• Non ci sono risultati.

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONOMIA

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONOMIA"

Copied!
286
0
0

Testo completo

(1)

s

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTÀ DI ECONOMIA

TESI DI LAUREA

Organizzazione e teatro tra management e cultura.

Alcuni approfondimenti sulla realtà genovese.

Candidato: Relatore:

Andrea Puggioni Prof.ssa Teresina Torre

Anno accademico 2002/2003 Sessione di luglio

(2)

INDICE

INTRODUZIONE... 6

1. IL TEATRO ... 9

1.1 UNA REALTÀ IN CONTINUO MOVIMENTO... 9

1.2 LE ORIGINI: IL TEATRO GRECO... 11

1.3.1 IL TEATRO IN ITALIA: COMPAGNIE DI GIRO E TEATRI STABILI... 17

1.3.2 IN PRINCIPIO ERA LA COMPAGNIA (COMPAGNIE, CAPOCOMICI, IMPRESARI) ... 17

1.3.3 L’OTTOCENTO... 18

1.3.4 IL NOVECENTO... 22

1.3.5 GLI STABILI... 25

2. LA CORNICE GIURIDICA... 31

2.1.1 IL DIRITTO DAUTORE... 31

2.1.2 LA SIAE... 33

2.1.3 IL CONTRATTO DI RAPPRESENTAZIONE... 36

2.2.1 IL RAPPORTO DI LAVORO NELLO SPETTACOLO: IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO... 39

2.2.2 IL REGOLAMENTO DI PALCOSCENICO... 41

2.2.3 LA SCRITTURA... 44

2.3.1 LE FORME GIURIDICHE... 49

2.3.2 LE SOCIETÀ... 50

2.3.3 IL CONSORZIO E LA FONDAZIONE DI PARTECIPAZIONE... 52

(3)

I N D I C E

3

3. L’ANALISI ECONOMICA: DOMANDA, COSTI E FINANZIAMENTO DEI

TEATRI ... 55

3.1 IL SETTORE TEATRALE... 55

3.2 LA DOMANDA DI INTRATTENIMENTI CULTURALI... 57

3.3 LA DOMANDA DI TEATRO... 60

3.4 IL MORBO DI BAUMOL NELLE PERFORMING ARTS... 64

3.5 LA VERIFICA EMPIRICA DELLA COST DISEASE: GLI STUDI SUL TEATRO REGIO DI TORINO... 67

3.6 IL FINANZIAMENTO DEI TEATRI IN ITALIA DALL’800 AD OGGI... 68

3.7.1 L’ATTUALE SISTEMA DI FINANZIAMENTO PUBBLICO ITALIANO: I PRINCIPI... 76

3.7.2 LE CIFRE... 77

3.7.3 LE QUESTIONI APERTE... 79

3.8 IL FINANZIAMENTO DEI PRIVATI (RINVIO). ... 80

4. LA NOSTRA RICERCA... 81

4.1 PRESENTAZIONE DELLA RICERCA... 81

4.2 L’AMBIENTE TEATRALE LIGURE... 83

4.3 IL TEATRO STABILE DI GENOVA... 84

SCHEDA Teatro di Genova ... 86

ORGANIGRAMMA Teatro di Genova ... 88

4.4 IL TEATRO DELLA TOSSE... 94

SCHEDA Teatro della Tosse... 96

ORGANIGRAMMA Teatro della Tosse ... 98

4.5 IL TEATRO DELL’ARCHIVOLTO... 101

SCHEDA Teatro dell’Archivolto... 103

ORGANIGRAMMA Teatro dell’Archivolto ... 105

(4)

5. L’ANALISI ORGANIZZATIVA: STRUTTURA, POTERE, CULTURA,

AMBIENTE... 109

5.1.1 LA STRUTTURA E IL POTERE... 109

5.1.2 ASSETTO ISTITUZIONALE E FORMA GIURIDICA... 114

5.1.3 RAPPORTO DIRIGENTI CONSIGLIO... 118

5.1.4 I PORTATORI DI INTERESSE... 129

5.2.1 LA CULTURA... 134

5.2.2 AMALGAMA TRA DIVERSE CULTURE... 136

5.2.3 DICOTOMIA TRA LA DIMENSIONE ECONOMICA E QUELLA ARTISTICA... 140

5.2.4 LA MEMORIA ORGANIZZATIVA... 145

5.2.5 L’EQUILIBRIO TRA DEDIZIONE E AUTO-INTERESSE... 150

5.2.6 UNORGANIZZAZIONE DIONISIACA... 155

5.3.1 L’AMBIENTE... 160

5.3.2 LA CONCORRENZA... 162

5.3.3 I NETWORK E LA COOPERAZIONE INTERAZIENDALE... 167

5.3.4 I RAPPORTI CON I FINANZIATORI PRIVATI... 175

5.3.5 L’IMPORTANZA DELLE RELAZIONI ESTERNE. ... 183

6. PROFILI GESTIONALI ... 186

6.1.1 LE PROBLEMATICHE DELLA GESTIONE... 186

6.1.2 LA SELEZIONE DELLE OSPITALITÀ E DELLE PRODUZIONI... 189

6.1.3 IL PROCESSO DI PRODUZIONE... 195

6.1.4 PIANIFICARE... 198

6.1.5 INSERIRE PERSONE DALLESTERNO... 203

6.1.6 ALLA RICERCA DELLEFFICIENZA... 205

6.2.1 LE POLITICHE DI MARKETING... 212

6.2.2 LE RICERCHE SUL PUBBLICO... 215

6.2.3 L’IMPORTANZA DEL PUBBLICO... 223

6.2.4 LE POLITICHE DI PREZZO E GLI ABBONAMENTI... 227

6.2.5 IL CONFLITTO CON I PRINCIPI DEL MARKETING... 233

6.3.1 IL MANAGER DELLA CULTURA... 235

(5)

I N D I C E

5

6.3.2 IL CONFRONTO CON GLI ALTRI MANAGER... 242

6.3.3 L’ESPERIENZA NEL CAMPO ARTISTICO... 245

6.3.4 IL REGISTA: UN MANAGER? ... 247

6.3.5 EQUILIBRARE ASPETTI ARTISTICI E MANAGERIALI. ... 250

7. L’ECONOMIA DELLA CONOSCENZA... 252

7.1 IL RUOLO DEL TEATRO NELLECONOMIA DELLA CONOSCENZA... 252

7.2 METAFORE E MODELLI... 253

7.3 LA NARRAZIONE... 260

7.4 L’OPINIONE DEGLI UOMINI DI TEATRO... 262

CONCLUSIONI... 265

BIBLIOGRAFIA ... 273

APPENDICE: 40 DOMANDE PER I MANAGER TEATRALI ... 283

(6)

INTRODUZIONE

Da terra conviene progettare la rotta se si riesce a farlo destramente ma quando si è per mare bisogna correre col vento che c’è.

ALCEO

Il mondo delle organizzazioni culturali sta vivendo una fase di grandi trasformazioni.

Da una parte vi è una continua espansione sia delle attività, sia dell’interesse da parte del pubblico. Dall’altra vi sono le altrettanto continue riduzioni dei finanziamenti pubblici. Si assiste così all’aumento dell’importanza degli interventi privati e alla ricerca di una efficienza gestionale sempre maggiore per far fronte ai tagli;

contemporaneamente il settore culturale sta uscendo dalla marginalità economica cui era relegato finora, per acquistare una maggiore centralità, legata anche alle trasformazioni di tutta l’economia nel suo insieme, trasformazioni che, pur tra mille scossoni, ci stanno portando verso un’Economia della Conoscenza.

Acquista allora grande interesse la ricerca su questo tipo di organizzazioni, sulle loro peculiarità e sulle loro problematiche, nella convinzione che for profit e not for profit abbiano molto da imparare l’uno dall’altro. È quello che cercheremo di mettere in luce in questo scritto, dove si analizzano alcune delle realtà più vivaci del mondo culturale: i teatri.

Nelle pagine che seguono cercheremo di capire la realtà dei teatri, dal punto di vista gestionale – organizzativo, mettendo a fuoco soprattutto le criticità, cercando di capire se gli studi aziendali possono offrire delle soluzioni, e se, viceversa, proprio dai teatri

(7)

I N T R O D U Z I O N E

7

possano venire degli spunti utili per la comprensione delle più urgenti problematiche aziendali.

Prima di procedere con la ricerca vera e propria, abbiamo cercato di inquadrare la realtà delle performing arts dal punto di vista storico, giuridico ed economico generale. Come sempre, infatti, l’economia politica ha preceduto con le sue indagini l’economia aziendale, e i suoi risultati non possono essere taciuti essendo stati il punto di partenza di tutte le ricerche sul settore teatrale.

