (art. 8, par. 4);

- gli Stati assicurano che laddove gli indagati o imputati non siano stati presenti al processo e non siano state soddisfatte le condizioni per la celebrazione del processo in absentia, questi abbiano il diritto a un nuovo processo o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale, che consenta di riesaminare il merito della causa, incluso l’esame di nuove prove, e possa condurre alla riforma della decisione originaria (art. 9);

- gli Stati membri provvedono affinché gli indagati e imputati dispongano di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti previsti dalla direttiva in esame (art. 10).

L’art. 1 della legge 22 aprile 2021, n. 53 (Legge di delegazione europea 2019 - 2020), ha specificamente delegato il Governo al recepimento, tra le altre, anche della Direttiva in discussione.

Da qui la presentazione dello schema di decreto legislativo in commento: “Al fine di prevenire il possibile avvio di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, con il presente decreto legislativo vengono quindi dettate le sole disposizioni necessarie a garantire una più precisa e completa conformità alle su richiamate previsioni dello strumento eurounitario” (v. Relazione illustrativa).

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II. Art. 2 “Dichiarazioni di autorità pubbliche sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale”.

L’art. 2 del disegno di legge in commento ridisegna il perimetro comunicativo dell’autorità pubblica assegnando centralità al principio di non colpevolezza della persona sottoposta a procedimento penale.

Dopo aver enunciato in generale il divieto per le “autorità pubbliche” di presentare prematuramente come colpevole la persona sottoposta ad indagini o imputata in un procedimento ancora in corso, la disposizione si concentra sui rimedi attivabili dall’interessato in caso di violazione.

Pur mantenendo ferma l’applicazione di eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno derivante dalla lesione della presunzione di non colpevolezza, la disposizione riconosce all’interessato il diritto di richiedere la rettifica della dichiarazione resa dall’autorità pubblica, imponendo a quest’ultima di provvedere sull’istanza entro e non oltre le quarantotto ore decorrenti dalla richiesta (commi 2 e 3).

In caso di accoglimento, la rettifica andrà resa pubblica con le stesse modalità della dichiarazione ritenuta lesiva, ovvero, nel caso in cui ciò non sia possibile, con forme idonee a garantire “il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica”

(comma 4).

Laddove l’istanza di rettifica non sia accolta, ovvero essa non rispetti la disposizione di cui al quarto comma, l’interessato potrà rivolgersi al Tribunale affinché, ai sensi dell’art.

700 c.p.c., ordini alla medesima autorità di disporre l’immediata pubblicazione della rettifica della dichiarazione.

Così sinteticamente richiamata la disciplina contenuta nell’art. 2 dello schema di decreto legislativo, deve osservarsi che il considerando n. 16 della direttiva chiarisce che la presunzione di innocenza deve ritenersi violata ogniqualvolta le dichiarazioni rilasciate da

“autorità pubbliche” presentino “l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”. Tali dichiarazioni, infatti, “non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole”.

Il successivo considerando n.17 mette in evidenza che per “dichiarazione pubblica rilasciata da autorità pubbliche” deve intendersi “qualsiasi dichiarazione riconducibile a un reato proveniente da un’autorità coinvolta nel procedimento penale, che ha ad oggetto tale reato, quali le autorità giudiziarie, di polizia o altre autorità preposte all’applicazione della legge” ovvero “da altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici, fermo restando che ciò lascia impregiudicato il diritto nazionale in materia di immunità”.

Tali principi hanno trovato applicazione nella direttiva nell’ambito dell’art. 4 laddove si prescrive che gli Stati Membri adottino “le misure necessarie” per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni rilasciate da una pubblica autorità “non presentino la persona come colpevole”.

L’art. 2 nel richiamare espressamente l’autorità pubblica al dovere generale di non indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta ad indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili, afferma con forza, nel campo delle dichiarazioni pubbliche, la necessità di garantire una salvaguardia effettiva del principio di non colpevolezza, ancorando il rapporto comunicativo tra l’autorità pubblica e la collettività ad un criterio di continenza espressiva.

La chiara affermazione del divieto in questione ed il connesso richiamo ai diversi profili di responsabilità scaturenti dal suo mancato rispetto, unitamente alla previsione di rimedi volti ad ovviare alle eventuali lesioni della presunzione di innocenza, appare funzionale a scongiurare ipotesi di comunicazione distonica rispetto alla predetta presunzione.

Nel declinare il divieto in questione, l’art. 2 richiama una nozione ampia di “autorità pubblica”, designa il destinatario della tutela predisposta mediante il riferimento alla

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“persona” indagata o imputata e delimita il rispettivo ambito temporale per la vigenza del divieto posto a tutela del principio di non colpevolezza attraverso il riferimento al termine finale coincidente con l’intervenuto accertamento della colpevolezza dell’imputato “con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Il primo aspetto appare, in un’ottica ordinamentale, di significativo rilievo essendo attratte all’ambito di applicazione della norma de quo anche le dichiarazioni rese dalle autorità giudiziarie sia giudicanti che requirenti.

La relazione illustrativa dello schema di decreto al riguardo richiama espressamente il già citato considerando 17 e la “notevole latitudine” della nozione di ‘autorità pubblica’ in esso accolta in quanto riferita sia alle autorità coinvolte nel procedimento penale che ha ad oggetto il reato per il quale la persona fisica sia indagata o imputata, “quali le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all’applicazione della legge”, sia, più in generale, qualsivoglia “altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici”.

Al riguardo deve osservarsi come la nozione di autorità pubblica non costituisce una novità nel panorama della normativa europea, essendo stata tale nozione oggetto, nel tempo, di attività interpretativa ad opera della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito Corte EDU) in tema di presunzione di innocenza.

La nozione omnicomprensiva di “autorità pubbliche” mutuata dalla giurisprudenza della Corte EDU, accolta sia nel considerando n. 17 che nell’art. 4 della direttiva, deve dunque ritenersi contemplata nell’ambito della disciplina riprodotta nell’art. 2 dello schema di decreto legislativo in esame; è la stessa relazione illustrativa a dare conto della natura tralatizia della predetta nozione osservando che si tratta di nozione “autonoma del diritto dell’Unione” e che dunque qualsiasi “iniziativa definitoria da parte del legislatore nazionale”

risulta “interdetta - oltre che sostanzialmente superflua, attesa l’immediata chiarezza del concetto”.

