G It Diabetol Metab 2010;30:124-131
La Ricerca in Italia
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
È stato esplorato il ruolo di alcuni fattori clinici e socioeconomici nel determinare l’aderenza alle linee guida per l’assistenza al diabete e sono state esplorate le dif- ferenze nel processo assistenziale tra diabetologi e medici di famiglia.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
La letteratura riporta, in numerosi Paesi, la presenza di ampie differenze geografi- che, cliniche e sociali nella qualità dell’assistenza ai pazienti diabetici. Queste diffe- renze sono legate a una complessa rete di fattori quali differenze di prevalenza di Determinanti della qualità
del percorso assistenziale del diabete: lo studio di Torino
Gnavi R1, Picariello R1, Karaghiosoff L1, Costa G1,3, Giorda C3
1SCDU Epidemiologia, ASL TO3, Grugliasco (TO); 2Dipartimento di
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Questo studio si inserisce in una linea di ricerca atta a identificare i fattori genetici che possono contribuire all’insorgenza e progressione della nefropatia diabetica (ND). L’analisi mirava principalmente a valutare le interazioni tra polimorfismo Pro12Ala del gene PPARγ2 e rischio di sviluppare microalbuminuria (MA) nell’am- bito di un trial (BENEDICT) finalizzato a testare l’effetto sull’albuminuria di un ACE- inibitore, un calcio-antagonista e della loro combinazione in pazienti ipertesi con diabete di tipo 2 (DT2). Poiché il trial aveva dimostrato che gli ACE-inibitori riduco- no il rischio di microalbuminuria in questa popolazione, abbiamo secondariamente valutato anche le interazioni tra il polimorfismo e l’effetto del trattamento.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Studi trasversali avevano documentato un’associazione tra la variante Ala12 del polimorfismo Pro12Ala e un’aumentata frequenza di micro- o macroalbuminuria in pazienti con DT2. Per il loro disegno trasversale, però, questi studi non potevano indagare un rapporto di causalità tra il polimorfismo e gli eventi considerati e non si poteva escludere l’effetto confondente di un bias di selezione.
Sintesi dei risultati ottenuti
Nei portatori omozigoti o eterozigoti dell’allele Ala il rischio di sviluppare MA era la metà rispetto a quello dei portatori omozigoti dell’allele Pro. In questi ultimi il rischio di MA era dimezzato dagli ACE-inibitori e diventava simile a quello riscontrato nei portatori dell’allele Ala indipendentemente dal trattamento. L’interazione tra poli- morfismo, eventi ed effetto trattamento era indipendente dal controllo pressorio e metabolico.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
La natura prospettica dello studio ha consentito di dimostrare per la prima volta l’e- sistenza di un rapporto causale tra il polimorfismo e l’evento osservato. Questa è inoltre la prima evidenza che questo polimorfismo determina anche la risposta al trattamento con un ACE-inibitore.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Le prospettive sono essenzialmente due:
1. studiare attraverso quali meccanismi il Pro12Ala del gene PPARγ2 influenza il rischio di microalbuminuria e l’efficacia del trattamento;
2. verificare in che misura gli effetti sulla microalbuminuria si riflettano sugli eventi cardiovascolari e sulle altre complicanze a lungo termine.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Questi dati dimostrano che le analisi genetiche dovrebbero rientrare sempre di più tra gli accertamenti previsti per quantificare il rischio di complicanze del paziente diabeti- co e ottimizzare il trattamento con i farmaci a nostra disposizione (farmacogenomica).
La comprensione sempre più precisa dei fattori genetici predisponenti allo sviluppo e alla progressione delle complicanze consentirà una prevenzione sempre più precoce ed efficace e una parallela riduzione dei costi economici e sociali a esse correlati.
