2. LA CORNICE GIURIDICA
3.6 I L FINANZIAMENTO DEI TEATRI IN I TALIA DALL ’800 AD OGGI
Dati i risultati non sempre univoci delle verifiche empiriche del morbo dei costi nel lungo periodo, può essere utile ricapitolare qual è stata la realtà del finanziamento italiano ai teatri nel lunghissimo periodo. Possiamo partire dalla situazione preunitaria per osservare il trend plurisecolare del finanziamento; un trend univocamente in crescita, pur tra mille scossoni. La realtà finanziaria non va però disgiunta da quella artistica e organizzativa; a questo scopo rinviamo al primo capitolo, dove si possono trovare gli elementi di storia del teatro necessari. Di quel capitolo andrà forse ricordato anche che il teatro delle origine era finanziato dallo Stato e dai privati, esattamente come avviene oggi. Infine, un giudizio sulla bontà delle teorie economiche lo si darà, confrontandosi con le opinioni degli operatori, nel capitolo sesto, nel paragrafo dedicato all’efficienza della gestione.
23 Donata FAVARO, “La legge di Baumol: un’applicazione al Teatro Regio di Torino”, in SANTAGATA W. (a cura di), Economia dell’Arte, Utet, Torino, 1998.
L ’ A N A L I S I E C O N O M I C A
69
Come già è stato scritto nel primo capitolo, i bilanci dei teatri italiani già nell’Ottocento versavano in un passivo cronico, offrendo una conferma ante litteram della malattia di Baumol. Coinvolti in una crisi finanziaria strutturale, i teatri cercavano in ogni modo di salvaguardare lo sfarzo dell’opera lirica, del balletto e della tragedia. Così a teatro non si andava solo per assistere alle rappresentazioni, ma si giocava d’azzardo, si prendeva il caffè, si leggevano i giornali, si comperavano i profumi, si cenava al ristorante.24 Il cambiamento degli stili di vita ed alcune scelte delle autorità pubbliche, come la soppressione delle sale da gioco, resero ancora più grave lo squilibrio tra costi e ricavi.25 È il caso, ad esempio, della Scala di Milano: quando nel 1815 il governo austriaco si reinsediò nel Lombardo-Veneto, soppresse il monopolio sui giochi d’azzardo, i cui lauti introiti avevano a lungo alimentato le casse del maggiore teatro milanese. Essendo nel frattempo venuto a scadenza l’appalto per la conduzione dei teatri della Scala e della Cannobiana, la reggenza cesarea, con l’avviso del 2 maggio 1815, notificò al pubblico l’intenzione di volerlo rinnovare per altri tre anni, escludendo però la concessione di qualunque privativa sui giochi e di qualsiasi assegno per parte governativa. Superfluo aggiungere, Baumol insegna, che l’asta andò miseramente deserta, e, di fronte all’evidente impossibilità di conciliare l’appalto senza supplire al mancato provento dei giochi, dietro rappresentanza del Governo, l’imperatore Francesco I approvò lo stanziamento di un sussidio annuo di lire 200.000, a carico erariale, grazie al quale si poté procedere all’appalto. Tale sovvenzione, tuttavia, non risultò sufficiente al ripiano delle perdite gestionali emerse a fine anno nel bilancio del teatro, fattore che indusse le autorità a inserirla stabilmente tra le entrate della Scala, ove rimase per parecchi decenni.