La Corte EDU, nel ritenere violata la presunzione di innocenza nel caso in cui dichiarazioni di un pubblico ufficiale relative ad un indagato lasciassero intendere che egli sia colpevole prima della sentenza di condanna1, ha ritenuto in tal senso rilevanti le dichiarazioni rese da agenti ed alti ufficiali di polizia2, da ministri del Governo e dal Primo Ministro3, dal Presidente dell’Assemblea parlamentare4, dal capo addetto stampa del ministero degli interni5, da un Procuratore6.

Se dunque i primi e naturali destinatari del divieto affermato nel primo comma dell’art. 2 sono le autorità in vario modo coinvolte nel procedimento penale concernente un determinato reato e cioè pubblici ministeri, giudici e dirigenti delle forze di polizia incaricate delle indagini, il divieto tuttavia ha un ambito ben più ampio fino ad includere tutte le autorità che, interloquendo sulla vicenda penale di una persona indagata o imputata, lo presentino come già colpevole prima dell’esito di un processo.

Rientra nel concetto di autorità pubblica così tratteggiata anche l’autorità giudiziaria la quale, nel nostro ordinamento, rispetto al profilo dei rapporti con i mezzi di informazione,

1 V. CEDU Daktaras v. Lituania, ricorso 42095/98, sentenza 10 ottobre 2000; Shuvalov v. Estonia, ricorso 14942/09, sentenza 29 maggio 2002)

2 V. CEDU, Maksim Petrov v. Russia, ricorso 23185/03, sentenza 6 novembre 2012; Dovzhenko v. Ukraine, ricorso 36650/03, sentenza 12 gennaio 2012.

3 V. CEDU, G.V.P. v. Romania, ricorso 20899/03, sentenza 20 dicembre 2011, Konstas c. Grecia, ricorso 53466/07, sentenza 24 maggio 2011.

4 V. CEDU, Butkevicius v. Lithuania, ricorso 48297/99, sentenza 26 marzo 2002.

5 V. CEDU, Huseyn e altri v. Azerbaijan, ricorsi 35485/05, 45553/05, 35680/05 e 36085/05, sentenza 26 luglio 2011.

6 V. CEDU, Fatullayev v. Azerbaijan, ricorso 40984/07, sentenza 22 aprile 2010; da ultimo, cfr. Musolmani v.

Albania, ricorso 29864/03, sentenza 8 ottobre 2013.

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trova una compiuta disciplina solo in relazione alle dichiarazioni rese dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 106 del 2006 sul quale l’art. 3 dello schema di decreto in commento interviene specificando le regole applicabili alla comunicazione rese dagli uffici requirenti.

In relazione all’autorità giudiziaria giudicante, già oggetto di approfondita elaborazione anche a livello eurounitario7, le Linee guida approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera dell’11 luglio 2018 prevedono una apposita sezione dedicata alla disciplina della comunicazione degli uffici giudicanti.

Esse delineano un modello di comunicazione assimilabile a quello valido per gli uffici requirenti contemplando la possibilità per il dirigente di nominare fino a due responsabili per la comunicazione di notizie rilevanti riferite ai due settori del civile e del penale; gli argomenti considerati d’interesse; la procedura formale di selezione delle notizie e la modalità pratica con cui elaborarla ai fini della comunicazione all’esterno.

In esse si chiarisce come la comunicazione degli uffici giudiziari, siano essi requirenti ovvero giudicanti, debba essere “obiettiva, sia che provenga da tribunali o corti, sia che provenga da uffici di procura” e si precisa che, innanzi tutto, la comunicazione deve essere

“ispirata nella tecnica espositiva a criteri di chiarezza, sinteticità e tempestività” e debba avere ad oggetto “informazioni di effettivo interesse pubblico: da un lato, i casi e le controversie di obiettivo rilievo sociale, politico, economico, tecnico-scientifico; dall’altro, i provvedimenti organizzativi rilevanti per gli avvocati, il personale, i giornalisti, i giuristi, i cittadini.”.

II. a - Il contenuto del divieto ed i rimedi.

Passando ad un esame più dettagliato della disposizione in commento, deve rilevarsi che la salvaguardia della presunzione di innocenza apprestata dallo schema di decreto oggetto del presente parere passa, dapprima, attraverso l’affermazione in generale del divieto di

“indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta alle indagini o l’imputato”;

essa si sostanzia di seguito, in caso di eventuale violazione, nelle modalità mediante le quali la rettifica, disposta in accoglimento dell’istanza presentata dall’interessato, debba essere resa pubblica.

Tali modalità, al fine di garantire effettività alla salvaguardia assicurata, dovranno coincidere con quelle utilizzate per la dichiarazione ovvero, laddove ciò non sia più possibile,

“con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica”.

Ciò premesso deve osservarsi innanzi tutto che il riferimento alla persona fisica

“sottoposta” ad indagini, quale soggetto titolare del diritto alla salvaguardia della propria presunzione di innocenza, richiama l’ambito di operatività del divieto al dato dell’avvenuta iscrizione, ex art. 335 c.p.p.. La scelta del legislatore di ancorare la tutela al formale coinvolgimento del soggetto nelle indagini appare condivisibile essendo questi destinato a catalizzare l’attenzione della collettività e conseguentemente esposto rispetto alla salvaguardia della sua presunzione di innocenza.

Con riguardo, invece, al momento finale nel quale si estende la disciplina in questione, il considerando 12 chiarisce che, nell’ambito del procedimento penale, i diritti ed i meccanismi di tutela assicurati si riferiscono all’intero arco temporale del procedimento penale, ma non si spingono oltre la decisione definitiva che ne segna la conclusione.

7 Si veda, in particolare la Guida sulla comunicazione con i media ed il pubblico per Corti e Procure (Guide on communication with the media and public for Courts and Prosecution authorities) elaborata dalla Euopean Commission for the efficiency of justice (CEPEJ) nel dicembre del 2018.

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L’art. 2 della direttiva, nel definire l’ambito temporale di applicazione della medesima, fissa il dies ad quem nella definitività della decisione. L’art. 3 della direttiva, nella norma di apertura del capo dedicato alla presunzione di innocenza, individua il medesimo momento finale in quello nel quale risulti “legalmente provata la colpevolezza” dell’imputato, così in astratto lasciando spazio alla possibilità che le normative nazionali determinino in senso più restrittivo e anticipato rispetto al passaggio in giudicato della decisione. Tale circostanza, secondo quanto espressamente evidenziato nella relazione illustrativa, è tuttavia

“insuscettibile di concrete ricadute pratiche nel nostro sistema giuridico normativa nazionale” avendo la disposizione in commento, in conformità con il dettato costituzionale - che impone di non considerare l’imputato colpevole “sino alla condanna definitiva” (art. 27, 2° co. Cost.) - esteso l’ambito di operatività della tutela predisposta fino al momento in cui l’accertamento della colpevolezza non sia divenuto irrevocabile.