Impatto del polimorfismo P12A del gene e della terapia con ACE-inibitori sullo sviluppo di
microalbuminuria in
pazienti con diabete di tipo 2: evidenze dallo studio BENEDICT
De Cosmo S1, Motterlini N2, Prudente S3,4, Pellegrini F5, Trevisan R6, Bossi A7, Remuzzi G2,8, Trischitta V3,4,9, Ruggenti P2,8 per conto del gruppo di studio BENEDICT
1Unità di Endocrinologia, IRCCS
“Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni Rotondo; 2Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie Rare “Aldo & Cele Daccò”, Istituto Mario Negri per la Ricerca in Farmacologia, Bergamo;
3Unità di Ricerca di Diabetologia ed Endocrinologia, IRCCS
“Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni Rotondo; 4IRCCS
“Casa Sollievo della Sofferenza”, Istituto Mendel, Roma; 5Unità di Biostatistica, IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza”, San Giovanni Rotondo; 6Unità di Diabetologia, Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo; 7Unità di Diabetologia, Ospedale di, Treviglio, Treviglio; 8Unità di Nefrologia, Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo; 9Dipartimento di Fisiopatologia Medica, Università
“Sapienza”, Roma Diabetes 2009;58:2920-9
125 La Ricerca in Italia
La sovraespressione di PED induce espansione del mesangio e aumenta l’attività di PKC-β e l’espressione del TGF-β1
Oriente F1, Iovino S1, Cassese A1, Romano C1, Miele C1, Troncone G2, Balletta M3, Perfetti A1, Santulli G4, Iaccarino G4, Valentino R1, Beguinot F1, Formisano P1
1Dipartimento Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare e Istituto di Endocrinologia ed Oncologia Sperimentale del CNR;
2Dipartimento Scienze Biomorfologiche e Funzionali;
3Dipartimento Patologia
Sistematica; 4Dipartimento Medicina Clinica e Scienze Cardiovascolari e Immunologiche, Università di Napoli
“Federico II”, Napoli
Diabetologia 2009;52:2642-52
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
In questo lavoro è stata valutata la funzione di PED nell’insorgenza e/o nella pro- gressione della nefropatia diabetica in modelli animali e cellulari.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
È noto che l’ispessimento della membrana basale glomerulare e l’espansione del mesan- gio rappresentano importanti caratteristiche della nefropatia diabetica. Evidenze cliniche e sperimentali indicano il TGF-β come un fattore rilevante alla base di tali alterazioni.
Sintesi dei risultati ottenuti
Topi transgenici iperesprimenti PED presentano un aumento, progressivo con l’età, dei livelli di TGF-β, di creatinina plasmatica e di volume urinario, e un’espansione dell’area mesangiale. Il meccanismo dimostrato prevede l’attivazione di PKC-β che induce l’espressione del gene del TGFβ1 e la produzione di fibronectina e di pro- teine della matrice extracellulare.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
La sovraespressione del gene PED, evento comune nel diabete di tipo 2, aumen- ta i livelli di TGF-β e potrebbe predisporre all’insorgenza della nefropatia diabetica.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Ulteriori studi sono necessari per definire il ruolo di PED nella nefropatia diabetica nell’uomo.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
L’inibizione della funzione di PED potrebbe rappresentare una strategia terapeuti- ca innovativa nel trattamento della nefropatia diabetica.
Sanità Pubblica, Università di Torino; 3Unità di Malattie Metaboliche e Diabetologia, ASL TO5, Chieri (TO) Diabetes Care 2009;32(11):
1986-92
malattia, di stili di vita dei pazienti, di comportamenti dei professionisti, dell’organiz- zazione del sistema sanitario.
Sintesi dei risultati ottenuti
Nonostante l’ampia diffusione delle linee guida, una quota non indifferente della popolazione diabetica, in particolare gli anziani e i pazienti con forme meno gravi di malattia, non è seguita in modo adeguato. I pazienti seguiti dai servizi di diabeto- logia hanno una maggiore probabilità di essere seguiti secondo le linee guida.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Sono state evidenziate differenze nella qualità dell’assistenza in una popolazione diabetica non selezionata, identificando le fasce di popolazione e i modelli assisten- ziali a maggior rischio di assistenza non supportata dalle linee guida.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Valutazione dell’impatto dei differenti modelli assistenziali su indicatori di outcome.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
La qualità del processo assistenziale può essere migliorata aumentando l’intensità dei programmi di disease management e migliorando la partecipazione dei medici di medicina generale.