Per capire, poi, la realtà dell’organizzazione dei teatri, abbiamo cercato di selezionare un campione adeguato su cui svolgere le analisi empiriche. Siamo stati favoriti dal fatto che Genova costituisce una delle realtà principali della scena italiana, seconda sola a Milano e Roma.1 Per mantenere una certa omogeneità delle problematiche da affrontare, sono stati scelti solo i teatri che svolgono sia l’attività di produzione sia quella di distribuzione. Sempre per avere la garanzia della confrontabilità, sono state selezionate solo quelle realtà dalle dimensioni operative medie, o medio – alte. La scelta è ricaduta dunque sui teatri di prosa, riconosciuti come teatri stabili dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. La ricerca, quindi, è stata svolta sui tre teatri stabili con sede a Genova: il Teatro di Genova, il Teatro della Tosse e il Teatro dell’Archivolto. A questo scopo sono stati intervistati i direttori con le deleghe organizzative dei tre teatri, seguendo una traccia di circa quaranta domande (disponibile in Appendice).

La base di partenza scientifica, invece, è costituita dalla letteratura specifica in tema di organizzazioni delle performing arts, dai grandi classici della letteratura organizzativa, da Barnard a Weber, e da tutti quegli studi di economia aziendale – e non solo – legati dalle tematiche della conoscenza e dell’uso di analogie, metafore, modelli e archetipi (soprattutto legati al mondo del teatro) sia ex post, per offrire una griglia di significati con cui interpretare la realtà, sia ex ante, per trovare nuove vie per la gestione delle organizzazioni e la risoluzione dei problemi; ci riferiamo, in particolare, alle pubblicazioni di Nonaka e Takeuchi, Charles Handy, Gareth Morgan e, soprattutto, Karl Weick.

1 Vedi infra il capitolo 4, paragrafo 1, dove sono anche riprese e approfondite le scelte alla base della ricerca empirica.

(8)

In questa ricerca l’analisi non seguirà, quindi, un’unica intelaiatura teorica, ma cercherà piuttosto di rappresentare al meglio i singoli particolari, e da questi trarre una propria prospettiva. Come i maestri fiamminghi del Rinascimento raggiunsero l’illusione del vero sommando pazientemente un particolare all’altro, affinché l’intero quadro apparisse come uno specchio del mondo visibile, mentre i loro contemporanei italiani rappresentavano la realtà con esattezza quasi scientifica, partendo dall’intelaiatura di linee di linee prospettiche e costruendo il corpo umano basandosi sull’anatomia e sulle leggi della prospettiva,2 così noi abbiamo cercato di rappresentare la realtà (organizzativa) del teatro discutendo le questioni aperte e approfondendo i singoli problemi.

Per concludere, desidero ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile questo lavoro. In primo luogo tutti quelli che hanno avuto la disponibilità e la gentilezza di aiutarmi nella mia ricerca empirica: Carlo Repetti e Barbara Lesina al Teatro di Genova, Sergio Maifredi, Giusi Penco e Pietro Fabbri al Teatro della Tosse, Pina Rando e Valentina Mossetti al Teatro dell’Archivolto. Un ringraziamento speciale va a Riccardo Soliani, docente di Economia Politica e Storia del Pensiero Economico, una persona che di teatro si intende davvero, e che con qualche conversazione al momento opportuno mi ha permesso di capire al meglio la realtà che mi accingevo a studiare. Infine, questa tesi non avrebbe mai visto la luce senza l’appoggio continuo, la pazienza infinita e le osservazioni puntuali della mia relatrice, la professoressa Teresina Torre.

2 Ernst H. GOMBRICH, La storia dell’arte raccontata da Ernst H. Gombrich, Leonardo Arte, Milano, 1995.

(9)

1. IL TEATRO

SOMMARIO: 1.1 Una realtà in continuo movimento; 1.2 Le origini: il teatro greco;

1.3.1 Il teatro in Italia: compagnie di giro e teatri stabili; 1.3.2 In principio era la compagnia (compagnie, capocomici, impresari); 1.3.3 L’Ottocento; 1.3.4 Il Novecento;

1.3.5 Gli Stabili.

1.1 Una realtà in continuo movimento

Cos’è il teatro? Rispondere a questa domanda è meno facile di quanto possa sembrare di primo acchito. La parola “teatro” possiede infatti una pluralità di significati. Il “teatro” è di volta in volta uno spettacolo, un luogo o un insieme di persone. Sembra mancare, dunque, una definizione di che cos’è il teatro in generale. Forse perché il teatro esiste e funziona, senza aver bisogno di una definizione, e tanto basta, sia a chi vi si affaccia di sfuggita che a chi vive per esso. Forse perché è troppo mutevole la realtà del fare teatro.

In tre millenni di teatro in Occidente niente è rimasto fermo. Di epoca in epoca sono cambiati i valori artistici, i mezzi tecnici, le forme organizzative e anche la percezione di quello che avviene in palcoscenico da parte degli spettatori. I cambiamenti di queste quattro variabili sono continui, anche perché esse sono interdipendenti, e così ogni cambiamento di ognuna di esse si ripercuote su tutte le altre. E queste sono solo le variabili interne al fare teatro, a loro volta collegate alle modificazioni dell’ambiente esterno.1

A questo punto bisogna porsi il problema di capire come si è arrivati all’attuale sistema teatrale italiano. A questo scopo è sufficiente ripassare in breve la storia delle compagnie di giro e dei teatri stabili, che del nostro sistema sono i cardini, come faremo nel terzo paragrafo. Ma questa scelta non è soddisfacente, se si vuole porre in risalto

1 E anche all’ambiente sociale deve guardare chi vuole riformare il teatro: “Non è affatto possibile produrre l’effetto più alto e più puro dell’arte teatrale senza innovare dappertutto, nel costume e nello Stato, nell’educazione e nei rapporti sociali” (Friedrich NIETZSCHE, “Richard Wagner a Bayreuth”, in Scritti su Wagner, Adelphi, Milano, 1979, pag. 96).

(10)

proprio quel continuo cambiamento delle variabili teatrali, di cui si diceva sopra. Inoltre si può correre il rischio di trovarsi impreparati di fronte alla necessità di innovare.

Nel campo teatrale, se si vuole primeggiare, bisogna innovare2. Ma il cambiamento si trova sempre di fronte degli ostacoli. Il primo è che le persone, guidate dall’inconscio, fanno sempre ciò che conoscono già bene. L’inconscio è esattamente quello che dice la parola: ciò che è meno conscio perché è più usuale, più familiare, più quotidiano.

Poiché diamo per scontate le nostre idee, le idee (come poteri sovrasensibili), senza che ce ne accorgiamo, ci possiedono.3 Se vogliamo evitare che ciò accada, dobbiamo scuoterci e allargare le nostre prospettive, nello spazio o nel tempo. Ecco perché può essere importante ricordare qualcosa di più della storia del teatro, così come nei prossimi capitoli sarà fondamentale confrontare l’esperienza organizzativa italiana con quella di altri paesi.

Ma un altro ostacolo all’innovazione è la memoria. Se si ricordano troppe cose, per troppo tempo, si continua ad agire nello stesso modo in cui si è agito nel passato.4 Allora è necessario trovare un equilibrio, e questo equilibrio passa necessariamente attraverso una selezione di ciò che si vuole ricordare. In questo capitolo abbiamo deciso di tralasciare una “storia del teatro”, che certo non compete a un testo di organizzazione aziendale, ma non di meno abbiamo dedicato un paragrafo alla prima forma di teatro in Occidente, il teatro greco, proprio per consentire quel confronto e quello “scuotimento”

di cui parlavamo sopra. La nostra non sarà una analisi storica, ma semplicemente lo studio di elementi del passato utili per una consapevole analisi organizzativa del presente5.

2 Confronta, ad esempio, l’attenzione continua rivolta agli autori e ai registi da Ivo Chiesa, direttore per quasi cinquant’anni dello Stabile di Genova, nella costante ricerca di forze teatrali nuove (vedi Maurizio GIAMMUSSO, Il Teatro di Genova una biografia, Leonardo Arte, Milano, 2001).

3 James HILLMAN, Il Potere, Rizzoli, Milano, 2002.

4 Karl WEICK, Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI, Torino, 1993 (ed.

orig.: The social psychology of organizing, seconda edizione, Reading, Addison-Wesley, 1979).

5 Un approfondimento delle argomentazioni di questa scelta si trova nel paragrafo dedicato al tema della memoria, nell’analisi organizzativa.