Il diritto ad una rappresentazione della propria posizione procedimentale conforme al principio di non colpevolezza viene, dalla disposizione in commento, attribuito alla sola persona fisica indagata o imputata nell’ambito del procedimento penale, così espressamente escludendo dal proprio ambito applicativo gli enti forniti di responsabilità giuridica in relazione agli illeciti amministrativi dipendenti da reato (ai sensi del D.Lgs. n. 231 dell’8 giugno 2001). La scelta di non estendere anche alle persone giuridiche la tutela predisposta per le persone fisiche appare conforme all’intendimento esplicitato nel considerando n.14 laddove si osserva che lo stato attuale di sviluppo del diritto e della giurisprudenza nazionale ed europea, impone di ritenere “prematuro” il legiferare in tema di presunzione di non colpevolezza con riferimento alle persone giuridiche.

Al fine di garantire un “ricorso effettivo” in caso di violazione del diritto alla salvaguardia della presunzione di innocenza, secondo quanto espressamente imposto dall’art.

10 della direttiva agli Stati, la disposizione prevede un primo rimedio, attivabile su istanza dell’interessato, coincidente con l’istanza di rettifica rivolta direttamente all’autorità pubblica autrice della propalazione lesiva (commi 2, 3 e 4) ed un secondo eventuale rimedio, di natura giurisdizionale, corrispondente alla possibilità di adire il Tribunale, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., allorquando l’istanza di rettifica non sia stata accolta ovvero la rettifica non rispetti le modalità disposte dal quarto comma.

Rispetto al diritto di rettifica, già contemplato dal nostro ordinamento in relazione alle notizie veicolate per il tramite dei mezzi di informazione (ai sensi dell’art. 8 della Legge n. 47 dell’8 febbraio 1948 contenente le disposizioni sulla stampa e dell’art.32 quinquies del D.Lgs.

n. 177 del 31 Luglio 2005 relativo al servizio radiotelevisivo), laddove esso scaturisce dall’intervenuta attribuzione ad un individuo di atti o pensieri o affermazioni dai medesimi ritenuti lesivi della dignità ovvero contrari a verità, quello disciplinato dalla disposizione in commento sposta l’oggetto della tutela sulle espressioni utilizzate al fine di esprimere il collegamento tra l’indagato o l’imputato ed il procedimento penale8.

La prima tutela accordata all’interessato è integrata dall’istanza di rettifica formulata direttamente nei confronti della medesima autorità pubblica autrice della propalazione lesiva la quale, qualora ritenuta “fondata”, conduce appunto ad una ‘rettifica’ della dichiarazione (immediatamente e non oltre le quarantotto ore) connotata dal rispetto delle stesse modalità connotanti la dichiarazione lesiva oppure, ove ciò non sia possibile, modalità comunque

“idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetti di rettifica”.

8 Ai sensi del considerando n.18 devono considerarsi lesive della presunzione di innocenza le dichiarazioni che

”per le modalità ed il contesto di divulgazione delle informazioni” siano idonee “a dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia leglamente provata”.

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Qualora l’istanza di rettifica non sia accolta ovvero, benché accolta, la medesima “non rispetti le disposizioni di cui al comma 4”, l’interessato può infatti formulare ricorso ex art.

700 c.p.c. affinché sia ordinata la pubblicazione della rettifica secondo le modalità di cui al comma 49.

Il richiamo all’art. 700 c.p.c., al fine di ottenere che sia ordinata la pubblicazione della rettifica secondo le modalità di cui al comma 4, appare peraltro compiuto nell’ottica di una rimodulazione del modello legale di riferimento.

Laddove l’art. 700 c.p.c. prevede che il ricorso sia finalizzato alla concessione, in generale, di quei provvedimenti che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito, la disposizione in commento sembra tipizzare il provvedimento ottenibile mediante il riferimento alla pubblicazione della rettifica

“secondo le modalità di cui al comma 4”, con una tutela la quale, più che anticipatoria degli effetti della eventuale decisione di merito, appare idonea a concretizzare la tutela effettiva e definitiva cui ambisce l’interessato.

Tali caratteri sembrano contribuire a fare del procedimento d’urgenza previsto un peculiare mezzo di tutela, distinto da quello codicistico in ragione dello specifico strumento accordato all’interessato.

Il rimedio predisposto appare connotato da un rito agile e modellato sul procedimento d’urgenza di cui all’art.700 c.p.c., cui tuttavia non risultano del tutto estranei i parametri del fumus boni iuris e del periculum in mora, sia pur in una accezione che, calata nella procedura appositamente forgiata dal legislatore, conferisce a tali requisiti una duttilità maggiormente compatibile con le esigenze della modifica.

Esso tuttavia non sembra contemplare alcuna delle peculiarità connesse alla partecipazione del magistrato quale ‘autorità pubblica’ al contenzioso instaurato ex art.700 c.p.c., e ciò anche nell’eventualità che tale contenzioso si instauri dinanzi ad un giudice che, nel caso di dichiarazioni rese dal Dirigente, faccia parte del medesimo ufficio dallo stesso diretto.

La norma si limita infatti a prevedere che l’interessato possa richiedere al tribunale che sia ordinata la pubblicazione della rettifica, senza chiarire nei confronti di chi tale domanda debba essere proposta.

In particolare la norma non chiarisce se ricorra anche in tal caso la legittimazione passiva del Presidente del Consiglio dei Ministri o, direttamente, del dirigente dell’ufficio, peraltro senza specificare in tale ultima ipotesi se il dirigente intervenga in rappresentanza dell’ufficio come autorità pubblica ovvero personalmente. Né se, nel caso in cui sia stato designato un magistrato responsabile della comunicazione, spetti o meno al medesimo Dirigente di partecipare al contenzioso istaurato. Priva di disciplina è altresì l’ipotesi in cui il giudice territorialmente competente in ordine al contenzioso instaurato ex art. 700 c.p.c.

appartenga ad un ufficio ricompreso nel medesimo distretto in cui svolge le proprie funzioni l’autorità giudiziaria che ha reso dichiarazioni lesive della presunzione di innocenza.