Effetti della somministrazione di metformina con
e senza supplementazione con folati sui livelli
di omocisteina e sull’endotelio in donne con sindrome dell’ovaio policistico
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
La ricerca è stata incentrata sull’effetto, ancora incerto, della somministrazione di metformina sui livelli di omocisteina e, in considerazione del danno di parete che quest’ultima induce, sulla struttura e funzione endoteliale in donne affette da PCOS (sindrome dell’ovaio policistico). Sono stati valutati, inoltre, gli effetti della cosom- ministrazione alla metformina di folati.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Prima dei nostri risultati era noto che la metformina in donne con diabete mellito
Palomba S, Falbo A, Giallauria F, Russo T, Tolino A, Zullo F, Colao A, Orio F
Ostetricia e Ginecologia, Università “Magna Graecia”
di Catanzaro, Catanzaro Diabetes Care 2010;33:246-51
altera lievemente i livelli di omocisteina, sebbene il suo effetto benefico venga con- servato sia in pazienti diabetici sia in pazienti con PCOS.
Sintesi dei risultati ottenuti
I nostri dati mostrano che la somministrazione di metformina in donne con PCOS induce un aumento significativo dell’omocisteina sierica e che la contemporanea somministrazione di bassi dosi di acido folico riduce tale effetto collaterale massimiz- zando i benefici che la metformina stessa esplica a livello dell’endotelio vascolare.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
I nostri dati hanno confermato che la metformina altera il metabolismo dell’omoci- steina anche in soggetti non diabetici e che tale alterazione può essere prevenuta con la cosomministrazione di folati.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
I nostri sono dati clinici sperimentali. Ciò significa che è necessario definire se l’asso- ciazione metformina-folati sia maggiormente efficace anche in termini di eventi avver- si cardiovascolari e/o vascolari in genere. Sarebbe, inoltre, intrigante definire i precisi meccanismi grazie a cui la metformina modifica il metabolismo dell’omocisteina.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Nel paziente in trattamento cronico con metformina e con comorbilità, sarebbe necessario monitorare i livelli di omocisteina al basale e in corso di trattamento al fine di identificare quei soggetti che possono beneficiare dell’aggiunta di basse dosi di acido folico.
Concentrazioni elevate di acido urico sierico predicono in maniera indipendente la mortalità cardiovascolare in pazienti diabetici di tipo 2
Zoppini G, Targher G, Negri C, Stoico V, Perrone F, Muggeo M, Bonora E
Sezione di Malattie del Metabolismo e Endocrinologia, Dipartimento di Medicina, Università degli Studi Verona, Verona
Diabetes Care 2009;32:1716-20
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
È stato valutato il ruolo predittivo dei livelli di acido urico sierico sulla mortalità per tutte le cause e per malattie cardiovascolari in un’ampia coorte di diabetici di tipo 2.
Quale era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
L’argomento è stato al centro di diversi studi, tuttavia esistevano ancora molte incertezze riguardo a un ruolo di predittore indipendente dell’acido urico sulla mor- talità nel diabete di tipo 2. Inoltre, molti degli studi precedenti non avevano consi- derato il ruolo della disfunzione renale quale confondente.
Il metabolismo dell’acido urico può contribuire alla formazione di radicali liberi e alcuni studi hanno dimostrato che l’allopurinolo, un inibitore della sintesi di acido urico, può migliorare la funzione endoteliale.
Sintesi dei risultati ottenuti
I livelli di acido urico sono risultati un predittore significativo nell’analisi univariata per la mortalità totale e cardiovascolare. Al contrario, nell’analisi multivariata l’acido urico è risultato un predittore significativo indipendente per quanto riguarda la mortalità car- diovascolare, ma non per la mortalità totale. I modelli di analisi multivariata sono stati aggiustati per una serie di confondenti compresa la funzionalità renale.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 la misurazione dell’acido urico può aiutare nella definizione del rischio cardiovascolare. Inoltre, se futuri studi supporteranno l’eviden- za di un ruolo fisiopatologico dell’acido urico nelle malattie cardiovascolari, l’iperuri- cemia potrebbe diventare un ulteriore target nel trattamento del diabete di tipo 2.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Lo studio dei meccanismi fisiopatologici che legano l’iperuricemia alla malattia car- diovascolare e il ruolo di farmaci che interferiscono con il metabolismo dell’acido urico sul rischio cardiovascolare.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
L’utilizzo dell’uricemia può contribuire a migliorare la stratificazione del rischio car- diovascolare nei diabetici di tipo 2.