(11)

I L T E A T R O

11

1.2 Le origini: il teatro greco

“In realtà si ha solo un mezzo per convincersi in breve di quanto siano volgari, e precisamente quanto stranamente e bizzarramente volgari, i nostri istituti teatrali: basta confrontare con essi la realtà dell’antico teatro greco!”6

Non sappiamo se una breve comparazione della realtà attuale con il teatro greco può portare a un giudizio drastico come quello di Nietzsche sul teatro contemporaneo, ma di certo può convincere chiunque delle differenze abissali che possono sussistere tra modi diversi di fare teatro.

Il teatro greco nasce e si sviluppa in Atene7. Qui, fin dai sui primordi, la rappresentazione teatrale fu un fenomeno anzitutto religioso, che aveva luogo nel contesto delle celebrazioni festive in onore del dio Dioniso. In origine, i Greci a teatro sentivano non soltanto di assistere a uno spettacolo, quanto soprattutto di partecipare a un rito. Con l’arrivo della primavera le strade della città si riempivano di un gioioso tumulto per giorni; poi iniziava la gara: all’alba8 i cittadini affluivano in teatro per assistere alla trilogia tragica, e la rappresentazione durava tutto il giorno, fino a concludersi al crepuscolo con il dramma satiresco.

In quell’autentica democrazia che era Atene, il teatro aveva anche una valenza politica;

costituiva una vera e propria assemblea dei cittadini liberi, tutti solidalmente responsabili del governo della città, ed era per essi una grande occasione di apprendimento. Questa educazione del popolo attraverso il dramma avveniva nella forma di una gara tra i più grandi artisti musicali e drammatici. Questo risulta comprensibile per noi solo ricordando che il carattere agonistico era potentemente connaturato alla mentalità greca (basti pensare agli agoni sportivi, come le gare

6 Friedrich NIETZSCHE, “Richard Wagner a Bayreuth”, (op. cit.), pag. 97.

7 Per un quadro di sintesi sul teatro delle origini vedi: Dario DEL CORNO, Letteratura greca, Principato, Milano, 1988.

8 Questa distribuzione delle rappresentazioni nell’arco della giornata ha avuto un’influenza sugli autori e le opere, che dovevano adeguarsi alle luci naturali: basti ricordare l’affascinante prologo dell’Agamennone di Eschilo, con la vedetta che scruta l’orizzonte ancora immerso nell’oscurità della notte morente.

(12)

olimpiche). Così, mentre l’uomo moderno trova sconveniente nell’artista l’impulso personale alla competizione, il Greco conosce l’artista soltanto nella lotta personale.

Sotto tutti gli aspetti è ovvio che i cicli di rappresentazioni in onore di Dioniso occupassero nella vita di Atene un posto assai diverso da quello di qualsiasi opera teatrale dei nostri giorni.9 Possiamo precisare questo punto considerando più dettagliatamente due aspetti delle Dionisie cittadine: il numero degli spettatori e le somme di danaro impegnate.

In primo luogo si può stimare in 1500 il numero delle persone coinvolte attivamente ogni anno nelle rappresentazioni, per la maggior parte non professionisti. Ad ogni spettacolo, poi, assistevano decine di migliaia di persone e non erano rare le lotte per accedere ai posti. A favorire una presenza così elevata vi era l’inesistenza di un

“cartellone” che garantisse le repliche in città. A partire poi dall’epoca di Pericle era la tesoreria dello stato che pagava i posti per i cittadini.

Ieri come oggi la messa in scena di un dramma implicava una spesa, e nell’antica Grecia nessuno immaginava che il teatro potesse o dovesse essere economicamente autosufficiente10. Il finanziamento avveniva attraverso una sorta di patronato obbligatorio: ad ogni drammaturgo veniva, infatti, trovato un corego o promotore.

Provvedere alle spese di una rappresentazione alle Dionisie, come mantenere una trireme per una anno o pagare una delegazione da inviare in un altro stato, era considerata una prestazione per il vantaggio comune che era lecito attendersi dai cittadini facoltosi. Non tutti la consideravano una fastidiosa sovraimposta: per alcuni era la via sicura alla popolarità.

La struttura delle spese era molto diversa da quella del teatro dei nostri giorni: non c’era illuminazione, lo scenario era primitivo o inesistente, scarse le attrezzature necessarie.

La maggior parte delle funzioni ora distribuite fra diverse persone – autore, regista, compositore, coreografo – era riunita nella persona del poeta. Il corego doveva, invece, pagare i componenti del coro e il suonatore di flauto. Talvolta era necessario un secondo coro, e per tutti si dovevano procurare maschere e costumi (su questa voce si poteva risparmiare qualcosa, noleggiandoli di seconda mano), senza parlare di un ricevimento

9 H.C. BALDRY, I Greci a teatro, Editori Laterza, Bari, 1972.

10 BALDRY, (op. cit.).

(13)

I L T E A T R O

13

al termine della gara. Una voce che variava molto nel bilancio era la presenza di comparse mute, dato che alcuni “divi” chiedevano un seguito imponente.

La spesa pubblica e privata per il teatro era notevole. Le gare venivano a costare più di dieci talenti. La spesa complessiva, sostenuta ogni anno per le feste dalle casse della città di Atene, doveva aggirarsi sui trenta talenti.11

Al di là degli aspetti sociali e organizzativi, va notata una cultura teatrale straordinaria e irripetibile. Incominciamo considerando la maschera. Tutti gli attori recitavano mascherati; non vi erano espressioni del volto da osservare in un teatro da diecimila posti. Ciò che più conta è che la maschera assume un potente significato simbolico:

attraverso di essa si rende presente qualcosa che va oltre l’umano, si recita un dramma più elevato e vengono evocati poteri più grandi.12

Gli spettatori greci non sono paragonabili a quelli moderni. Ciò che spingeva questi uomini al teatro non era un’ansia di sfuggire alla noia, non era la volontà di liberarsi a ogni costo, per alcune ore, da se stessi e dalle proprie miserie. I Greci abbandonavano la loro vita pubblica, nelle piazze e nelle strade, per trovare autentico conforto nella solennità della rappresentazione teatrale. Non si trattava di un pubblico pigro e stanco, abbonato a tutti gli spettacoli, che viene a teatro con i sensi finiti sfiniti e stracchi, per procurarsi qui delle emozioni. Lo spettatore ateniese aveva ancora i sensi freschi, mattutini, festosamente eccitati dal tumultuoso e folle impulso dionisiaco primaverile13; egli, inoltre, sorbiva la bevanda della tragedia così raramente, da poterla gustare ogni volta come per la prima volta.

11 Per dare un termine di paragone, un talento (pari a 60 mine e a 6000 dracme) sarebbe stata una cifra sufficiente per il mantenimento annuo di quindici o più famiglie con quattro componenti, al livello di sussistenza al quale viveva la maggior parte degli ateniesi; oppure si sarebbero potuti comprare trenta schiavi (BALDRY, I Greci a teatro, op. cit.).

12 HILLMAN, (op. cit.).

13 Per i concetti di apollineo e dionisiaco è d’obbligo rinviare a Friedrich NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1977, nonché Friedrich NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, Adelphi, Milano, 1991.

(14)

Non è solo l’atteggiamento degli spettatori ad essere diverso da oggi, ma anche la loro percezione di ciò che viene rappresentato. Nel teatro greco alla realtà della vita e dell’esperienza quotidiana si sostituisce una realtà alternativa, che ingloba nella propria dimensione chiunque ne sia partecipe. Attore e spettatore vivono l’evento teatrale come una realtà distinta da quella in cui si svolge la loro normale esistenza: ma – a differenza della disposizione con cui i moderni affrontano lo spettacolo teatrale – non se ne distanziano come da una realtà fittizia. Per i Greci tutto quanto si svolge a teatro esiste come una realtà dotata di autonome leggi spaziali e temporali, logiche, psicologiche, e dunque provvista di una concretezza altrettanto effettiva quanto quella della realtà abbandonata provvisoriamente all’atto di partecipare alla festa teatrale.

In quest’abbandono a una nuova dimensione sta il nucleo del rapporto fra il pubblico greco e il teatro. Il pubblico del teatro arcaico non considerava la rappresentazione come una realtà immaginaria, che richiedesse la complicità dello spettatore per imporsi14. Nell’eccitazione dionisiaca, la metafora non è una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva che si presenta concretamente, in luogo di un concetto. Il carattere non è affatto un tutto composto da singoli tratti cercati qua e là e messi insieme, bensì una persona insistentemente viva davanti agli occhi.

Questo è il fenomeno drammatico originario, che nasce dal coro tragico: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Questo processo sta all’inizio dello sviluppo del dramma.