Al riguardo deve osservarsi come essendo estremamente limitata l’operatività della deroga alla competenza territoriale quale conseguenza della partecipazione di un magistrato in qualità di parte di una causa civile10, la norma così delineata consentirà il radicarsi del

9 Il disegno di legge ha mutuato lo strumento di tutela già previsto dall’art. 8 della Legge n. 47 dell’8 febbraio 1948 in tema di disposizioni sulla stampa, il cui quinto comma prevede il ricorso ex art. 700 c.p.c. quale rimedio per ottenere la pubblicazione della rettifica.

10 Al riguardo giova rilevare che l’art.30 bis c.p.c. dedicato al Foro per le cause in cui sono parte i magistrati stabilisce che: “1. Le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di

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conseguente contenzioso dinanzi ad un giudice avente sede nel medesimo luogo in cui ha sede l‘autorità giudiziaria autrice della dichiarazione lesiva.

Si tratta di profili dai quali, in mancanza di un intervento espresso ed analitico del legislatore, potranno verosimilmente scaturire delicate problematiche di natura anche ordinamentale (si pensi alle eventuali incompatibilità ed alle conseguenti istanze di astensione/ricusazione derivanti con i complessi risvolti anche organizzativi anche a fronte, in ipotesi, di plurime domande di tutela strumentali), e rispetto ai quali la disposizione in commento potrebbe viceversa opportunamente ovviare adottando una disciplina di tali aspetti esplicita ed idonea ad evitare le predette problematiche.

Deve, infine, osservarsi come la norma in esame prevede per l’autore, quale conseguenza della violazione delle disposizioni in tema di salvaguardia della presunzione di non colpevolezza, non solo l’eventuale applicazione di sanzioni “penali e disciplinari”, ma altresì l’“obbligo di risarcimento del danno”.

La prospettazione di una non specificata sanzione disciplinare, non prevista dalla direttiva, appare modulata in maniera generica senza un preciso riferimento alle condotte già di rilievo disciplinare contemplate negli artt. 2 e ss. del D.Lgs. n.109 del 23 febbraio 2006, così da gravare l’interprete, in un settore connotato da tipicità, di rilevanti problematiche interpretative.

In relazione all’eventuale obbligo di risarcimento del danno, deve innanzitutto ritenersi che, rispetto alle eventuali comunicazioni rese da un magistrato, in un contesto extra funzionale, le stesse possono esporre il predetto magistrato ad una diretta ipotesi di responsabilità, civile, penale e disciplinare, in relazione al contenuto delle dichiarazioni medesime.

Rispetto alle dichiarazioni rese dal magistrato in un contesto, cd. funzionale, nel quale lo stesso operando in qualità di ‘autorità pubblica’ abbia reso dichiarazioni lesive della presunzione di innocenza, il mero riferimento contenuto nella disposizione in commento all’“obbligo di risarcimento del danno” non appare idoneo a configurare una ipotesi di responsabilità diretta ed autonoma del magistrato, che costituirebbe un novum rispetto all’assetto ordinamentale attuale ed ai principi costituzionali ad esso sottesi.

Ciò impone di ritenere che la predetta ipotesi sia piuttosto riconducibile all’alveo della più generale disciplina della responsabilità civile del magistrato contenuta nella legge n. 117 del 1988 così come, da ultimo, modificata con la legge n. 18/2015.

Da ultimo, deve rilevarsi come la norma non affronti l’ipotesi in cui l’autorità pubblica si limiti a riportare dichiarazioni contenute in un provvedimento giudiziario lesive della presunzione di innocenza. In questo caso, infatti, non si comprende se l’obbligo al risarcimento del danno a carico dell’autorità pubblica ex art.2, concorra con lo strumento della

procedura penale. 2. Se nel distretto determinato ai sensi del primo comma il magistrato è venuto ad esercitare le proprie funzioni successivamente alla sua chiamata in giudizio, è competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello individuato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale con riferimento alla nuova destinazione.”.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 444 del 12.11.2002, ha dichiarata incostituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost. e dell'art. 24 Cost., la predetta disposizione nella parte in cui si applica ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto di Corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario competente ai sensi dell'art. 26 del c.p.c.. Con successiva sentenza n. 147 del 25.05.2004 la stessa Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del primo comma, ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 del c.p.p.. In forza di quest'ultima pronuncia della Corte Costituzionale, l'ambito di applicabilità dell'art. 30 bis c.p.c. ha finito con l'essere limitato esclusivamente alle cause in cui sia richiesto al giudice civile di accertare incidenter tantum, ai sensi dell'art. 34 del c.p.c., il compimento ad opera ovvero in danno di un magistrato di un fatto avente rilevanza penale.

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correzione prevista a norma dell’art.4 e da questa ritenuto, come si vedrà in seguito, integralmente satisfattivo dell’interesse leso.

Anche sotto questo profilo, tuttavia, un intervento chiarificatore sul punto consentirebbe di ovviare ad incertezze interpretative nella fase di prima applicazione della norma.

La disposizione in commento non riproduce, infine, quanto espressamente indicato nel considerando 17, laddove si evidenzia che rimane impregiudicato “il diritto nazionale in materia di immunità”. Ciò nondimeno tale immunità deve ritenersi operante per quei soggetti che godono, nell’esercizio delle rispettive funzioni, della insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nello svolgimento dei loro compiti istituzionali (come ad esempio i parlamentari ovvero i componenti di organi collegiali quale il C.S.M. cui tale insindacabilità è riconosciuta espressamente11).

III. - Art. 3. Modifiche al decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106. In particolare art. 3, comma 1, lett. a) e b).

L’art. 3 dello schema di decreto legislativo reca modifiche all’art. 5 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 che, nella sua versione attuale, disciplina i rapporti delle Procure della Repubblica con gli organi di informazione, prevedendo alcune norme generali dal contenuto sintetico ma assai chiaro.

Nell’impianto vigente, spetta, infatti, al Procuratore della Repubblica mantenere personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di stampa (art. 5, comma 1).

Ogni informazione inerente alle attività della Procura deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio, escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento (art. 5, comma 2).

I sostituti, inoltre, non possono rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione sull’attività giudiziaria dell'ufficio (art. 5, comma 3). Grava, infine, sul Procuratore l'obbligo di segnalare al Consiglio Giudiziario eventuali violazioni delle norme in questione per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare (art.

5, comma 4).