126 La Ricerca in Italia
Associazione tra le
concentrazioni plasmatiche di MCP1 e la mortalità cardiovascolare in individui diabetici e non diabetici di mezza età
Piemonti L, Calori G, Lattuada G, Mercalli A, Ragogna F, Garancini MP, Ruotolo G, Luzi L, Perseghin G Istituto Scientifico H San Raffaele, Milano; Università degli Studi di Milano, Milano
Diabetes Care 2009;32:2105-10
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Cercare di stabilire se esiste una correlazione tra malattia cardiovascolare e infiam- mazione sistemica (utilizzando un marker surrogato quale la concentrazione pla- smatica di MCP1) di basso grado nell’uomo.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
MCP1 è una chemochina coinvolta nella patogenesi dell’aterosclerosi e degli even- ti acuti cardiovascolari.
Sintesi dei risultati ottenuti
In individui sovrappeso/obesi di mezza età, la concentrazione plasmatica a digiu- no di MCP1 si associava in modo indipendente con la mortalità cardiovascolare nella popolazione di tre comuni della provincia di Cremona (studio Cremona) durante un periodo di osservazione di 15 anni.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Un biomarker di infiammazione di basso grado sistemica si associa alla mortalità cardiovascolare rafforzando l’ipotesi secondo la quale l’infiammazione è un fattore patogenetico cruciale nell’aterosclerosi e nello sviluppo degli eventi acuti.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Bisognerà stabilire se MCP1 possa diventare un potenziale target terapeutico.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
In termini epidemiologici sarà importante stabilire la rilevanza di MCP1 come mar- ker surrogato del rischio di sviluppare eventi cardiovascolari nel futuro.
La Ricerca in Italia 127
Un indice empirico di insulino-sensibilità da breve IVGTT: validazione rispetto agli indici del modello minimo e del clamp di glucosio in pazienti con diverse caratteristiche cliniche
Tura A1, Sbrignadello S1, Succurro E2, Groop L3,4, Sesti G2, Pacini G1
1Unità Metabolica, ISIB-CNR, Padova; 2Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università Magna Græcia di Catanzaro, Catanzaro; 3Lund University Diabetes Centre, Lund University, Malmö, Svezia; 4Research Program for Molecular Medicine, Helsinki University, Helsinki, Finlandia Diabetologia 2010;53:144-52.
Erratum in Diabetologia 2010;53:1245
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Si è inteso sviluppare un metodo per la stima dell’insulino-sensibilità a partire da dati di IVGTT che non richieda l’uso di sofisticati modelli matematici (come per il calcolo dell’indice SΙdel modello minimo), e utilizzi dati limitati a una sola ora di test, differentemente dalle tre ore richieste per il calcolo di SΙ.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Qualora si fosse intenzionati a calcolare l’insulino-sensibilità a partire da dati di IVGTT, precedentemente al nostro lavoro era necessario eseguire un test di alme- no tre ore, ed elaborare i dati con il modello minimo (per il calcolo di SΙ).
Sintesi dei risultati ottenuti
La formula per il calcolo del nuovo indice, CSΙ, è la seguente: α . α è una costante pari a 0,604, KGdescrive la scomparsa del glucosio (pendenza di log glucosio), ∆AUCINSè l’area sotto la curva della concentrazione soprabasale dell’in- sulina, T è l’intervallo tra 10 e 50 min (= 40 min) dove KGe ∆AUCINSsono calcolate.
Una formula simile è disponibile anche nel caso in cui si abbiano dati di IVGTT modi- ficato (con iniezione di insulina). CSIha le stesse unità di SΙ, cioè 10-4min-1(µU/ml)-1. In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
È stato dimostrato che, al fine di stimare l’insulino-sensibilità da dati di IVGTT, la durata del test può essere limitata a un’ora.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Il metodo è stato validato su diverse categorie di soggetti, per i quali si è osservata un’ottima correlazione di CSΙ con SΙ, e anche con l’insulino-sensibilità da clamp.