La sensazione moderna “questo è soltanto uno spettacolo” è l’inverso dell’emozione della tragedia greca, che faceva dire “questa è soltanto la realtà quotidiana”. L’uomo di oggi va a teatro per rilassarsi, per scaricarsi dal peso di tutti i giorni, perché ha bisogno di qualcosa che sia soltanto spettacolo, perché viene dal di fuori e sa cos’è reale. Lo spettatore della tragedia greca veniva e conosceva qualcosa di più sulla natura della vita, perché veniva contagiato dall’interno, investito da una contemplazione – cioè da una

14 Il tragico Frinico fu punito con l’enorme somma di mille dracme perché, mettendo in scena un evento contemporaneo, la conquista di Mileto da parte dei Persiani, aveva suscitato la disperazione del pubblico ateniese. “Tale reazione poteva darsi soltanto in una società che non distinguesse il piano del teatro da quello della propria biografia, bensì fosse avvezza a dimenticare quest’ultima durante la rappresentazione, lasciandosi assorbire in una realtà sentita come attuale e totale” (DEL CORNO, (op. cit.), pag. 154).

(15)

I L T E A T R O

15

conoscenza – che già esisteva prima di lui, che saliva dall’orchestra e suscitava la sua contemplazione, si confondeva con essa.

L’effetto principale e complessivo della tragedia antica, ancora nella sua epoca migliore, si fondò sempre sul coro, un’entità sostanzialmente incomprensibile per lo spettatore moderno. Oltre il coro vi era la scena, molto stretta, con la parete di fondo assai avanzata, che presentava le poche figure che si muovevano misuratamente, come bassorilievi viventi o animate figure marmoree; anche questa caratteristica risulta difficile da comprendere oggi.

Se non riusciamo a capire tante cose della tragedia greca, è soprattutto per il semplice fatto che di fronte ad essa noi siamo incompetenti, poiché la sua azione principale si basa in buona parte su un elemento che è andato perduto, cioè sulla musica. Noi non possiamo neppure intendere il rapporto musica – poesia come lo intendevano i Greci:

essi non imparavano una poesia se non attraverso il canto, così anche nell’ascoltare essi sentivano la profondissima unità di parola e suono. Per loro la prima esigenza era di far comprendere il contenuto della poesia recitata, con un’arte straordinaria dell’esporre, che coinvolgeva musica, danza e regia, tutte sotto la guida unica del poeta. Una realtà del tutto incommensurabile per noi, abituati, se necessario, a tollerare anche il testo più assurdo, purché la musica sia bella.

Per quanto riguarda gli attori, bisogna ricordare, per prima cosa, che non vi erano attrici. Tutti i ruoli femminili erano recitati da attori uomini, e non si simulavano voci femminili, come accadeva, invece, nel teatro elisabettiano con l’uso di ragazzi. Il primo attore aveva una preminenza intangibile: di lui solo si poteva dire che “recitava” nel dramma, a lui solo spettava il premio per la recitazione. Il protagonista era l’erede riconosciuto del posto originariamente occupato dal poeta medesimo; il

“deuteragonista” e il “tritagonista” dovevano stare al proprio posto, e non farsi mai troppo avanti. Dato il limite dei tre attori, ognuno di essi doveva recitare più parti nella stessa opera. Ciascuno di questi attori – cantanti doveva recitare, nel suo sforzo che durava dieci ore, all’incirca 1600 versi, fra cui almeno sei pezzi cantati, più o meno estesi. E ciò di fronte a un pubblico che puniva spietatamente ogni eccesso di voce e

(16)

ogni accento errato; e ciò ad Atene, dove persino la plebe aveva un giudizio fine e delicato.

Infine, pensiamo anche al poeta, inteso nel senso più vasto, come lo intendevano i Greci. Egli doveva eccellere in cinque gare, ossia doveva essere munito di doti artistiche sia come scrittore che come musicista, sia come attore che

come danzatore, sia infine come regista della sua opera.

Il suo lavoro era pieno di vincoli: il numero ristretto di attori, l’impiego del coro, la necessità di ambientare ogni azione in una piazza aperta. Vincoli che a noi appaiono ingiustificati; ma forse ai Greci sarebbe parsa un’ingiustificata mancanza di disciplina quella libertà, che a noi sembra naturale garantire all’artista.

Egli, inoltre, non poteva attirare l’attenzione sulla sua opera per l’originalità della materia trattata; il tenere avvinto lo spettatore fino alla fine con lo stimolo di una trama interessante, sarebbe stato qualcosa di inaudito per i tragici greci. La tragedia greca non si ridusse mai a una specie di gioco degli scacchi. L’effetto della tragedia antica non era basato mai sulla tensione, sull’eccitante incertezza circa quello che sarebbe avvenuto poi, ma piuttosto su quelle grandi scene di pathos, ampiamente costruite, in cui giocava un ruolo fondamentale la possente musicalità del ditirambo dionisiaco.

La trama era conosciuta fin dall’inizio dallo spettatore (si trattava quasi sempre di miti, a volte rielaborati rispetto alla tradizione, ma pur sempre conosciutissimi). Quanto è distante tutto questo dai sentimenti del pubblico moderno, dove la prima critica che viene mossa a qualsiasi spettacolo, in qualsiasi gruppo di spettatori, è: “era scontato”.

Nel teatro greco le cose non staranno sempre così. La commedia nuova, che fiorisce quando l’antica arte tragica è ormai appassita, svilupperà il gioco degli scacchi teatrale;

questo comporterà una radicale trasformazione della percezione della realtà drammatica da parte degli spettatori, avvicinandola di molto a quella attuale.

(17)

I L T E A T R O

17

1.3.1 Il teatro in Italia: compagnie di giro e teatri stabili

Per comprendere appieno il sistema teatrale italiano e i suoi meccanismi, è necessario conoscere la storia, che ha lasciato infiniti retaggi, dei suoi cardini attuali: le compagnie di giro e i teatri stabili. Ci si renderà conto allora che molte delle forme organizzative del teatro non sono sostanzialmente cambiate negli ultimi secoli. Quindi è ancora più delicato il loro studio, ed è cruciale capire appieno le logiche che, attraverso gli usi, sono giunte fino a noi, se vogliamo intervenire in maniera efficace sull’organizzazione.

Cerchiamo, dunque, di soffermarci sugli elementi storici legati alle più rilevanti consuetudini attuali del fare teatro.

1.3.2 In principio era la compagnia (compagnie, capocomici, impresari)

15

La nascita in Italia, alla fine del Quattrocento delle compagnie dell’arte, professionistiche nel senso che raccoglievano un gruppo di persone che del teatro avevano fatto il proprio mestiere e di teatro vivevano, è all’origine del teatro europeo contemporaneo dal punto di vista artistico ed organizzativo.

La compagnia si raccoglieva intorno ad un capocomico, che alla direzione artistica – come diremmo oggi – sommava la responsabilità organizzativa ed economica, in alcuni casi condivisa con altri, e legale. Intorno a lui si organizzava la compagnia: strutturata di solito intorno ad un nucleo forte – spesso familiare – ma in modo da garantire la copertura dei ruoli. La compagnia era quindi da un lato un’entità giuridico/imprenditoriale/organizzativa, dall’altro artistica, ed era ed è rimasta per molti aspetti una particolarissima entità antropologica. La pluralità di significato sottesa alla parola “compagnia” la riscontriamo ancora adesso; utilizziamo, infatti, tuttora il termine compagnia per intendere tanto l’impresa che il nucleo artistico: le persone che lo compongono e quello che il loro lavorare assieme ha determinato e significa.

15 Su compagnia, tournée e teatro “all’italiana” vedi Mimma GALLINA, Organizzare teatro, Franco Angeli, Milano, 2001.

(18)

Nel Settecento nacque la figura dell’impresario: organizzatore in grado di trovare e gestire i mezzi finanziari per produrre spettacoli, affidabile e credibile sul mercato, capace di orientarsi fra pubblico e privato, la cui abilità manageriale non andava disgiunta dal fiuto (per gli attori, i testi, i titoli – e il loro abbinamento – la capacità di cogliere i gusti e i momenti); per tutto questo è stato ed è, a suo modo, anche autore degli spettacoli.

1.3.3 L’Ottocento

Nell’Ottocento le cose cambiarono: l’evoluzione della drammaturgia, il superamento dei caratteri, le nuove scuole interpretative, e, soprattutto, la nascita di un moderno teatro di regia, e della scenografia contemporanea, compromisero la concezione della compagnia sopra descritta, la sua centralità e soprattutto il sistema dei ruoli. Il teatro di regia, infatti, costruiva gli spettacoli intorno ad un’idea unitaria, ad un nucleo di senso che guidava tutte le scelte, incluse, ovviamente, quelle relative agli attori.