Il regime vigente concentra, quindi, sulla figura del Procuratore, o del magistrato all’uopo delegato, la titolarità dei rapporti con la stampa e mira all’evidenza ad escludere occasioni di visibilità individuale del singolo sostituto, limitando la possibilità che questi rilascino dichiarazioni alla stampa ai soli casi in cui sia intervenuto un preventivo provvedimento di delega del Procuratore.

La norma sembra dunque, per certi versi, dare per scontata l’ammissibilità di un flusso d’informazioni lecite tra la Procura della Repubblica e gli organi di stampa: l’impianto normativo vigente non prevede, infatti, il rilascio di informazioni relative ai procedimenti pendenti alla ricorrenza di qualche specifica esigenza investigativa, ovvero di un rilevante interesse dell’opinione pubblica a conoscere lo stato di procedimenti penali determinati, ma si limita genericamente ad attribuire al solo Procuratore o al suo delegato il potere di divulgare informazioni inerenti alle attività della Procura e ad escludere, pertanto, che siano titolari dello stesso i magistrati assegnatari dei vari procedimenti che non potranno, quindi, rilasciare notizie in merito alla loro trattazione.

Le disposizioni dell’art. 5 cit. vanno, infatti, lette congiuntamente a quelle contenute nel D.Lgs. n. 109/2006 che, all’art. 2, lettera u), include fra gli illeciti disciplinari commessi

11 V. Art. 32 bis della Legge n. 195 del 24 marzo 1958 in tema di opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni, a tenore del quale “I componenti del Consiglio Superiore non sono punibili per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni, e concernenti l'oggetto della discussione.”.

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nell’esercizio delle funzioni, “la divulgazione di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché' la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente i diritti altrui” e, alla lettera v), le “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti... omissis ... quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.

Tenuto conto della delicatezza e della crescente importanza assunta per l’opinione pubblica dal tema dei rapporti tra gli uffici giudiziari e la stampa e della essenzialità delle poche disposizioni di rango primario dedicate al tema in questione, il Consiglio Superiore è intervenuto di recente nella materia, dettando “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”.

Le Linee Guida, approvate con delibera dell’11 luglio 2018, individuano, conformemente al disposto dell’art. 5 del D.Lgs. n. 106/2006, il “responsabile per la comunicazione" delle Procure nel capo dell’ufficio che, nel programma organizzativo, potrà però delegare uno o più magistrati, da scegliersi in relazione alle loro attitudini ed alla loro esperienza comunicativa, per le comunicazioni dell’intera attività dell’ufficio, o di specifici ambiti di attività, ovvero ancora di singoli affari.

Grava in ogni caso sui sostituti l’obbligo di informare tempestivamente il Procuratore degli affari di particolare delicatezza, gravità, rilevanza, che siano comunque idonei a coinvolgere l’immagine dell’ufficio, per la natura dei fatti trattati, per la qualità dei soggetti coinvolti, ovvero per le questioni di diritto nuove o di speciale complessità e delicatezza affrontate.

Le Linee Guida consiliari confermano, dunque, la centralità della figura del Procuratore ed il carico di responsabilità, anche nel settore della comunicazione, che su di lui gravano e tuttavia, rispetto alle previsioni del vigente art. 5 del citato decreto legislativo, le temperano almeno nel senso di prevedere il necessario coinvolgimento dei sostituti che “...

omissis ... collaborano alla raccolta e all’analisi delle informazioni da comunicare;

assicurano ogni opportuna integrazione informativa anche nel corso degli incontri con la stampa ritenuti opportuni dal capo dell’ufficio rispetto all’ambito in cui esso è maturato”. I sostituti, inoltre, come già anticipato, possono essere individuati quali responsabili della comunicazione per settori specifici o per procedimenti penali determinati.

La delibera consiliare anticipa, infine, per certi aspetti, il contenuto dello schema di decreto legislativo in commento, nella parte in cui prevede espressamente sia la possibilità che le Procure rilascino comunicati stampa, sia la necessità che nelle comunicazioni al pubblico sia assicurato il rispetto della presunzione di non colpevolezza in modo da evitare

“tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate”, sia, da ultimo, l’opportunità di adottare tutte le misure utili ad evitare l’ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della dignità e riservatezza degli indagati/imputati.

Nel sistema normativo vigente sussiste, pertanto, un margine di discrezionalità per il Procuratore, tanto nella scelta a monte di rilasciare o meno notizie relative a procedimenti pendenti presso l’ufficio, quanto nell’individuazione della forma con cui la comunicazione può intervenire e nella definizione del suo contenuto concreto.

A fronte della vasta gamma di informazioni divulgabili alla stampa e della forma sostanzialmente libera della comunicazione, le previsioni dello schema di decreto appaiono idonee, invece, a vincolare fortemente l’iniziativa del Procuratore o del magistrato delegato alle comunicazioni in relazione sia all’an stesso della comunicazione, che al quomodo della

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medesima.

Ed invero, mentre l’art. 5 del D.Lgs. n. 106/2006 nella versione vigente parte dal presupposto della divulgabilità delle informazioni relative alle attività della Procura non soggette a segreto e lascia, come si è visto, al Procuratore o al suo delegato la scelta circa le modalità della comunicazione, il comma 2 bis introdotto dallo schema di decreto, nella prima parte, prevede espressamente che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali sia consentita “solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”.

La norma sembra ricalcare il testo della direttiva europea che, all’art. 4, par. 1, dopo avere previsto che “fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non devono presentare la persona come colpevole”, al par. 3 dello stesso articolo, specifica che le informazioni relative a procedimenti penali determinati possono comunque essere rilasciate dalle autorità pubbliche solo se ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico.

Il considerando 18 chiarisce che “l’obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non dovrebbe impedire alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale, come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico. Il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi. In ogni caso, le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l’impressione della colpevolezza dell’interessato prima che questa sia stata legalmente provata”.

Dunque la norma europea distingue le dichiarazioni che una qualsivoglia autorità pubblica potrà rilasciare su un determinato caso, che sono sempre ammissibili purché rispettino il canone della presentazione della persona indagata o imputata come non colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna, dalle informazioni ‘tecniche’ e ‘ufficiali’, strettamente legate alle indagini svolte, per le quali è introdotto il limite della loro divulgabilità solo se ciò sia necessario per la prosecuzione delle indagini o per la sussistenza di rilevanti ragioni di interesse pubblico.

L’art. 3 dello schema di decreto, essendo destinato ad incidere sul testo del D.Lgs. n.