Dato che gli artisti lavoravano già in un regime di autosfruttamento, l’unica concreta possibilità di risparmio risiedeva nell’abbassamento della qualità degli spettacoli, ottenuto impiegando artisti e compagnie scadenti, agli esordi, o, comunque, di secondo piano, riducendo gli organici, ricorrendo a costumi e scenografie di seconda mano e riproponendo spettacoli già visti e rivisti. Tali strategie, rese in alcuni casi di più agevole attuazione in virtù dell’affermarsi delle ricordate compagnie “a mattatore”,
24 Sul mosaico di attività economiche svolte in teatro vedi supra paragrafo 1.3.3, l’Ottocento.
25 GUERZONI e ROMANI, (op. cit.).
erano, sia pure malamente, tollerate nei teatri dei piccoli centri o in quelli di bassa categoria, mentre mostrarono rapidamente la corda nei maggiori teatri civici sorti presso gli attuali capoluoghi di provincia del nord e del centro Italia. Il risparmio a discapito della qualità non incontrava certo il favore di un pubblico esigentissimo e smanioso di novità, che, deluso da una “prima” poco soddisfacente, poteva boicottare il resto della stagione o decidere di non abbonarsi, acuendo i disagi finanziari degli organizzatori.
Inoltre, nella maggior parte dei casi i sussidi erano concessi a patto che venissero allestite opere nuove (mai rappresentate), o mai viste in città, e analoghe considerazioni si imponevano in ordine alla rappresentazione dei balletti che inframmezzavano gli intervalli degli intrattenimenti operistici.
Con l’Unità d’Italia arrivò anche il diritto d’autore (legge 2337 del 25 giugno 1865). La nuova normativa rafforzava la posizione dell’autore, difendendolo dalle rappresentazioni abusive di tanti impresari. Ma soprattutto diede centralità agli editori nel mercato teatrale. Soprattutto nel settore operistico (dove i tre grandi editori Ricordi, Lucca, Sonzogno potevano imporre agli impresari la scelta del repertorio, dei cantanti, dei direttori d’orchestra) essi erano ormai divenuti i veri arbitri del sistema, scalzando gli agenti teatrali e i procuratori. L’avvento degli editori non cambiò solo gli equilibri del settore, ma fece anche lievitare i costi: le opere di cartello potevano essere allestite solo dietro corresponsione di diritti d’autore davvero elevati, che alla fine degli anni Settanta si aggiravano sulle 40.000 lire per opera, ossia intorno al 10-12% del complesso dei costi connessi alla rappresentazione.26
All’incremento dei costi non corrispose un aumento dei prezzi. I motivi di questo fenomeno erano sia economici sia socio-politici. I prezzi erano già iper-segmentati, secondo criteri ancorati a rigidi principi gerarchici; esistevano infatti anche sei o sette diversi tipi di palchi, abbonamenti e biglietti, associati a corrispondenti gruppi e sottogruppi socio-professionali: i provvedimenti volti a rincarare le fasce di prezzi erano quindi immancabilmente percepiti come misure punitive prese contro determinati ceti.
Prezzi costanti e costi in ascesa significano squilibrio dei bilanci, risolvibile solo col crescente finanziamento dello Stato. Ma le insostituibili sovvenzioni statali erano scarse: nel 1867 l’insieme dei teatri lirici italiani riceveva circa un milione di lire l’anno,
L ’ A N A L I S I E C O N O M I C A
71
poco di più delle 920.000 in dotazione alla sola Opéra di Parigi. La prosa, invece, non era sovvenzionata, per i minori costi dei suoi allestimenti e per il maggior numero di rappresentazioni effettuabili nel corso di una stessa stagione: una compagnia di prosa era in grado di mettere ogni sera in scena una tragedia o una commedia diversa, anche per settanta-ottanta giornate di fila. Anche in quest’ultimo campo, però, la presenza di attori famosi e allestimenti prestigiosi faceva riaffiorare quel “contributo all’eccellenza”