In Italia, tuttavia, la compagnia tradizionale rimase relativamente solida, e fu ancora protagonista nel XIX secolo, l’epoca in cui i teatri costituivano il cuore pulsante della vita sociale e culturale italiana, come comprova la traiettoria quasi esponenziale descritta dalla loro crescita numerica nell’arco di poco più di un secolo: 200 nel 1785, 400 nel 1835, 957 nel 1870, 1055 nel 1890, 3000 nel 190716. La metà del secolo rappresentò certamente un momento di grande fulgore per queste organizzazioni e tuttavia, come spesso accade, proprio allora si manifestarono i prodromi del suo declino.

La fine del secolo dei Lumi costituì, in effetti, la prima tappa di un percorso che, da un teatro, per così dire, di antico regime, carico di forti valenze simboliche e ideologiche e calamita di molteplici interessi e pulsioni sociali, avrebbe condotto verso una realtà in cui gli spazi di catalizzazione degli interessi di larga parte del coevo tessuto sociale si sarebbe progressivamente erosi. Tale fenomeno fu l’esito naturale dell’azione di una serie di concause nel cui ambito occupavano un posto importante l’abnorme crescita del

16 Guido GUERZONI e Marina ROMANI, “Breve storia dell’intervento pubblico in campo teatrale nell’Italia dell’Ottocento. Ovvero della natura ereditaria e congenita del morbo di Baumol”, in SANTAGATA W. (a cura di), Economia dell’Arte, UTET, Torino, 1998.

(19)

I L T E A T R O

19

numero di sale teatrali e il prevalere, per alcuni generi di spettacolo, delle compagnie girovaghe in rapporto a quelle stabili e, nell’ambito delle prime, di quelle “a mattatore”.

L’attività delle compagnie “a mattatore” era incentrata sul primo attore, di norma un nome famoso, che era contemporaneamente direttore, imprenditore, e primattore. Gli attori più noti non si riunirono più in un’unica compagnia (come era avvenuto, ad esempio, per la Reale Sarda di Torino), ma optarono piuttosto per la direzione di un complesso proprio, circondandosi di artisti di scarso rilievo con la conseguenza, facilmente intuibile, dello scadere del repertorio tagliato esclusivamente in vista della prima parte.

Egualmente, la proliferazione di sale teatrali in ogni piccolo centro della sconfinata provincia italica, fenomeno innescato sul finire del Settecento, condusse seco il diffuso allestimento delle stagioni e di spettacoli di scadente qualità. Così, all’inizio dell’Ottocento, solo realtà isolate come la Scala di Milano, il Regio di Torino, la Fenice di Venezia o il San Carlo di Napoli disponevano di mezzi economici idonei alla conservazione di un elevato grado di specializzazione, che privilegiava l’allestimento degli spettacoli più prestigiosi (opera lirica, balletto, tragedie) a discapito di quelli di matrice più marcatamente popolare (prosa leggera, teatro comico e dialettale ecc.). Al contrario, le sale di seconda, e ancor più, quelle di terza categoria, strette da esigenze di bilancio, si arrabattavano per ospitare ogni immaginabile occasione di incontro collettivo a pagamento: ai locali adibiti alle manifestazioni della più svariata natura si affiancavano caffetterie, trattorie, emeroteche, profumerie, spazi affittati ad associazioni di vario genere e, naturalmente, sale da gioco.

La rosa delle proposte ludiche e di intrattenimento culturale offerte al pubblico risultava, analogamente, sorprendentemente variegata. Vi si rappresentavano l’opera lirica, l’operetta, l’opera buffa, i balletti e i grandi balli, la prosa (commedie e tragedie), i concerti sinfonici e da camera, le esibizioni di solisti, corali e bande musicali, gli spettacoli marionettistici, equestri e circensi, i numeri di prestigiatori, fachiri, equilibristi, forzuti, giocolieri, le grandi tombole, i veglioni mascherati e le feste da ballo, i tornei di scherma, le esibizioni ginniche e le prove di forza, gli esperimenti scientifici, i dibattiti politici e i comizi.

(20)

Tale ricchezza propositiva trovava parziale giustificazione sia nella composizione dell’utenza potenziale, sia nella parallela varietà degli assetti proprietari: vi erano teatri posseduti da privati cittadini, altri da associazioni di palchettisti e di spettatori, altri ancora da enti ecclesiastici o assistenziali, conservatori, collegi, municipi comunali, accademie. In alcuni casi, come per esempio a Parma, i proprietari erano gli stessi sovrani che, se in alcuni casi si limitavano a riscuotere l’affitto, altre volte partecipavano alacremente alla conduzione dell’impresa.

Seguendo l’esempio offerto da alcuni regnanti, anche molti degli esponenti dei ceti più elevati si interessarono in prima persona alla costruzione e gestione di sale teatrali, operando in più direzioni sino a riunire in sé le figure di sovventore, fruitore e talora imprenditore. Gli utenti (aristocratici, notabili e ricchi borghesi) motivati a beneficiare dell’intrattenimento offerto dagli spettacoli si associavano, si tassavano, curavano l’edificazione e/o la conduzione del teatro, per poterne direttamente influenzare le scelte artistiche. Tuttavia, anche quando non figuravano in veste di proprietarie, le associazioni di mecenati e palchettisti detenevano un ruolo di primaria importanza:

prendevano in affitto i palchi e siglavano gli abbonamenti, contribuivano alla raccolta dei fondi di dotazione e alla copertura di eventuali deficit, garantendo un minimo di stabilità finanziaria ed esercitando funzioni assai simili a quelle svolte dagli odierni trustees anglosassoni.

La stretta simbiosi esistente tra proprietà e committenza, pallido retaggio dell’antico mecenatismo cortese, instillava nell’utenza molteplici e stringenti aspettative che si traducevano, nella pratica, in tassi di attività attualmente impensabili. Molti teatri rimanevano aperti dal primo pomeriggio sino a notte inoltrata per un minimo di 230 – 240 giornate l’anno offrendo, come ricordato, una vastissima gamma di servizi, che comprendevano trattorie e ristoranti, caffè ed emeroteche, sale da gioco e da biliardo, profumerie e botteghe di barbieri, servizi di guardaroba e tintoria, noleggio di cappelli, carrozze e ombrelli, e via dicendo, nell’intento di soddisfare una domanda di intrattenimento e socialità in costante crescita.

Ora, il mosaico di iniziative economiche che concorrono a delineare il quadro testé accennato pare comprendere un complesso di elementi che spingerebbero un osservatore esterno a escludere la necessità di massicci e sistematici finanziamenti

(21)

I L T E A T R O

21

esterni: la varietà degli assetti istituzionali e proprietari, l’appassionato e diretto coinvolgimento di fasce di utenza, l’ampio ventaglio di proposte culturali, gli elevati indici di attività e la ricca gamma di servizi commerciali potrebbero indurre a credere che, almeno all’epoca, i teatri potessero vivere del loro, evitando il cronico ricorso a forme assistenziali. La realtà tuttavia era profondamente differente e ne trasmettono dolente memoria le cronache dei giornali che narrano di sale aperte e subito chiuse, nonché le severe requisitorie e le salaci critiche a cui furono sottoposti vari impresari costretti spesso alla fuga per l’incapacità di onorare gli impegni presi con la direzione del teatro e con gli artisti da loro stessi scritturati. D’altro lato le ragioni di questo fenomeno erano immanenti e inscindibili alla medesima natura e struttura dell’organizzazione, vittime entrambe dell’antinomia che le era propria di essere insieme cosa pubblica e cosa privata: pubblica e dunque aperta a tutti (o percepita come tale) nella sfera della fruizione e privata nella gestione (e annessi risultati economici).

Una prima tentazione sarebbe quella di addossare al sistema salariale la responsabilità dei frequenti deficit, ma dopo una prima analisi tale spiegazione si rivela insufficiente:

finché gli impresari permasero al centro del sistema, in guisa di raccordo tra le direzioni dei teatri e gli artisti, si assunsero la totale responsabilità dell’allestimento delle stagioni e i costi dell’impresa permasero complessivamente rigidi17.