Dunque, al momento non è previsto che la formulazione dell’indice venga revisionata.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Grazie all’indice CSΙ, si potrà limitare la durata del test IVGTT a un’ora soltanto, con ovvi vantaggi per pazienti e operatori. Inoltre si potrà calcolare l’indice facilmente, per esempio tramite un semplice foglio elettronico.
KG
∆AUCINS / T
La Ricerca in Italia 128
Regressione delle
complicanze diabetiche in seguito a trapianto di isole pancreatiche in un modello di ratto con diabete di tipo 1
Remuzzi A, Cornolti R, Bianchi R, Figliuzzi M, Porretta-Serapiglia C, Oggioni N, Carozzi V, Crippa L, Avezza F, Fiordaliso F, Salio M, Lauria G, Lombardi R, Cavaletti G Istituto di Ricerche Farmacologico Mario Negri di Bergamo e di Milano;
Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Bergamo; Università di Milano Bicocca di Monza; Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano Diabetologia 2009;52:2653-61
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
È stato valutato l’effetto del trapianto di isole pancreatiche nell’indurre la regressio- ne delle complicanze a livello microvascolare, neurologico e macrovascolare in un modello di ratto con diabete indotto chimicamente.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Il diabete di tipo 1 è associato a gravi complicanze croniche che comportano lesio- ni cellulari a livello dei vasi sanguigni, della cute, della retina, dei reni e dei nervi. Fino a ora non è stato sufficientemente accertato se il trapianto di isole pancreatiche possa prevenire o arrestare la progressione delle complicanze del diabete.
Sintesi dei risultati ottenuti
Il trapianto di isole pancreatiche in ratti con diabete di tipo 1, oltre a normalizzare i valori di glicemia, ha indotto la quasi completa regressione della neuropatia, ha pre- venuto le alterazioni cardiovascolari e ha rallentato la progressione del danno renale.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Un controllo glicemico ottimale è di cruciale importanza nella prevenzione e nella regressione delle complicanze diabetiche.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Lo studio dell’effetto della terapia cellulare sulle complicanze indotte da un diabe- te di lunga durata.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
I nostri risultati indicano la necessità di approfondire nuove strategie per ottenere un controllo glicemico ottimale e prevenire quindi le complicanze del diabete.
“Diario interattivo per il diabete” (DID): un nuovo sistema di telemedicina che permette una dieta flessibile, facilita la gestione della terapia insulinica e migliora la qualità di vita: studio randomizzato, multicentrico,
internazionale, in aperto
Rossi MCE1, Nicolucci A1, Di Bartolo P2, Bruttomesso D3, Girelli A4, Ampudia FJ5, Kerr D6, Ceriello A7, De La Questa Mayor C8, Pellegrini F1, Horwitz D9,
Vespasiani G10
1Dipartimento di Farmacologia Clinica ed Epidemiologia, Consorzio Mario Negri Sud, S. Maria Imbaro (CH); 2UO Diabetologia, Presidio Ospedaliero, Ravenna; 3Medicina Clinica e Sperimentale, Policlinico Universitario, Padova; 4UO
Diabetologia, Spedali Civili, Brescia;
5Endocrinologia, Hospital Clínico Universitario, Valencia, Spagna;
6Centre of Postgraduate Medical Research and Education, Bournemouth University, Bournemouth, UK; 7Warwick Medical School, University of Warwick, Coventry, UK;
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
È stato valutato l’impatto sul controllo metabolico, sul peso corporeo e sulla qua- lità di vita dei pazienti con diabete di tipo 1 del Diario interattivo per il diabete (DID).
Il DID è un software per telefono cellulare che permette di registrare i valori glice- mici dell’autocontrollo e di calcolare la quantità di carboidrati assunti a ogni pasto.