costituito dall’intervento pubblico. A Milano la Compagnia dei commedianti ordinari S.M.I.R. (1808-1814), poi trasferitasi in meridione e divenuta Compagnia Reale di Napoli, riceveva un congruo finanziamento, analogo a quello percepito a Parma dalla compagnia Rancourt (1827-1846), e a Torino dalla più celebre Reale Sarda, che rimase largamente sovvenzionata dallo Stato sino al 1854, quando le Camere piemontesi decretarono il suo scioglimento e la cassazione dal bilancio statale delle 25.000 lire stanziate per il suo mantenimento, cifra che risultava già dimezzata rispetto agli impegni degli esordi.27
I cittadini, però, non erano affatto inclini ad accettare l’intervento pubblico per il teatro, a cui non era riconosciuto un ruolo formativo ed era visto sempre più come attività ludica ed elitaria e, forse, anche un po’ riprovevole. Il referendum indetto a Milano l’11 dicembre 1901 sull’opportunità che il Comune concedesse uno stanziamento pubblico al teatro la Scala è emblematico: quel giorno prevalsero di gran lunga i no. D’altra parte anche lo Stato dovette compiere scelte tragiche, conseguenti alla scarsità delle risorse e, subito dopo il 1861, prese avvio un processo di disimpegno e cessione ai Comuni dell’uso e, poi, della proprietà dei teatri demaniali. Si aprì così un dibattito sul decentramento delle attività culturali, in un certo senso capovolto rispetto alle problematiche di oggi. Allora era lo Stato a voler decentrare le attività troppo onerose e forse non essenziali alle esigenze basilari della vita sociale. La conclusione fu la sospensione delle sovvenzioni e il trasferimento degli oneri ai Comuni, con risultati che la sensibilità attuale forse non accetterebbe: molti teatri chiusero i battenti, con un drastico restringimento dell’offerta, altri ridussero l’attività e la qualità, sospendendo i generi più costosi. La Pergola di Firenze, dopo l’interruzione del sussidio nel 1877,
26 GUERZONI e ROMANI, (op. cit.).
27 GUERZONI e ROMANI, (op. cit.).
ridusse a livelli quasi penosi la sua attività, il Carlo Felice di Genova rimase chiuso dal 1879 al 1883, l’Apollo di Roma serrò nel 1884, il Comunale di Bologna si limitò alla sola attività concertistica, il San Carlo di Napoli rimase chiuso per tre stagioni negli anni Settanta, la Fenice di Venezia dal 1872 al 1897 diede in tutto solo 12 stagioni di Carnevale, il Regio di Torino continuò ad allestire solo modeste stagioni di Carnevale, mentre la Scala chiuse i battenti nel 1898. E le cose in provincia andarono anche peggio, in un clima di generale smobilitazione, che solo nel primo decennio del Novecento venne superata dall’avvento di nuovi equilibri sociali e politici, di nuovi pubblici, di nuovi teatri più inclini a soddisfare i desideri popolari, di nuove forme di intervento statale.
Il Novecento si aprì con il già ricordato referendum della città di Milano. Dopo la chiusura del 1898, causata dai consueti contenziosi tra Comune e palchettisti, l’esercizio della Scala venne assunto per il triennio 1899-1901 da una società anonima il cui consiglio di amministrazione era presieduto dal duca Guido Visconti di Modrone; nel 1901 tale società chiudeva il proprio mandato con una perdita netta di 78.000 lire, ripianata personalmente dal duca. Allo scopo di conoscere una volontà in realtà già nota, la Giunta comunale fece indire il referendum sull’opportunità del finanziamento municipale alla Scala. Vista la schiacciante maggioranza dei “no”, la Giunta decise di adottare una linea di rigore, non eliminando del tutto lo stanziamento annuo, ma portandolo da 150.000 lire a 60.000 lire, costringendo così la società capeggiata da Visconti di Modrone, che aveva rinnovato il proprio mandato per altri 5 anni (1902-1906), a ripianare perdite ancora più ingenti: nel 1906, alla chiusura degli otto anni di gestione Visconti di Modrone, il consorzio ci aveva rimesso ben 394.000 lire, dimostrando ancora una volta l’origine ereditaria e congenita del morbo di Baumol.