17 Lo comprova l’esistenza di una ricca e affascinante letteratura di carattere tecnico: testi come il Reggimento de’pubblici teatri. Idee economiche applicate praticamente agli IIRR teatri alla Scala e alla Cannobiana (1821) di Petracchi, i Cenni teorico-pratici sulle aziende teatrali (1823) e il Trattato di procedura teatrale (1836) di Valle, i Consigli sull’arte di dirigere gli spettacoli (1825) di Ritorni, il Saggio di economia teatrale (1839) di Rossi-Gallieno, il Mentore teatrale (1845) di Avventi, le Poche idee spontanee in rapporto alli teatri (1850) di Larussa o il Manuale della giurisprudenza dei teatri (1858) di Salucci, esponenti di punta di una nutritissima pubblicistica, o riviste specialistiche quali

“L’Asmodeo”, “Monitore amministrativo dei teatri” (1873-88) o “Diritti d’autore” (1870-71), testimoniano la precoce maturità raggiunta in Italia dal dibattito “giuridico-aziendalistico” incentrato sulla determinazione dei criteri di efficiente gestione delle organizzazioni teatrali.; un dibattito che sarà sepolto nel ‘900 dall’assistenzialismo, peraltro poco munifico, del fascismo, e risorto solo di recente, quando si è diffusa la percezione della necessità di innovazione organizzativa, in senso più privatistico e

“manageriale”.

(22)

Attori, compositori, librettisti, cantanti e ballerini erano ingaggiati con contratti assai flessibili, i pittori e gli scenografi impegnati nella realizzazione dei fondali e delle scene erano retribuiti con grande parsimonia, i membri delle orchestre e dei cori protestavano sistematicamente le loro miserrime condizioni, sarti, parrucchieri, truccatori, macchinisti e tecnici delle luci, bigliettai e personale di sala venivano spesso remunerati a giornata. L’esito di tali forzose strategie gestionali risultò, tuttavia, manifestamente insoddisfacente come, del resto, le misure prese da quegli impresari che nel corso dell’Ottocento giunsero a gestire contemporaneamente più teatri, operando in perfetta solitudine o costituendo partnership con altri colleghi, grazie alle quali riuscivano a sfruttare alcune marginali economie di scala, stipulando con gli artisti contratti di lunga durata e facendoli esibire a rotazione nei circuiti sottoposti al loro controllo. E tuttavia, per tutto il secolo, i contributi extra-gestionali, sia pubblici sia privati, finalizzati a garantire un minimo di stabilità ai traballanti equilibri dell’impresa teatrale, dovettero crescere costantemente, pena la fine di qualsiasi attività18.

1.3.4 Il Novecento

Nella prima metà del Novecento le compagnie mantennero ancora tutta la loro centralità, in un quadro però di sostanziale contrazione dell’attività teatrale in Italia, soprattutto durante il ventennio fascista. In sostanza, fino alla fine del secondo conflitto mondiale, le compagnie teatrali detennero saldamente il monopolio della capacità produttiva: non erano stati creati, infatti, né teatri stabili pubblici o privati, né centri, né organismi di produzione che non fossero riconducibili al modello della compagnia.

Nella seconda metà del Novecento le cose sono profondamente mutate. Il monopolio della produzione è stato perduto con la nascita degli stabili. L’evoluzione del mercato teatrale e di quello degli attori ha dato il colpo definitivo all’idea originale – secolare ed italiana – della struttura teatro: vanno ricordate in particolare la riduzione delle teniture e delle tournée e la circolazione degli attori fra teatro, cinema, televisione, sincronizzazione (il cosiddetto doppiaggio), che ha contribuito a rendere progressivamente impraticabile qualunque politica di repertorio. È cambiata,

18 Sul tema del finanziamento, pubblico e privato, vedi infra, capitolo 3.

(23)

I L T E A T R O

23

simmetricamente, anche la percezione che il pubblico ha degli attori: sul palcoscenico vedono il personaggio cinematografico o televisivo in modo diverso. Come faceva notare Ennio Flaiano, non senza molto veleno, a proposito del successo di Alberto Lionello con lo Stabile di Genova: “Quando un attore noto per le sue apparizioni televisive entra su un palcoscenico, il pubblico perde ogni capacità di giudizio e comincia ad applaudirlo per una sola ragione: perché lo vede in carne e ossa”19.

La compagnia è riuscita, comunque, a resistere alla crisi del suo modello. Con meno elaborazione teorica rispetto a quanti frequentavano gli ambienti della stabilità, ma con molta capacità di invenzione e di adattamento, attori, tecnici, organizzatori e impresari sono stati capaci di portare la compagnia teatrale come forma specifica di produzione culturale alla soglia del XXI secolo. Oggi possiamo dire che il sistema delle compagnie rappresenta la base sociale del teatro, il suo aspetto più diffuso, spontaneo e vitale, mentre il sistema della stabilità ne rappresenta la componente più strutturata e istituzionale20. La tematica della compagnia resta inoltre centrale nel teatro, a livello internazionale. La necessità di costruire gruppi di lavoro affiatati ed omogenei è avvertita come un problema fondamentale nel sistema italiano, anche se poche realtà l’hanno affrontata seriamente: l’evoluzione dei teatri stabili in Italia, soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni, ha paradossalmente contribuito alla dissoluzione di questo strumento, ma oggi, a livello delle istituzioni che più attentamente meditano sulla funzione del teatro pubblico, se ne avverte l’assenza tanto più nel confronto con i grandi teatri europei, che possono dirsi tali anche per la presenza di un ensemble e la sua capacità di essere omogeneo con le direzioni artistiche. Necessità artistiche ed economiche (e metodi radicati ma non ineluttabili) portano oggi nella maggior parte dei casi, in Italia, a costruire le compagnie caso per caso con proiezioni limitate.

La centralità che la compagnia ha ancora oggi nel sistema teatrale italiano, e, soprattutto, nell’inconscio organizzativo di chi si occupa di teatro, la si può riscontrare osservando che le diverse forme adottate dagli attori per gestire direttamente il proprio

19 E. Flaiano, in L’Europeo, 25 aprile 1965, citato in Maurizio GIAMMUSSO, Il Teatro di Genova una biografia, Leonardo Arte, Milano, 2001, pag. 92.

20 Fioravante COZZAGLIO “Le Compagnie: l’interpretazione contemporanea di una grande tradizione”

in GALLINA M., Organizzare teatro, Franco Angeli, Milano, 2001.

(24)

lavoro, nelle trasformazioni cicliche del teatro italiano, hanno sempre posto al centro la compagnia: sono state le sociali, le cooperative, i gruppi. Il teatro realizzato in gruppo è infatti allo stesso tempo il modello più direttamente collegabile alle origini della nostra tradizione e quello attraverso cui si sono espresse negli ultimi decenni le esperienze teatrali più innovative tanto in termini artistici che politico-gestionali. E ci sono probabilmente ancora molti modi per interpretare in senso contemporaneo la necessità della compagnia.

Ancora nel Novecento, inoltre, possiamo riscontrare un altro retaggio storico legato alla forma compagnia: il carattere itinerante del nostro teatro. La tournée è una condizione di lavoro abituale, un paesaggio costante che accompagna il teatro italiano nei secoli. Il

“giro” ha significato e significa che da sempre (e nonostante le differenze linguistiche e culturali dei territori) il teatro italiano professionale ha realizzato il proprio lavoro in funzione di sedi e pubblici diversi, con una mobilità costante se pure relativamente ad aree più o meno estese (regionali, nazionali, a volte internazionali) in rapporto alle caratteristiche e all’affermazione della compagnia e dei singoli. E’ anche l’opportunità per l’attore di confrontarsi e affinarsi di fronte a pubblici sempre diversi.; inoltre permette di portare dappertutto un teatro a livelli di professionalità impensabili per una produzione locale.

Ancora oggi il teatro italiano resta prevalentemente itinerante: intendiamo dire che, non solo le modalità organizzative e gestionali, ma la sopravvivenza economica delle compagnie – delle imprese teatrali – è costituita in gran parte sul giro, si rivolge cioè al mercato nazionale. Ma anche qui c’è spazio per il cambiamento: le caratteristiche di mobilità del teatro possono oggi essere ripensate non come semplice diffusione degli spettacoli sul territorio. Per le compagnie più culturalmente attrezzate si tratta spesso di costruire intorno alla produzione degli spettacoli una rete di alleanze e rapporti che garantiscano una circolazione limitata, qualificata e protetta (dal punto di vista economico e promozionale): la tournée diventa per queste compagnie un progetto integrato di coproduzioni e collaborazioni.

All’origine del carattere itinerante del nostro teatro è anche la presenza di una rete articolata e formidabile di teatri storici, quelli che in tutto il mondo vengono definiti, appunto, “all’italiana”. Queste strutture hanno tuttavia condizionato anche

(25)

I L T E A T R O

25

pesantemente, il nostro modo di pensare lo spettacolo, non meno che le modalità di partecipazione, quindi l’identificazione e l’evoluzione del pubblico: il punto di vista frontale, la presenza costante e ingombrante della quarta parete, la differenza di visibilità e quindi di prezzi, i rituali di partecipazione, lo stesso significato simbolico di questi edifici: tutti fattori che hanno contribuito a determinare la posizione del teatro nella società italiana e cui sono in parte da attribuire i ritardi o le arretratezze che la caratterizzano.