106/2006 espressamente dedicato alla organizzazione degli uffici di Procura, si concentra sulla sola divulgabilità di informazioni ‘tecniche’ inerenti gli affari trattati dagli uffici requirenti, vincolando il Procuratore prima ancora che alla ‘continenza espressiva’, alla necessità di verificare la sussistenza del presupposto giustificativo della comunicazione (la ricorrenza di una specifica esigenza investigativa o di un rilevante interesse pubblico).

Con specifico riferimento alla prima condizione legittimante la comunicazione (della sua stretta necessità per la prosecuzione delle indagini), deve osservarsi che essa può ricorrere in una pluralità di ipotesi, ad esempio quando la divulgazione di notizie sia diretta a vagliare la reazione di una o più persone soggette ad intercettazione, ovvero a sollecitare la collaborazione ed il rilascio di informazioni da parte di una comunità ove un fatto reato si è verificato. In tutti questi casi appare inevitabile che il Procuratore si coordini con il sostituto o i sostituti titolari delle indagini per evitare che la decisione di attivare la comunicazione possa essere disfunzionale rispetto alle esigenze investigative, apprezzabili in via più immediata dal sostituto o dai sostituti titolari del procedimento.

Con riguardo, invece, alla seconda delle condizioni che legittimano la comunicazione

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di notizie relative ad un procedimento trattato dall’ufficio, ovvero quella delle rilevanti ragioni di interesse pubblico, non vi è chi non veda come la verifica della loro effettiva ricorrenza, ove non rilevino concomitanti esigenze investigative a giustificarla, chiami in causa valutazioni di opportunità rimesse al solo Procuratore e dunque inevitabilmente influenzate dalla sua sensibilità culturale.

La disciplina introdotta con la disposizione in commento sembra, quindi, per un verso, mantenere inalterata la centralità della figura del Procuratore con riguardo alle comunicazioni all’esterno delle attività dell’ufficio, già prefigurata dal Legislatore del 2006, e per altro verso, anche le problematicità conseguenti ad una tale impostazione, con riferimento in particolare alla possibilità che possano essere sottratte alla conoscenza dell’opinione pubblica informazioni di interesse (in ragione della qualità dei soggetti coinvolti dalle indagini o della rilevanza dei fatti oggetto di accertamento), in virtù di una scelta rimessa all’esclusivo apprezzamento del Procuratore.

Quanto alla modalità con cui la notizia può essere divulgata, mentre fino ad adesso vi era spazio per la scelta del dirigente che, come precisato nelle Linee guida consiliari, poteva optare per la conferenza-stampa, per incontri meno formalizzati, per una semplice dichiarazione ovvero per un comunicato, lo schema di decreto precisa che il Procuratore potrà fornire agli organi di stampa informazioni “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”.

La modalità ordinaria di comunicazione delle notizie da parte degli uffici requirenti sarà dunque, per il futuro, il comunicato, essendo il ricorso alla conferenza stampa circoscritto ai soli casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti.

L’individuazione di una specifica e obbligatoria modalità di comunicazione delle notizie rappresenta una regolamentazione di un percorso informativo altrimenti sostanzialmente rimesso alle scelte discrezionali dei singoli procuratori o dei loro delegati.

Se la scelta del “comunicato” appare conforme alla ratio complessiva dell’intervento normativo finalizzato, come visto, a limitare le occasioni di visibilità individuale dei magistrati ai soli casi in cui ciò sia inevitabile in ragione della ricorrenza di una specifica ragione di interesse pubblico, si deve tuttavia tenere conto di quanto deliberato dal Consiglio consultivo dei Procuratori europei (CCPE) con il parere n. 9/2014 nel quale è stato evidenziato come il Pubblico ministero, quale esponente della Pubblica Accusa, ha non solo il diritto, ma anche il dovere di informare la collettività in ordine allo stato ed agli esiti delle indagini.

Il legislatore potrà, altresì, valutare l’opportunità di prevedere una deroga alla operatività della regola generale sopra descritta, per le ipotesi in cui la gravità dei fatti oggetto d’indagine e la connessa rilevanza di essi per l’opinione pubblica, nonché le modalità con cui si sono verificati, siano tali da imporre una comunicazione urgente che non può consentire l’osservanza delle prescritte formalità.

Sempre con riguardo al contenuto che le informazioni fornite dalle Procure dovranno avere, di particolare rilievo risulta l’ulteriore previsione dell’art. 3, lett. b) dello schema di decreto che, nella seconda parte del comma 2 bis citato, specifica che “le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

La disposizione si fa, pertanto, carico di un aspetto rilevante nell’ambito delle comunicazioni riguardanti i procedimenti penali, ovvero dell’obbligo, da osservare almeno da parte degli Uffici requirenti, di specificare la fase in cui pende il procedimento cui l’informazione divulgata si riferisce: la questione appare essenziale proprio ai fini della concreta attuazione del principio della presunzione d’innocenza, poiché impone che

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l’opinione pubblica sia informata, oltre che dei fatti oggetto del procedimento penale, anche della transitorietà degli eventuali provvedimenti cautelari adottati nel corso delle indagini e della fase in cui versa il procedimento, così da essere posta nelle condizioni di comprendere l’assenza di un accertamento sulla colpevolezza del soggetto interessato dalle indagini avente il carattere della definitività.

La necessità che le informazioni rese a mezzo di comunicato o tramite conferenza stampa rispettino la presunzione di non colpevolezza, comporterà, infine, un obbligo per i procuratori di prestare particolare cura non solo nella scelta del contenuto in sé da rendere oggetto di comunicazione all’esterno, ma anche della modalità con cui le informazioni saranno presentate.

In conclusione, lo schema di decreto in commento compie una scelta verso una rigida limitazione delle informazioni rilasciabili da parte degli Uffici requirenti, laddove gli Uffici giudicanti saranno soggetti alla disciplina prevista dall’art. 2 citato che vincola le “autorità pubbliche” al rispetto del canone generale del divieto di indicare nelle dichiarazioni pubbliche come colpevole l’indagato/imputato non condannato in via definitiva.

III. a) - Art. 3, comma 1, lett. c).

La norma introduce i commi 3 bis e 3 ter nel corpo dell’art. 5 del D.Lgs. n. 106/2006.

Il comma 3 bis prevede che qualora ricorrano i presupposti già indicati, della necessità della divulgazione di informazioni inerenti un procedimento penale per ragioni investigative, ovvero in ragione del loro rilevante interesse pubblico, il Procuratore possa autorizzare gli ufficiali di Polizia giudiziaria a fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato.