Il fascismo, pur accentuando le tendenze poco favorevoli dal punto di vista fiscale e finanziario, si interessò molto al teatro. Molte materie furono per la prima volta regolate dal diritto corporativo, attraverso normative a volte tuttora in vigore o che comunque informano quelle attuali: dal diritto d’autore, alla complessa legislazione legata al lavoro, licenze di esercizio e sicurezza, tutta la formulazione delle “istituzioni di diritto teatrale e dei negozi giuridici teatrali”, e per concludere, la costituzione di enti pubblici che non hanno mai cessato di essere operativi, ma sono stati, anzi, recentemente
L ’ A N A L I S I E C O N O M I C A
73
rivalutati (l’Istituto Nazionale d’Arte Drammatica, l’Ente Teatrale Italiano). Non ultimo elemento di continuità, la tendenza a disciplinare un po’ tutto (mercato compreso) che non ci ha abbandonato.28
Nel 1921 arrivò il primo intervento contributivo dello Stato italiano a favore di un’industria teatrale duramente provata da una crisi assieme artistica ed economica, e da una dura stagione di scioperi. Il sostegno si rinnovò con regolarità negli anni del regime, e non perse la funzione di un salvataggio, se pure operato sempre più selettivamente e su basi politiche.
Questi criteri lasciarono una traccia significativa anche nei provvedimenti dell’immediato dopoguerra:
• Favorendo la visione assistenziale dell’intervento dello Stato
• Non suggerendo distinzioni fra pubblico e privato (fatta eccezione per gli enti statali)
• Proponendo un modello funzionale a recepire o assecondare i piccoli assestamenti del sistema, più che a individuare obiettivi e proporsi come disegno programmatico.
Lo Stato italiano scelse di sostenere (con criteri definiti anno per anno, anzi stagione per stagione) tutto il teatro italiano, senza scelte programmatiche o interventi forti, come avrebbe potuto essere la costituzione di un Teatro di Stato, ad esempio, che qualcuno negli anni del primo dopoguerra si augurava, o una scelta di campo per il settore pubblico che non ci fu allora, e non ci sarebbe stata successivamente.
Iniziò l’era delle circolari, terminata con l’emanazione del “Regolamento triennale” del 4 novembre 1999. Essa fu affiancata, per ben cinquant’anni, dal dibattito sulla necessità di una legge organica.
La precarietà che caratterizzava la politica finanziaria dello Stato verso il teatro era all’origine dell’avvertita necessità di una legge. Le “provvidenze” erano infatti quantificate di anno in anno, fino all’approvazione della legge n. 163 del 30 aprile 1985, che fissò lo stanziamento di un contributo fisso, ripartito e indicizzato, su un arco di
28 GALLINA, (op. cit.).
tempo triennale, per il sostegno di musica e teatro: il FUS, Fondo Unico per lo Spettacolo, che è tuttora la base finanziaria dell’intervento dello Stato.
La possibilità di lavorare con scadenze certe, con un minimo di programmazione, è stata ovviamente una conquista fondamentale per gli operatori teatrali, anche se la quantificazione del fondo confermava un divario sostanziale con gli altri paesi europei, e i criteri di ripartizione fra teatro musicale e teatro di prosa hanno cristallizzato ulteriormente un equilibrio (o uno squilibrio) storico. Una scelta a favore della lirica (che nel 1985 assorbiva il 42% dei fondi) trovava fondamento nelle specificità, nei costi del teatro dell’Opera e nella dimensione occupazionale del settore (il teatro di prosa assorbiva solo l’8% delle unità di lavoro complessivamente impiegate nello spettacolo dal vivo) ma non aveva riscontro nei risultati, se si considera, ad esempio, che il teatro di prosa ha totalizzato nel 1999, secondo le ultime statistiche SIAE, oltre 66.288 rappresentazioni contro le 1.924 della lirica e 11.898.000 di spettatori contro 1.924.000.29
Resi comunque più ottimisti sul piano finanziario dal FUS, che indubbiamente determinò alcuni anni di consolidamento, gli operatori non sembravano più così convinti dell’opportunità di una legge organica e mancarono l’appuntamento che lo Stato stesso aveva fissato, entro tre anni, per la sua emanazione. Non aver dato un assetto al teatro in tempi di vacche grasse, è qualcosa di più di un’occasione perduta: è la conferma del disinteresse di fondo, da parte politica, ma anche della miopia congenita del settore. È opinione molto diffusa che la richiesta di una legge fosse puramente retorica e che le diverse categorie dello spettacolo si sentissero in realtà ben più garantite dalle “circolari” annuali, di quanto non lo sarebbero state da un provvedimento legislativo vero e proprio, che avrebbe comportato precise scelte.30 Del resto, anche i governi sembravano scoprire con sempre maggiore decisione quanto fossero malleabili le circolari, e potessero essere piegate a politiche diverse. È l’equilibrio fra questi interessi di fatto convergenti che ha prodotto, alla fine, l’assenza della riforma.