Sulla base di questi dati e di altre informazioni chiave (rapporto insulina:carboidra- ti, fattore di correzione, eventi significativi della giornata), il DID calcola la dose più appropriata di insulina da assumere. Il sistema inoltre permette lo scambio perio- dico dei dati del diario tra cellulare del paziente e computer del medico via SMS, facilitando la comunicazione.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
La conta dei carboidrati e l’aggiustamento delle dosi di insulina sono parte inte- grante della cura del diabete. Quando correttamente impiegati, essi determinano una riduzione dei livelli di emoglobina glicata (HbA1c) e quindi del rischio di compli- canze. Tuttavia, la difficoltà insita in questo tipo di approccio educativo ne rende difficile l’estensione a una vasta gamma di pazienti. La tecnologia può essere di supporto ai pazienti per calcoli complessi quali la conta dei carboidrati e l’applica- zione degli algoritmi per l’aggiustamento.
Sintesi dei risultati ottenuti
Il DID è un sistema sicuro, in grado di ridurre il tempo dedicato all’educazione dei pazienti (da 12 a 6 ore); inoltre, il DID è risultato efficace quanto l’approccio edu- cativo tradizionale sulla riduzione dei livelli di HbA1c (–0,4% in 6 mesi); il DID si asso- cia anche a un ridotto trend di aumento del peso corporeo e migliora in maniera significativa la soddisfazione per il trattamento e la qualità di vita.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Questi dati confermano l’ipotesi che un sistema di telemedicina facile e accessibi- le, che permetta non solo la registrazione dei dati, ma anche un feed-back imme- diato per il paziente, possa essere un mezzo essenziale per facilitare l’accesso a
129 La Ricerca in Italia
L’efficacia della terapia cellulare in modelli preclinici di trapianto d’isole pancreatiche con cellule T regolatorie di tipo 1 è dipendente dalla loro specificità antigenica
Gagliani N1,2,3, Jofra T1, Stabilini A1,2, Valle A1, Atkinson M4,
Roncarolo M-G1,3, Battaglia M1,2
1Istituto di Ricerca sul Diabete San Raffaele, Milano; 2San Raffaele Telethon Institute for Gene Therapy, Milano; 3Università Vita-Salute San Raffaele, Milano; 4The Department of Pathology, University of Florida, Gainesville, Florida
Diabetes 2010;59:433-9
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Il trapianto di isole pancreatiche può rappresentare una cura definitiva del diabete di tipo 1. Il maggior ostacolo di questo approccio terapeutico è il rigetto delle isole da parte del sistema immunitario del ricevente affetto da diabete autoimmune da molti anni. L’obiettivo finale della nostra ricerca è quello di sviluppare una terapia in grado di bloccare il rigetto ed educare il sistema immunitario del ricevente a tolle- rare le nuove isole pancreatiche.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Nella pratica clinica attuale diversi cocktail di farmaci immunosoppressori vengono utilizzati per bloccare il rigetto delle isole pancreatiche. Tuttavia, la somministrazio- ne continuata di questi farmaci è spesso associata a gravi effetti collaterali, quali l’alto rischio di sviluppare tumori. Inoltre non si è ancora trovata combinazione far- macologica in grado di prolungare con una buona efficacia la sopravvivenza delle isole pancreatiche oltre il primo anno dal trapianto. Esiste quindi la necessità di tro- vare una terapia più sicura e più efficace. La scoperta, anche da parte del nostro gruppo, dell’esistenza di cellule T regolatorie in grado fisiologicamente di controlla- re il sistema immunitario ha mostrato una possibile strada da intraprendere: utiliz- zare cioè queste cellule come “farmaco” per educare le cellule che mediano il riget- to a tollerare, piuttosto che ad attaccare le isole pancreatiche trapiantate.
Sintesi dei risultati ottenuti
Topi Balb/c diabetici trapiantati con isole pancreatiche di un donatore con siste- ma HLA completamente diverso ripristinano i livelli normali di glicemia 12 ore dopo il trapianto. La glicemia viene mantenuta a livelli normali grazie alle nuove isole trapiantate per circa 20 giorni. Dopo questo periodo, le cellule effettrici infil- trano il trapianto e uccidono le isole e il topo ritorna diabetico. Se invece cellule regolatori di tipo 1 (Tr1) generate ex vivo vengono iniettate nel ricevente il giorno prima del trapianto, le isole non vengono rigettate e il topo rimane euglicemico indefinitivamente.