Non è un caso se i teatri di produzione più significativi, pur disponendo spesso di edifici storici, o architettonicamente affini, cercano oggi di dotarsi di seconde sale, spazi che consentano modi diversi di fare teatro, una maggiore libertà, confronti internazionali.

1.3.5 Gli Stabili

La storia del teatro italiano degli ultimi cinquanta anni è soprattutto la storia degli stabili. All’origine di questo nuova forma c’è il Piccolo Teatro di Milano. La storia del Piccolo è la storia di due giovani, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, che, alla fine degli anni Quaranta, decisero di provare a “metter su” qualcosa di duraturo, un teatro stabile e di più: un teatro a gestione pubblica e per il pubblico21. Le condizioni ambientali d’altronde erano favorevoli, soprattutto per l’adesione delle autorità milanesi del dopoguerra al progetto culturale di due giovani di talento, in linea con le prime esperienze di impronta mitteleuropea.

Si formalizzava così il patto tra cultura e politica e nasceva il Piccolo, in linea con la volontà della città di Milano di ricostruire, dopo le distruzioni della guerra, ripartendo da se stessa, dai suoi punti fermi, dalla sua identità.

Il progetto di Strehler e Grassi consisteva nell’organizzare un vero e proprio teatro d’arte stabile: “(…) Recluteremo i nostri spettatori, per quanto più è possibile, tra i lavoratori e tra i giovani, nelle officine, negli uffici, nelle scuole, offrendo semplici e convenienti forme di abbonamento per meglio saldare i rapporti tra teatro e spettatori, offrendo comunque spettacoli di alto livello artistico a prezzi quanto più è possibile

21 Paola FALCONE “Il Piccolo Teatro di Milano” in MORETTI A. (a cura di), Strategia e marketing delle organizzazioni culturali: casi e materiali didattici, Franco Angeli, Milano, 2001.

(26)

ridotti. Non dunque teatro sperimentale e nemmeno teatro d’eccezione, chiuso in una cerchia di iniziati, ma invece teatro d’arte per tutti. Noi non crediamo che il teatro sia un’abitudine mondana o un astratto omaggio alla cultura (…) E nemmeno pensiamo al teatro come a un’antologia di opere memorabili del passato o di novità curiose del presente, se non c’è in esse un interesse vivo e sincero che ci tocchi. (…) Non crediamo che il tempo del teatro declini (…). Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità liberamente riunita, si rivela a se stessa: ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché anche quando gli spettatori non se ne avvedono, questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale”22.

Il Piccolo non sarebbe stato un teatro esclusivo, di moda, per un pubblico elegante e mondano, ma uno spazio funzionale: un teatro da vivere e non al quale assistere, uno spazio dove non si allestissero commediole divertenti, in un’ottica finalizzata al botteghino, ma rappresentazioni artistiche nuove, in linea con Londra, Parigi, Berlino.

Non sarebbe stato il Piccolo un teatro per tutti, perché andava amato e capito. Era questa l’unica distinzione ammessa. Un teatro d’arte si diceva, ma in più pubblico, con prezzi accessibili, “quanto più è possibile ridotti” per un teatro, nelle parole di Grassi, pubblico servizio.

Il Piccolo sarebbe stato un teatro stabile ed esteso: geograficamente, perché le rappresentazioni si sarebbero portate oltre la sede originaria di Via Rovello, nella periferia, nelle altre province della Lombardia e molto oltre, ma soprattutto socialmente, perché avrebbe coinvolto tutte le categorie sociali, tanto da parlare di processo di

“democratizzazione” del teatro. Da qui le azioni promozionali per coinvolgere, sì i giovani, naturali destinatari dell’offerta del Piccolo, ma anche i lavoratori appartenenti a categorie tradizionalmente lontane dal teatro; non i professionisti, ma gli operai, i portinai, gli edicolanti. Il Piccolo andava a cercare il suo pubblico, per tutti quelli che volessero far parte di quella ricerca, di quel progetto. L’obiettivo era quello di creare e formare un pubblico, un’enorme famiglia in nome della cultura e dell’impegno sociale.

Da qui le formule in abbonamento e le riduzioni per i gruppi.

22 Citazioni da GALLINA, (op. cit.), pag. 56.

(27)

I L T E A T R O

27

L’idea del Piccolo sarà il seme da cui germoglierà tutto il nuovo teatro italiano del Novecento. Perché la formula abbia successo sarà sempre necessario avere i requisiti che quel teatro soddisfaceva nel ’47: un buon rapporto con la politica e la volontà delle istituzioni di investire sul teatro; un organizzatore e un regista complementari ed affiatati; la continua tensione artistica verso l’eccellenza, coniugata con la consapevolezza di offrire un servizio pubblico; la capacità di formare (creare e istruire) un proprio pubblico, anche con lo strumento dell’abbonamento, pur rischiando di ritrovarsi un pubblico non più consapevole, ma passivo e acritico, abbonato a tutti gli spettacoli.

Nel 1951 nacque il secondo stabile italiano: si chiamava, non a caso, Piccolo Teatro di Genova. Divenne presto il Teatro Stabile di Genova, ed è stato diretto dal ’55 fino al 2000 da Ivo Chiesa (affiancato per pochi anni da Luigi Squarzina) che come nessun altro ha segnato la storia degli stabili. Pur nell’intima condivisione del modello di stabile pubblico progettato da Grassi e Strehler, il teatro di Genova assunse una fisionomia particolare, soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta. Doveva essere un teatro “di autori, di attori e di regia”, come afferma Ivo Chiesa23: non, quindi, il “teatro di un regista-demiurgo”, come capitava al Piccolo di Milano, ma ciò senza dimenticare che “il grande regista talvolta ostacola ‘l’individuazione di nuove forze teatrali’, ma senza di lui è difficile che tali nuove forze si formino”24.

Anche a Genova è stato fondamentale l’apporto della municipalità, grazie al sindaco Vittorio Pertusio: un appoggio però non costante e convinto come avrebbe dovuto essere (data l’importanza nazionale assunta dall’istituzione), tanto che quando Luigi Squarzina abbandonò Genova, lasciò questa dichiarazione: “se a Genova ci fossero mezzi finanziari più consistenti, forse sarei rimasto…”25.

Negli anni Sessanta cominciò a farsi strada la sensazione di inadeguatezza della forma teatro Stabile come strumento di rinnovamento artistico e democratico. Erano gli iniziali

23 Maurizio GIAMMUSSO, Il Teatro di Genova una biografia, Leonardo Arte, Milano, 2001.

24 I. Chiesa, “Relazione al Consiglio direttivo”, n.138, Genova 6 settembre 1976, citato in Maurizio GIAMMUSSO, (op. cit.), pag. 205.

25 B. De Ceresa, “Squarzina: Con più mezzi sarei rimasto a Genova”, in Il Secolo XIX, 2 giugno 1976, citato in Maurizio GIAMMUSSO, (op. cit.), pag. 203.

(28)

fermenti di movimento (il ’68 è alle porte), accompagnati dalle prime espressioni significative di teatro sperimentale, e sfociarono in una contestazione globale da parte degli attori. A posteriori, possiamo trovare due linee complementari di questa opposizione26.

La prima trova un’espressione compiuta nel cosiddetto manifesto di Ivrea. Si denunciava lo stato di degrado del teatro italiano nel suo complesso, tanto dal punto di vista politico, che organizzativo che, soprattutto, dei linguaggi.

Questa critica diede voce a componenti molto diverse: non era solo contro gli stabili, ma era la prima precisa messa in discussione di un’idea di teatro d’arte che si stava già sclerotizzando, o, nella migliore delle ipotesi, personalizzando. Questo documento restò un riferimento per il teatro di ricerca per molti anni (e tuttora) e diede un impulso ideale alle esperienze sperimentali che, da Roma – le cosiddette cantine – si diffusero dagli anni settanta un po’ in tutta Italia.

La seconda vide come protagonisti gli attori. I principali obiettivi contro cui si scagliarono erano l’involuzione in senso dittatoriale della regia (che li privava della consapevolezza e della responsabilità propria del ruolo intellettuale) e la progressiva burocratizzazione dei teatri stabili, sempre più lontani, nelle scelte artistiche e nella gestione, dalla funzione di servizio sociale. Al Piccolo le assemblee erano permanenti e le richieste molto precise: partecipare alle scelte, controllare il bilancio, decentrare l’attività. A Genova vi erano una “Assemblea Generale”, della quale facevano parte tutte le sessanta persone legate stabilmente al teatro, e un “Consiglio di Gestione” che – secondo il lessico di allora – “porta avanti la discussione pubblica sulla vita del teatro”27. Il meccanismo che si era innescato, tuttavia, più che negare i presupposti degli stabili, denunciava la distanza nella realtà da quei principi (o il loro abbandono). La continuità, sul piano ideale, era data dalla centralità del pubblico (per tutti) e anche dalla concretezza organizzativa con cui molti lasciarono le sedi istituzionali e costruirono nuove prospettive.

