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L A MEMORIA ORGANIZZATIVA

4. LA NOSTRA RICERCA

5.2.4 L A MEMORIA ORGANIZZATIVA

Abbiamo detto, nel primo capitolo, che le organizzazioni, anche quelle culturali, falliscono perché ricordano troppo per troppo tempo e continuano troppo spesso a fare troppe cose nel modo in cui le hanno sempre fatte. È raro, invece, che le organizzazioni falliscano perché la loro memoria le ha tradite.

Per far capire cosa significhi tutto questo, anche a chi non conosce il pensiero organizzativo di Karl Weick, è necessario svolgere un breve approfondimento sui temi della memoria organizzativa, riprendendo alcune delle idee che si possono leggere in Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi.

In primo luogo, per capire l’importanza del dimenticare nelle organizzazioni, andiamo a rileggere il paradosso di Albert Speer (se ne parla a pag. 310). Speer, ministro della guerra di Adolf Hitler, scrisse di organizzazione nel suo libro Dentro il Terzo Reich.

Speer compì sforzi enormi per sburocratizzare il suo ministero e per creare strutture organizzative temporanee debolmente connesse che potessero venire composte e

73 Intervista del 6 giugno 2003 a Pina Rando, direttore del Teatro dell’Archivolto.

74 Intervista del 7 maggio 2003 a Sergio Maifredi, vicedirettore del Teatro della Tosse.

scomposte rapidamente. Cercò continuamente di semplificare le procedure amministrative, di abolire la gerarchia di comando e di ridurre la necessità di conservare i documenti permettendo accordi informali sia per telefono, sia oralmente.

Il paradosso sta nel fatto che la strategia più utile nel mettere in atto questi cambiamenti, era quella di approfittare dei bombardamenti degli Alleati. Questi raid erano “utili”, secondo Speer, perché distruggevano le attrezzature d’archivio, quei contenitori di carte che permettono all’organizzazione di stabilire delle tradizioni, delle procedure e così via, che sono dei puntelli della burocrazia.

Speer amava così tanto i risultati di questi bombardamenti che, venuto a sapere della distruzione del suo ministero durante il raid aereo degli Alleati il 22 novembre 1943, commentò: “Anche se abbiamo avuto la fortuna che gran parte degli archivi esistenti al ministero siano andati bruciati, e che ci siamo liberati per un po’ di una zavorra inutile, non possiamo aspettarci che eventi simili introducano continuamente l’aria fresca necessaria nel nostro lavoro”.

Le informazioni, dunque, sono sacre nella maggior parte delle organizzazioni, e ciò significa che la routine, le procedure operative standard e la maniera abituale di pensare, lavorano in un modo che contrasta la capacità di un’organizzazione di screditare la propria conoscenza passata.

In questo senso, bisogna anche tenere presente che ci sono pressioni esterne che vanno nella stessa direzione. Un’impresa viene ritenute affidabile dagli azionisti, dalle banche e dagli analisti finanziari, solo se dà l’impressione che tutto vada bene e che l’organizzazione sappia quello che sta facendo. Allo stesso modo un teatro, o meglio il suo direttore, viene ritenuto affidabile dal suo Consiglio, dai suoi lavoratori, dalle istituzioni che lo finanziano e dalla stampa – che dovrebbe rappresentare la cittadinanza, vero “azionista di riferimento” di un teatro concepito come servizio pubblico – solo se comunica un’impressione del tipo: “Sto dove sto andando e tutto procede bene come sempre”.

Un teatro d’arte, che vuole essere sempre vitale e all’avanguardia, non può però procedere secondo le normali routine. Allo stesso tempo è destinato a scontrarsi con chi vuole che sappia già dove porta la strada che sta seguendo; ma un’organizzazione tesa

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all’innovazione è come un esploratore: non sa dove va, finché non ci va. Da qui il dissidio col complesso bisogno di sicurezza e certezza continuamente espresso da individui e collettività. I dubbi, le esitazioni o le rivalutazioni di visioni passate vengono considerate dagli osservatori esterni come prove del fatto che un’organizzazione non è sicura di sé, piuttosto che come prove del fatto che riflette, preserva l’adattabilità o che si prepara per una serie ancora diversa di circostanze. In conclusione, come dice Karl Weick: “se dovete screditare qualcosa, fatelo in silenzio”75.

Nel primo capitolo abbiamo parlato della raccolta di elementi storici come di un’attività ambivalente. L’ambivalenza è il compromesso ottimale per trattare l’incompatibilità fra elasticità e stabilità. Bisogna ricordare, per non dare nulla per scontato; allo stesso tempo bisogna dimenticare, per evitare la routine. Un solo scopo: non essere schiavi delle idee consolidate e dell’inconscio. Due pratiche opposte. Siamo di fronte a un tipico esempio di “pensiero gianico”, che possiamo definire come “il concepire fattivamente due o più idee, concetti o immagini in opposizione o in antitesi, contemporaneamente”76. Il riferimento va, naturalmente, al dio romano Giano, il dio con due facce. Per i teorici dell’organizzazione il fatto interessante è che Giano era il dio delle soglie e le due facce gli permettevano di osservare sia l’interno sia l’esterno di una casa, sia l’entrata sia l’uscita di un edificio. Con unico sguardo poteva cogliere insieme il passato e il futuro. Era il dio dei “principiamenti”, presiedeva allo spuntare del giorno, ed era considerato come il promotore di ogni iniziativa. Il suo ruolo come iniziatore viene commemorato nel nome “gennaio”, il mese che anche per noi dà inizio all’anno. Giano era anche la divinità delle partenze e dei ritorni, e in estensione di questa sua funzione, era considerato il dio di tutte le comunicazioni.