La previsione conferma, dunque, ancora una volta la centralità del ruolo del Procuratore della Repubblica che dovrà espressamente autorizzare gli ufficiali di Polizia giudiziaria, che abbiano svolto le indagini o che in ogni caso vi abbiano partecipato, a fornire informazioni in merito.

Anche in questo caso, il legislatore richiede per la diffusione di informazioni relative alle indagini espletate da parte della Polizia giudiziaria, la ricorrenza delle stesse pre- condizioni previste per le comunicazioni da parte degli Uffici requirenti (la ricorrenza di esigenze investigative e di rilevanti ragioni di interesse pubblico alla divulgazione della notizia).

Sono, inoltre, confermate anche le modalità con cui la comunicazione può avvenire, ovvero in via esclusiva tramite comunicati ufficiali o conferenze stampa.

Il successivo comma 3 ter prevede che nei comunicati e nelle conferenze stampa, la Polizia giudiziaria non potrà assegnare alle indagini, svolte nell’ambito di un procedimento penale oggetto della comunicazione, una denominazione lesiva del principio della presunzione di innocenza dell’indagato/imputato.

Il legislatore ha, quindi, inteso evitare che la Polizia giudiziaria possa denominare le operazioni investigative compiute con nomignoli o espressioni che, a causa della loro suggestività e capacità di evocare con immediatezza la gravità del reato, siano idonei ad indurre l’idea della colpevolezza dei soggetti cui essi siano associati sulla stampa, così da risultare in concreto violativi del principio della presunzione d’innocenza.

In conclusione, con riferimento alle previsioni dell’art. 3 dello schema di decreto, deve complessivamente valutarsi con favore l’iniziativa legislativa in commento, potendo essa contribuire in modo sostanziale alla diffusione di una nuova cultura inerente alla modalità con la quale devono essere presentate all’opinione pubblica, da parte degli operatori del settore, magistrati e forze dell’ordine, le notizie riguardanti procedimenti e processi penali non ancora definiti con sentenza irrevocabile.

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In quest’ottica deve senza dubbio apprezzarsi l’intento di disciplinare in maniera più rigorosa i presupposti per l’intervento delle comunicazioni in parola.

Tenuto conto dell’importanza crescente assunta dalla comunicazione nella società moderna e del rilevante impatto dei provvedimenti giudiziari sulla vita di un elevato numero di soggetti (indagati/imputati e loro familiari, persona offesa dal reato/vittima e relativi familiari, datore di lavoro/colleghi di lavoro degli uni e delle altre, opinione pubblica in genere), appare determinante che gli uffici giudiziari siano in grado di offrire una comunicazione professionale effettivamente idonea ad assolvere allo scopo per il quale viene rilasciata e che sia perciò chiara, esaustiva, non sovrabbondante, tempestiva ed in grado di tutelare la presunzione d’innocenza dell’indagato/imputato.

In proposito va rilevato che la raccomandazione (2010)12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul tema dell’indipendenza, efficacia e responsabilità dei giudici del 17 novembre 2010 e dell’indirizzo assunto dall’ENCJ nel rapporto “Public Confidence and the Image of Justice - Report 2017-2018” richiama la possibilità di istituire la figura del portavoce giudiziario o di un ufficio espressamente dedicato al rilascio di informazioni giudiziarie 12.

IV. Art. 4. Modifiche al codice di procedura penale. Lett. a): Art. 115 bis c.p.p., comma 1° e 2°.

In merito alle possibili violazioni della presunzione di innocenza compiute per il tramite di “decisioni” dell’autorità giudiziaria, lo schema di decreto prevede l’inserimento nelle disposizioni generali sugli atti del procedimento, di cui al Titolo I del Libro III del codice di rito, dell’art. 115 bis, espressamente intitolato alla “Garanzia della presunzione di innocenza”.

La norma riproduce nel codice di procedura penale la generale formulazione del divieto di riferimenti pubblici alla colpevolezza, già contemplata dall’art. 2 dello schema di decreto, e prevede, infatti, al primo comma, che “nei provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato, la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili” (art. 4, comma 1, lett.

a) che introduce l’art. 115 bis, comma 1 c.p.p.).

La disposizione non si applica agli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato” (art. 4, comma 1, lett. a) che introduce l’art. 115 bis, comma 2 c.p.p.).

Il secondo comma dell’art. 115 bis c.p.p. prevede invece un regime specifico per i provvedimenti “che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, diversi dalle decisioni indicate al comma 1”. In questo caso, infatti, “l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre

12 In questo senso si pone anche il suggerimento contenuto nella Raccomandazione (2010)12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul tema dell’indipendenza, efficacia e responsabilità dei giudici che, adottata il 17 novembre 2010, al par. 19, partendo dalla premessa che i procedimenti giudiziari e le questioni relative all’amministrazione della giustizia sono di pubblico interesse, evidenziava che “la creazione di posti di portavoce giudiziario o di servizi stampa e comunicazione sotto la responsabilità dei tribunali o sotto il controllo dei consigli superiori della magistratura o di altre autorità indipendenti”. Anche l’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary), nel rapporto “Public Confidence and the Image of Justice - Report 2017-2018”, approvato a Lisbona il 1° giugno 2018, ha suggerito l’elaborazione di linee-guida riguardanti i rapporti tra il potere giudiziario ed i media, raccomandando, tra l’altro, la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.

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condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”.

La necessità di garantire effettività al principio della presunzione di innocenza penetra dunque anche nel cuore della motivazione dei provvedimenti giudiziari, in modo da poterne determinare la modifica, poiché, come si vedrà di seguito, in caso di violazione delle previsioni del nuovo art. 115 bis c.p.p., è previsto un vero e proprio procedimento di

‘correzione’ attivabile da parte dell’interessato.

In via preliminare deve osservarsi come la direttiva 2016/343/UE preveda all’art. 4 un’unica norma che contempla il generale divieto per le autorità pubbliche di indicare nelle dichiarazioni pubbliche come colpevole l’indagato/imputato non condannato in via definitiva e un’eccezione all’operatività di tale regola per le decisioni giudiziarie sulla colpevolezza, gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità.