Anche se l’era delle circolari pare finita, è ancora talmente presente nell’articolazione, nel funzionamento e nella mentalità del teatro italiano che vale la pena saperne di più.
29 GALLINA, (op. cit.).
30 GALLINA, (op. cit.).
L ’ A N A L I S I E C O N O M I C A
75
Intanto si trattava di provvedimenti amministrativi, emanati annualmente, la cui funzione era quella di elencare i soggetti che potevano beneficiare di contributi precisando i requisiti richiesti.
Di anno in anno le circolari registravano momenti di conservazione o arretratezza, oppure di innovazione, oppure avvertivano cambiamenti repentini; erano, insomma, uno strumento estremamente flessibile: a volte fotografavano, a volte cercavano di indirizzare la realtà, sempre comunque di controllare i cambiamenti, anno dopo anno, governo dopo governo. In assenza di una legge, hanno bene o male governato il teatro, se pure con modalità a volte un po’ bizzarre e non di rado schizofreniche. Determinante in queste evoluzioni, è stato il ruolo delle categorie dei produttori di spettacolo, rappresentate dall’AGIS, l’Associazione Generale Italiana dello Spettacolo, con spirito e modalità unitarie (sempre meno possibili ultimamente per i pesanti conflitti interni fra i settori). L’AGIS ha contribuito in modo determinante, almeno fino a metà degli anni ottanta, ad indirizzare, anno per anno, i contenuti dei provvedimenti e, successivamente, ad arginare o controllare cambiamenti troppo rapidi nelle regole del gioco. La principale regola era il dato storico, il livello acquisito dei contributi, che le categorie difendevano con le unghie e con i denti, fino ad ispirare la cristallizzazione presente anche negli attuali provvedimenti.
Uno dei principali problemi che le circolari si trovavano ad affrontare e si sforzavano di risolvere, anche in considerazione dell’incremento numerico dei soggetti sovvenzionati, era quello della selezione ed era riconducibile alla ricerca di un metodo che consentisse di quantificare equamente i contributi, operando una sintesi fra elementi quantitativi (misurabili) e qualitativi (opinabili, ma inevitabili, considerando la materia). Il principale mezzo adottato è stata la definizione di parametri, alcuni comuni, altri variabili, secondo le tipologie di impresa e di attività (numero delle recite, delle piazze, degli elementi coinvolti, contributi previdenziali, valutazione dei costi di allestimento).
Parallelamente, si è cercato di dare un peso specifico a elementi artistici e di programma, riducendo il più possibile il fattore opinabile. Su questa strada, il Ministero, e successivamente il Dipartimento dello Spettacolo (con l’assistenza di commissioni consultive), si è addentrato in un ginepraio, trascinato da una deriva burocratica senza fine. Più si è avvertito con senso di responsabilità il bisogno di sottrarre il settore alla
discrezionalità, più si sono complicate le chiavi di lettura dell’attività. Il problema non è certo di facile soluzione e segna, suo malgrado, anche il Regolamento in vigore condizionandone il peso innovativo.