Questa terapia cellulare però non funziona quando il ricevente delle isole non è un topo Balb/c, ma un topo C57BL/6. Il sistema immunitario di questi ultimi topi è infatti più aggressivo e in assenza di trattamento il topo C57BL/6 rigetta il trapian- to di isole in soli 12-15 giorni. Abbiamo quindi generato delle cellule Tr1 specifiche per le isole pancreatiche trapiantate (i.e., specifiche per il donatore), piuttosto che senza specificità come avevamo fatto in precedenza. L’utilizzo di queste cellule ha permesso di generare uno stato di tolleranza alle isole pancreatiche trapiantate anche in riceventi (C57BL/6) con cellule effettrici più reattive.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Nel nostro Istituto siamo già in grado di generare cellule Tr1 umane antigene- specifiche. Dati preclinici che supportassero l’utilizzo di queste cellule in pazienti diabetici dopo trapianto di isole pancreatiche non erano però ancora stati genera-
8Endocrinologia, Hospital Universitario Virgen Macarena, Sevilla, Spagna; 9Medical & Clinical Affairs LifeScan Inc, Milpitas, California, USA; 10UO Diabetologia, Madonna del Soccorso Hospital, S. Benedetto del Tronto (AP) Diabetes Care 2010;33:109-15
una dieta e una terapia insulinica più flessibili e appropriate, con ricaduta positiva sulla qualità di vita.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
È in corso un nuovo trial che darà risposte definitive su efficacia e sicurezza del DID e che permetterà di valutarne gli effetti anche sulla variabilità glicemica.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
La futura immissione in commercio del DID determinerà, accanto ai benefici clinici per i pazienti, anche un alleggerimento del carico di lavoro del centro di diabetolo- gia. L’uso del sistema viene infatti insegnato in un tempo molto più breve rispetto a quello richiesto dall’approccio educativo tradizionale. Verranno inoltre ridotte le visite face-to-face grazie alla possibilità di gestione remota del paziente via teleme- dicina.
La Ricerca in Italia 130
Aspirina per la prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari nelle persone con diabete:
una metanalisi degli studi controllati randomizzati
De Berardis G, Sacco M, Strippoli GF, Pellegrini F,
Graziano G, Tognoni G, Nicolucci A Consorzio Mario Negri Sud, Santa Maria Imbaro (CH) BMJ 2009;339:b4531
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Lo studio ha combinato i risultati dei trial che valutavano l’efficacia dell’aspirina per la prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari nelle persone con diabete.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
Sebbene la maggior parte delle linee guida a livello internazionale raccomandasse- ro l’utilizzo dell’aspirina in prevenzione primaria, tali raccomandazioni erano basa- te principalmente sui risultati ottenuti in altre categorie di pazienti a elevato rischio cardiovascolare. Questa metanalisi ha invece valutato in modo specifico i risultati ottenuti nelle persone con diabete all’interno di trial che includevano esclusivamen- te questi pazienti o in studi che includevano sottogruppi di pazienti con diabete.
Sintesi dei risultati ottenuti
Dall’analisi combinata di 6 studi, per un totale di 10.117 partecipanti, è emerso che l’uso dell’aspirina era associato a una riduzione del 10% (rischio relativo, RR = 0,90;
intervallo di confidenza, IC al 95% 0,81-1,0), ai margini della significatività statistica, del rischio di eventi cardiovascolari maggiori (morte cardiovascolare, infarto non fata- le, ictus non fatale). Non è stata evidenziata una riduzione della mortalità cardiova- scolare (RR = 0,94; IC al 95% 0,72-1,23) e della mortalità totale (RR = 0,93; IC al 95% 0,82-1,05). L’uso di aspirina era associato a una riduzione del 43% del rischio di infarto nei maschi, ma non nelle femmine (RR = 1,08; IC al 95% 0,71-1,65).