Lo schema di decreto legislativo ha invece optato per recepire l’art. 4 della direttiva in due norme distinte, l’art. 2 dedicato, come si è visto, alle dichiarazioni pubbliche rese da autorità pubbliche e l’art. 4 relativo all’osservanza del divieto di indicare come colpevole l’indagati/imputato non condannato in via definitiva nei provvedimenti giudiziari.

I primi due commi dell’art. 115 bis c.p.p. mutuano l’impostazione dell’art. 4 della direttiva e le stesse generiche espressioni in essa utilizzate, tratteggiando una tutela della presunzione d’innocenza nei provvedimenti giudiziari attraverso l’elaborazione di una regola generale, cui si accompagna la previsione di alcune eccezioni di non facile individuazione.

Il legislatore, infatti, stabilisce quale criterio generale che nei provvedimenti giudiziari, salvo che ricorra una delle eccezioni previste, opera il generale divieto – la cui accentuazione è, d’altra parte, la ratio stessa dell’intervento legislativo in commento – di presentare come colpevole l’indagato/imputato che non sia stato condannato con sentenza definitiva13.

La regola, formulata in negativo, ossia come operante salvo che sussista un’eccezione (secondo la stessa tecnica redazionale usata nella direttiva), anziché specificare gli atti ai quali deve essere espressamente applicata, individua solo le eccezioni alla sua ordinaria operatività, ovvero la sua inapplicabilità alle “decisioni in merito alla responsabilità penale dell’imputato” e agli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato”. Il risultato è quello di una norma di difficile interpretazione ed applicazione.

Il divieto dovrebbe infatti per esclusione applicarsi a tutti gli atti, diversi da quelli appena menzionati, adottati dall’ufficio requirente o dall’ufficio giudicante, nella fase delle indagini preliminari o in dibattimento, di natura sostanziale o procedurale, ovvero, ad esempio, i provvedimenti riguardanti i mezzi di ricerca della prova (decreti d’ispezione,

13La direttiva 2016/343/UE all’art. 4 par. 1 prevede, come si è già visto, che gli Stati membri adottino le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole, specificando che “Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”.

Il considerando 16, inoltre, dopo avere trattato il tema delle “dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche” e il divieto di presentare l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata, evidenzia che tale divieto non tocca “gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato, come l’imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa”.

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decreti di perquisizione e sequestro probatorio, decreti di esibizione di documenti, le richieste d’intercettazione e i relativi provvedimenti autorizzatori), le richieste di convalida dell’arresto o del fermo e le relative ordinanze, la richiesta di incidente probatorio, i provvedimenti procedurali adottati dal giudice in tema di ammissione delle prove, di questioni preliminari o relativi alla formulazione dell’imputazione, i provvedimenti riguardanti le misure di prevenzione, le richieste di misure cautelari reali e i connessi provvedimenti del giudice.

Alcuni di detti provvedimenti, tuttavia, proprio perchè richiedono ai fini della loro adozione, la sussistenza di gravi indizi di reato ed implicano perciò una stringente motivazione in ordine alla ricorrenza degli elementi soggettivi ed oggettivi del fatto che lambisce l’area dei gravi indizi di colpevolezza, potrebbero essere anche ricondotti nell’ambito dell’altra eccezione prevista nel corpo centrale del comma 1 dell’art. 115 bis c.p.p. e riferita ai “provvedimenti che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza”.

Così è in particolare per i provvedimenti in cui il magistrato dovrà valorizzare, ad esempio, la ricorrenza di gravi indizi di reato (art. 267 c.p.p.), dei fondati elementi per cui si ritenga che un soggetto possa occultare sulla sua persona o in un luogo determinato il corpo del reato o cose pertinenti al reato (art. 247 e ss. c.p.p.), ovvero degli elementi per cui si ritiene che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso o agevolare la commissione di altri reati (art. 321 e ss. c.p.p.)14.

E’ dunque certamente auspicabile un intervento del legislatore che abbandoni la tecnica redazionale utilizzata dalla direttiva europea, lontana dal tradizionale modello codicistico ed individui ‘in positivo’ quali siano i provvedimenti cui si applica il divieto contenuto nel primo comma dell’art. 115 bis c.p.p., o indicandoli nominativamente, ovvero dettando in positivo i criteri per identificarli con maggiore certezza.

Le stesse difficoltà interpretative riscontrate nell’analisi della regola generale prevista dal primo comma del nuovo art. 115 bis c.p.p., si presentano anche con riferimento alle previste eccezioni, in ragione delle locuzioni utilizzate dal legislatore, anche in questo caso mutuale dalla direttiva europea.

Se, infatti, è di agevole individuazione l’ambito operativo della prima eccezione relativa alle decisioni in merito alla responsabilità penale dell’imputato, più complesso è stabilire i confini della seconda eccezione riferita agli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato” e di quella prevista dal secondo comma dell’art. 115 bis c.p.p. per i provvedimenti “che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza, diversi dalle decisioni

14 La problematica è particolarmente evidente in tema di misure cautelari reali, rispetto le quali si è sviluppata una giurisprudenza della Suprema Corte in cui si dà conto dell’ampiezza della valutazione che il giudice può compiere: “la base probatoria su cui si sostanzia il provvedimento di sequestro è “flessibile” in ragione dei diversi stadi di accertamento dei fatti: se a legittimare la misura è sufficiente il fumus, ciò non toglie che la relativa sussistenza può formare oggetto di scrutini “contenutisticamente” differenziati a seconda del materiale che il pubblico ministero ritiene di devolvere al giudice chiamato ad adottare la misura e, poi, a scrutinare la legittimità del provvedimento in sede di impugnazione (sez. 2, sentenza n. 47421 del 16 dicembre 2011). Nel caso in cui gli elementi prodotti dal pubblico ministero documentino la “sussistenza” del reato in termini congrui, potrà dirsi raggiunto il (necessario e sufficiente) fumus e, quindi, integrato il presupposto “minimo”

per l’adozione della misura cautelare reale; tuttavia, nei casi in cui ... il materiale di indagine ha permesso al giudice di emettere misure cautelari … non può certo pretendersi che il giudice, cui il materiale di indagine sia stato devoluto, sia obbligato a “degradare” il proprio potere di sindacato, limitandosi ad un accertamento “più superficiale”, sul rilievo che, altrimenti, il controllo proprio del subprocedimento cautelare risulterebbe snaturato”.

Più di recente, si veda la sentenza delle Sezioni Unite penali n. 36959/2021 in tema di sequestro, finalizzato alla confisca facoltativa, di beni costituenti il profitto di reato e dell’obbligo di motivazione sul periculum in mora.

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