3.7.1 L’attuale sistema di finanziamento pubblico italiano: i principi
L’attuale orientamento prevalente del finanziamento pubblico, in Italia e in Europa, tende a confermare il sostegno al teatro (e alla cultura in genere) ma nella direzione di chiedere alle organizzazioni culturali precisi riscontri di economicità e efficacia e sulla base di criteri rigorosamente selettivi e concorrenziali.
L’intervento pubblico può riguardare le diverse espressioni dello Stato, centrali o periferiche e l’interpretazione delle competenze può essere molto diversa. In Italia si sta affermando il principio della concertazione, del concorso fra Stato, regioni ed enti locali, della politica di intervento per lo spettacolo attuata da soggetti istituzionali di pari dignità, nel rispetto delle singole autonomie.
Lo Stato può intervenire, a livello dell’offerta (la produzione) e della domanda (il pubblico), in diverse forme:
• Attraverso contributi erogati a favore di realtà di spettacolo
• Con l’istituzione diretta di propri strumenti operativi
• Con forme di agevolazioni fiscali, previdenziali o affini
In Italia, sono state adottate contestualmente tutte queste forme.31
Nel primo caso, lo Stato ha privilegiato le imprese e l’attività di produzione, considerando il “bene culturale teatro” come un bene meritorio che la società deve sostenere (la sopravvivenza dei teatri e dei soggetti produttori di spettacolo diventa elemento di una politica di welfare). Ha inoltre cercato, con modalità diverse negli anni, di identificare e favorire l’eccellenza: di indirizzare cioè i propri interventi alla qualità.
31 GALLINA, (op. cit.).
L ’ A N A L I S I E C O N O M I C A
77
Il secondo punto, non è stato un terreno di intervento privilegiato (come in altri paesi), ma recentemente sono stati rilanciati e riformati, gli organismi creati negli anni trenta e quaranta già ricordati.
Nel terzo caso lo Stato può intervenire non solo assegnando, ma alleviando o favorendo l’integrazione dei fondi. Per anni sottovalutato, questo è un terreno importante delle ultime riforme. La politica fiscale recente è stata del resto decisamente favorevole al settore, con l’abolizione della “imposta spettacolo” e con l’approvazione nel novembre 2000 della legge che tra l’altro prevede la deducibilità totale dalle dichiarazioni dei redditi delle “erogazioni liberali” di privati a favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute. Il tutto entro un budget predeterminato di mancate entrate del fisco nel 2002.
3.7.2 Le cifre
Per comprendere appieno la realtà del finanziamento è necessario, come ovvio, anche un’analisi delle risorse finanziarie. Riprendiamo qui i dati elaborati dall’Osservatorio dello Spettacolo.32
Nel 1995 i finanziamenti pubblici alla cultura (beni e attività culturali), hanno raggiunto in Italia i 7.000 miliardi, con una spesa per abitante di 118.000 lire contro (già nel ’93) le 212.000 lire della Germania e le 248.000 della Francia. Il dato è a maggior ragione preoccupante se si considera il nostro patrimonio artistico. E per limitarci al teatro, nel
’97, la spesa statale in Francia è stata di 400 miliardi (la quota FUS corrispondente di 152), e la spesa pubblica totale (Stato ed enti locali) in Germania di 3.000 miliardi.
Negli anni Ottanta la spesa pubblica totale a sostegno di beni e attività culturali è cresciuta considerevolmente, ovvero dell’80% a lire costanti, mentre gli anni dal ’90 al
’95 hanno visto un incremento del 14% a lire correnti, che corrisponde a un calo dell’8,5% considerando l’inflazione. Per quanto riguarda il teatro, alla riduzione del 18% delle risorse messe in campo dallo Stato, ha fatto riscontro il +4% in termini reali delle regioni: il ridimensionamento dei finanziamenti statali e la crescita di quelli
32 Citati in GALLINA, (op. cit.), pag. 50.
regionali e locali è una tendenza internazionale. Il settore privilegiato delle regioni sono
regionali e locali è una tendenza internazionale. Il settore privilegiato delle regioni sono