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
Lo studio ha evidenziato come i benefici associati all’uso dell’aspirina in preven- zione primaria siano inferiori a quelli attesi, e richiamano l’attenzione sulla necessità di una più attenta valutazione del rapporto rischio/beneficio. Alla luce dei dati esistenti, sembrerebbe opportuno consigliare l’uso di aspirina in preven- zione primaria solo ai pazienti con un rischio cardiovascolare a 10 anni ben al di sopra del 15%.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Tre grandi studi attualmente in corso, di cui uno (studio ACCEPT-D) condotto in Italia, permetteranno di capire meglio se e in che misura l’aspirina, in aggiunta alle strategie di controllo dei più importanti fattori di rischio cardiovascolare, sia utile nelle persone con diabete, e se sia effettivamente presente un effetto diffe- renziale fra maschi e femmine. Ulteriori ricerche sono inoltre necessarie per comprendere meglio se il diabete rappresenti una condizione particolare di
“aspirino-resistenza”.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
I risultati della metanalisi hanno contribuito a una revisione, a livello internazionale, delle linee guida sul trattamento delle persone con diabete. In particolare, l’American Diabetes Association ha ristretto le indicazioni all’uso dell’aspirina (maschi al di sopra dei 50 anni e femmine al di sopra dei 60 anni, con un rischio cardiovascolare a 10 anni di almeno il 10%), mentre lo Scottish Intercollegiate Guidelines Network (SIGN) ha considerato le evidenze di questa metanalisi suffi- cienti a sconsigliare l’uso dell’aspirina in prevenzione primaria nel diabete.
ti. Inoltre ora sappiamo che l’antigene-specificità di queste cellule è fondamentale per aumentare l’efficacia di questo approccio terapeutico.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Nuovi studi sono attualmente in corso per definire dove le cellule Tr1 trasferite si accumulano e quanto sopravvivono. In aggiunta, stiamo cercando di definire quali farmaci potrebbero essere associati a questa terapia cellulare per migliorarne even- tualmente l’efficacia.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Questi dati supportano l’utilizzo della terapia cellulare con cellule Tr1 antigene- specifiche in pazienti diabetici a seguito di trapianto di isole pancreatiche.
131 La Ricerca in Italia
Modificazione di tipo proinfiammatorio del fenotipo di membrana e citochinico dei monociti di pazienti con
osteoartropatia acuta di Charcot
Uccioli L, Sinistro A, Almerighi C, Ciaprini C, Cavazza A, Giurato L, Ruotolo V, Spasaro F, Vainieri E, Rocchi G, Bergamini A
Dipartimento di Medicina Interna, Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Roma Tor Vergata, Roma
Diabetes Care 2010;33:350-5
A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?
Patogenesi della fase acuta dell’osteoartropatia acuta di Charcot.
Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?
La problematica non era stata oggetto di studio anche se alcuni autori avevano ipotizzato un coinvolgimento delle citochine proinfiammatorie nella patogenesi dello Charcot acuto.
Sintesi dei risultati ottenuti
Il nostro gruppo di ricerca ha dimostrato che nei pazienti con piede di Charcot i monociti acquisiscono un fenotipo immunologico di tipo proinfiammatorio, caratte- rizzato da aumento della produzione di citochine proinfiammatorie, riduzione della produzione di citochine antinfiammatorie, aumento dell’espressione di molecole costimolatorie e aumentata resistenza all’apoptosi spontanea.
In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscen- ze riguardo al problema iniziale?
La patogenesi del piede di Charcot è ancora perlopiù sconosciuta.
Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?
Stabilire se esiste un legame patogenetico tra neuropatia, infiammazione e osteo- lisi nel piede di Charcot. Dimostrare che esiste una carenza di CGRP (calcitonin gene related peptide) e che questa influenza la reattività dei monociti in senso proinfiammatorio; dimostrare che la via metabolica RANK/RANK-L è alterata nei pazienti con piede di Charcot acuto; dimostrare che l’alterazione della via metabo- lica RANK/RANK-L è correlata con l’infiammazione.
Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?
Al momento no anche se la dimostrazione che il sistema monocito-macrofagico ha un ruolo nella patogenesi del piede di Charcot può portare all’adozione di nuovi marker utili per monitorare l’attività di malattia e per la valutazione del rischio di svi- luppo di complicanze.