L’ambivalenza è connaturata agli aspetti più stimolanti di qualsiasi attività e organizzazione. Anche in teatro è così: è straordinario pensare che i modi di fare teatro più importanti per noi sono proprio quelli che conosciamo di meno. Non sapremo che musica accompagnava le tragedie greche, e non sapremo mai come recitavano gli attori della Commedia dell’Arte. Questa nostra ignoranza permette la continua innovazione,

75 WEICK, (op. cit.), pag. 312.

76 WEICK, (op. cit.), pag. 317.

quella tensione verso la perfezione, che è la quintessenza di qualsiasi profonda ricerca artistica, e che non può mai avere fine, per il semplice fatto che non sappiamo cos’è, la perfezione.

Ancora un elemento della filosofia organizzativa di Karl Weick va ricordato per completare il quadro: il “Complicate voi stessi!”77.

In un’organizzazione c’è di buono che vi sono molte persone, e ognuna pensa e agisce diversamente. Questo è utile perché aumenta l’adattabilità, aumentando il numero delle convinzioni disponibili per vedere il mondo, in un continuo rimescolare e rigettare le immagini passate.

Un altro modo per introdurre la complicazione e migliorare l’adattabilità è quello di rigettare un’immagine rendendola casuale. Questa argomentazione può essere delineata brevemente utilizzando l’analisi, citata da Weick, sulla divinazione così come la praticano gli indiani Naskapi nel Labrador.

Ogni giorno i Naskapi affrontano il quesito della direzione che i cacciatori devono prendere per localizzare la selvaggina. Costoro rispondono a tale quesito reggendo sopra il fuoco delle scapole secche di caribù, in cui il calore fa comparire delle incrinature e delle sagome che vengono “lette” da un esperto. Le incrinature indicano la via da seguire. I Naskapi ritengono che questa pratica permetta agli dei di intervenire nelle loro decisioni riguardanti la caccia.

La cosa interessante di queste pratiche, nota Weick, è che funzionano. Per veder come funzionano, possiamo pensare ad alcune delle caratteristiche di questa procedura decisionale. Innanzitutto, la decisione finale sulla scelta del luogo in cui cacciare non è una scelta puramente personale o di gruppo. Se la selvaggina non si trova, gli dei – e non gli uomini – sono da incolpare. In secondo luogo, la decisione finale non viene influenzata dal risultato di passate battute di caccia, altrimenti i Naskapi correrebbero il rischio di esaurire di esaurire lo stock di animali. Il successo precedente provocherebbe un successivo fallimento. In terzo luogo, la decisione finale non viene influenzata dagli schemi tipicamente umani delle scelte e delle preferenze, che possono permettere agli animali cacciati di fuggire e di sensibilizzarsi alla presenza di esseri umani.

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L’uso delle scapole è dunque un modo molto rozzo per complicare il comportamento umano laddove possa scaturire un vantaggio dall’evitare schemi fissi. Bisogna fare spazio alla casualità per evitare delle inconsce regolarità di comportamento. Come si diceva nel primo capitolo, la memoria mina l’innovazione. Le persone ricordano solo le pratiche utili nel presente: questo rafforza il quadro di scarsa elasticità, in cui l’adattamento preclude l’adattabilità, e l’organizzazione diventa incapace di affrontare il cambiamento.

Weick elenca ben sedici possibili vantaggi delle procedure di casualizzazione:

1) compiere un errore ha conseguenze ridotte;

2) si può prendere una decisione anche se i fatti non sono sufficienti;

3) si può prendere una decisione anche quando le differenze fra le alternative non sono sufficienti;

4) si possono superare le strozzature;

5) queste pratiche confondono i concorrenti;

6) esse creano un numero infinito di alternative;

7) tale procedura è divertente;

8) si può raggiungere rapidamente una decisione;

9) non sono necessarie particolari abilità dell’utente;

10) è una tecnica poco costosa;

11) vi è accordo sul processo;

12) non sono necessari archivi o magazzini;

13) tutte le alternative vengono egualmente soppesate e non vi sono preferenze;

14) si giunge alla soluzione senza polemiche;

15) viene introdotta una reale novità;

16) la sorte di una persona si può cambiare introducendo un nuovo modo di rispondere.

Infine, essere complicati significa trarre piacere dal processo piuttosto che dal risultato.

Ciò vale sia per il processo di teorizzazione sia per quello di direzione. Trarre piacere dal processo significa, per Weick, comprendere cos’è Itaca. Una meta povera, ma che acquista tanto più significato e bellezza quanto più è lungo e tortuoso e pieno di incontri

77 WEICK, (op. cit.), pagg. 354 - 358.

e avventure il viaggio, che ad Itaca dovrebbe concludersi. Senza quell’isola, per quanto possa essere degna solo di capre e pastori, non ci si sarebbe mai mossi, non si sarebbe fatto alcun viaggio.

È come l’Antartide dell’esploratore inglese Shackleton: bloccata dai ghiacci, la sua spedizione non riuscirà neppure a sbarcare sul continente antartico; eppure la sua avventura resta unica e appassionante, tanto da meritargli il terzo posto nella classifica dei grandi leader della storia, stilata quattro anni fa dal Wall Street Journal, dopo Giulio Cesare e Napoleone.78