L’effetto concreto fu infatti la creazione di nuovi modelli: anche nuovi stabili e, soprattutto, compagnie autogestite. La forma giuridica della cooperativa, si rivelò lo

26 GALLINA, (op. cit.).

27 GIAMMUSSO, (op. cit.), pag. 166.

(29)

I L T E A T R O

29

strumento attraverso cui gli attori assumevano il controllo del proprio lavoro. Le scelte più pure comportarono parità di diritti e di doveri, partecipazione di tutti alle scelte artistiche, culturali, economiche e organizzative e alla loro realizzazione, in alcuni casi parità di compensi, alla ricerca di un pubblico nuovo e popolare.

Ad essere rivoluzionata fu anche la distribuzione, che tra gli anni ’70 e ’80 coinvolse centinaia di nuovi comuni (da 100 a 800, in parallelo alla decisa crescita dei complessi sovvenzionati (da 44 a 264), delle rappresentazione (da ventimila a cinquantamila) e degli spettatori (da quattro a dieci milioni). Si diffondevano anche nuovi modelli organizzativi: nacquero gli stabili regionali, che venivano incontro alle necessità del decentramento. Nelle aree metropolitane i teatri stabili storici inauguravano cartelloni decentrati in provincia e in regione e nelle stesse città – si scoprivano i quartieri – attività estiva, manifestazioni internazionali, animazione e teatro per ragazzi.

Contemporaneamente nascevano nuovi organismi e conquistavano un loro pubblico e un loro spazio culturale. I “teatri stabili a gestione cooperativa” degli anni settanta, cioè quelle compagnie cooperative che acquisirono una sala, o ne disponevano già all’atto della costituzione, erano in realtà la punta di un iceberg, parte di un movimento molto vasto. Un magma da cui emersero le realtà più motivate e professionali, fra cui i primi

“centri di ricerca” e di teatro per ragazzi.

Le idee guida degli stabili a gestione cooperativa erano in parte mutuate dalla filosofia del teatro pubblico, in parte riconducibili all’indipendenza, all’agilità, alla centralità del lavoro, propria della forma cooperativa:

• la superiorità artistica e aziendale della formula stabile

• la difesa dell’intrinseco valore culturale dell’autonomia nelle scelte produttive, di ricerca, metodologiche

• la capacità di essere organici ad un pubblico (di costruirsi un pubblico)

• una progettualità complessiva omogenea alle caratteristiche della compagnia stabile

• l’economicità della gestione se confrontata al teatro pubblico

Su questa base, i nuovi organismi rivendicavano alla pari con i vecchi teatri stabili il diritto ad una produzione d’arte e di cultura (e alla ricerca), ma anche ad espletare servizi per l’ente locale.

(30)

Successivamente (dai primi anni ottanta) si è spostato l’accento dalla centralità del lavoro e dall’assenza di scopo di lucro (in cui si identificava la differenza, il valore aggiunto della formula cooperativa) al “rischio di impresa”, come ulteriore – e maggiore – garanzia di efficacia.

In questo quadro la funzione pubblica e di servizio è ora ripartita fra più soggetti; si attenua nei fatti, o addirittura si annulla, la distinzione fra pubblico e privato.

L’iniziativa pubblica in sé, oggi, non è considerata un valore assoluto, soprattutto, ed è ciò che più conta, dagli stessi finanziatori pubblici. Scrive a questo proposito Ivo Chiesa: “l’equiparazione – cui dobbiamo continuare ad opporci – fra stabili pubblici, stabili privati e Centri, poggia, si sa, sul carattere di “interesse pubblico” di cui queste componenti vengono – tutte! – accreditate. Che questo venga affermato per la scena italiana, che è autoreferenziale al 95% dei casi, è proprio singolare. E per organismi che si possono vendere e comprare senza controllare a quali sorti vanno incontro nei diversi passaggi (…) Non bastano a provare l’esistenza di un interesse pubblico autopromozioni apodittiche, né generosi avalli legislativi generalizzati”.

Gli stabili pubblici dovrebbero essere caratterizzati dalla partecipazione pubblica - che garantisce continuità all’istituzione, qualità, controllo delle funzioni – e dalle potenzialità produttive, con la convergenza dei mezzi necessari alla grande produzione d’arte. Il primo punto però risulta ormai sfuocato, visto il ruolo sempre più importante giocato dalle istituzioni pubbliche anche per i teatri di iniziativa privata. Il secondo poi, per quanto riconosciuto dalla regolamentazione ministeriale, che caratterizza gli stabili pubblici per le maggiori dimensioni e disponibilità, probabilmente non è stato mai vero.

In Italia, come scrive Chiesa “veri teatri stabili pubblici, basati cioè su aree operative sufficienti e dotati di sostegni economici in linea con quelli in atto in Germania, Inghilterra, Francia e in altri Paesi fra cui quelli dell’Est Europa, non sono mai esistiti”28.

28 Citazioni da GALLINA (op. cit.), pag. 66.

(31)

2. LA CORNICE GIURIDICA

SOMMARIO: 2.1.1 Il diritto d’autore; 2.1.2 La SIAE; 2.1.3 Il contratto di rappresentazione; 2.2.1 Il rapporto di lavoro nello spettacolo: il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro; 2.2.2 Il regolamento di palcoscenico; 2.2.3 La scrittura; 2.3.1 Le forme giuridiche; 2.3.2 Le società; 2.3.3 Il consorzio e la Fondazione di Partecipazione.

2.1.1 Il diritto d’autore

In Italia, la legge sul diritto d’autore (n. 633 del 22 aprile 1941) tutela “le opere dell’ingegno di carattere creativo”1, e tra queste le opere drammatiche, cioè scritte per la rappresentazione, come proprietà individuale riconoscendo agli autori diritti morali e patrimoniali.

Il diritto morale, è inalienabile perché basato sul rapporto indissolubile tra l’opera e la persona dell’autore; e viene specificato nei diritti alla paternità (attenenti a:

identificazione, rivelazione, rivendicazione), all’integrità dell’opera, al ritiro dell’opera dal commercio, alla pubblicazione. I diritti di utilizzazione economica a loro volta vengono specificati nei diritti esclusivi: di riproduzione, di esecuzione, rappresentazione e recitazione, di diffusione a distanza, di distribuzione, di esposizione in pubblico, di noleggio.2

Per mettere in scena un testo e rappresentarlo in pubblico, il produttore deve quindi acquisire l’autorizzazione dell’autore, il diritto di rappresentazione. In concreto, la scelta di mettere in scena un testo, può essere presa solo dopo averne verificato l’effettiva disponibilità (cioè che altri non si siano già riservati la messa in scena, o che sussistano eventuali ostacoli), quindi il gradimento dell’autore o dei suoi eredi: senza questo passaggio non è corretto, e non è opportuno sul piano economico e organizzativo, affrontare una produzione.

1 Legge n. 633 del 22 aprile 1941.

2 Alfio Cesare LA ROSA, Il rapporto di lavoro nello spettacolo, V edizione, Giuffrè, Milano, 1998.

Riferimenti

Documenti correlati

prevede l'affidamento sia stipulato tra un'amministrazione aggiudicatrice e “una persona giuridicamente distinta da essa sul piano formale e autonoma sul piano decisionale”. E'

Figura 5.20: Grafici dei volumi di ordini nel caso di invio di ordini high-frequency di vendita. La stessa cosa è facilmente osservabile nei grafici che mostrano l‟elevato

Di seguito il grafico di una funzione che ammette

Il Regolamento didattico del corso di laurea magistrale in Design Navale e Nautico è deliberato, ai sensi dell’articolo 18, commi 3 e 4 del Regolamento Didattico

Il Regolamento didattico del corso di laurea magistrale in Design Navale e Nautico è deliberato, ai sensi dell’articolo 18, commi 3 e 4 del Regolamento Didattico

- essere in possesso di almeno 40 cfu nei settori scientifici disciplinari indicati per le attività formative di base negli ambiti delle lauree triennali afferenti alla classe

4 La didascalia deve essere posta sopra la tabella, scritta con corpo di 12 punti, carattere corsivo e allineamento al centro.

5213 del 24.10.2018 di emanazione delle disposizioni regolamentari per le elezioni telematiche contestuali delle rappresentanze studentesche negli organi di governo