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GIMLa ricerca in Italia

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G I D M La ricerca in Italia

24, 77-81, 2004

L A RICERCA IN I TALIA

P ROPHYLACTIC BUT NOT DELAYED ADMI -

NISTRATION OF SIMVASTATIN PROTECTS AGAINST THE LONG - LASTING COGNITIVE AND MORPHOLOGICAL CONSEQUENCES OF A NEONATAL HYPOXIC - ISCHEMIC BRAIN INJURY , REDUCES IL-1 B AND

TNFα M RNA INDUCTION AND DOES NOT AFFECT ENDOTHELIAL NITRIC OXIDE SYNTHASE EXPRESSION

W Balduini, E Mazzoni, S Carloni, MG De Simoni*, C Perego*, L Sironi**, M Cimino Istituto di Farmacologia e Farmacognosia, Università degli Studi di Urbino, Urbino; *Istituto di Ricerche Farmacologiche

“Mario Negri”, Milano; **

Dipartimento di Scienze Farmacologiche, Università degli Studi di Milano, Milano

Stroke 34: 2007-2012, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Il nostro gruppo si occupa da tempo di farmaci e sviluppo. Recentemente abbiamo ini- ziato a valutare potenziali terapie che possano ridurre le conseguenze dell’insulto ischemico e abbiamo dimostrato che la simvastatina, un farmaco della classe delle sta- tine utilizzato nei pazienti ipercolesterolemici, ha effetti neuroprotettivi nell’ischemia cerebrale perinatale. In questo lavoro, che rappresenta una continuazione di quello precedente, abbiamo cercato di determinare una finestra terapeutica per l’effetto della simvastatina. Inoltre, in collaborazione con i gruppi della dott.ssa De Simoni e del dott. Sironi, abbiamo eseguito una serie di studi per capire il possibile meccanismo responsabile di tale effetto.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Studi clinici avevano riportato una riduzione dell’incidenza di ictus in pazienti che assu- mevano statine, un effetto non correlato con la capacità di questa classe di farmaci di abbassare i livelli di colesterolo. Successivi studi sperimentali avevano confermato che le statine hanno effetto neuroprotettivo nell’ischemia cerebrale.

Sintesi dei risultati ottenuti

I risultati hanno evidenziato che è necessario un trattamento profilattico per ridurre l’entità del danno istologico e le alterazioni comportamentali a lungo termine indot- te dall’insulto ischemico e gli esperimenti biochimici hanno identificato come possi- bile meccanismo una riduzione di produzione di citochine proinfiammatorie sugge- rendo che l’effetto neuroprotettivo della statina possa essere dovuto a un effetto antinfiammatorio.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

Determinando una finestra terapeutica per l’effetto protettivo della simvastatina duran- te lo sviluppo e individuando un possibile meccanismo d’azione.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Sarà importante determinare la minima dose efficace di farmaco e se una singola som- ministrazione sia comunque protettiva. Una riduzione della durata del trattamento e della dose potrebbe permettere un possibile uso del farmaco riducendo il rischio di pos- sibili effetti tossici. A questo proposito, risultati preliminari ottenuti in studi eseguiti dopo la pubblicazione di questo lavoro sono incoraggianti.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Si potrebbe pensare a un potenziale uso delle statine in quelle condizioni in cui il rischio

ischemico risulta particolarmente elevato, come per esempio in bambini che devono

essere sottoposti a interventi chirurgici a causa di disfunzioni cardiache congenite, ma

devono essere valutati con attenzione i potenziali rischi.

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G I D M La ricerca in Italia

24, 77-81, 2004

E FFECTS OF THE EARLY ACE INHIBITION IN DIABETIC NONTHROMBOLYZED PATIENTS WITH ANTERIOR ACUTE MYOCARDIAL INFARCTION

C Borghi, S Bacchelli, D Degli Esposti, E Ambrosioni, a nome degli Sperimentatori del Gruppo di Studio SMILE (Survival of Myocardial Infarction Long-term Evaluation)

Dipartimento di Medicina Clinica e Biotecnologia Applicata

“D. Campanacci”, Ospedale S.

Orsola, Università degli Studi di Bologna, Bologna

Diabetes Care 26: 1862-1868, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

La ricerca ha valutato l’efficacia clinica dell’ACE-inibitore zofenopril somministrato a par- tire dalle prime 24 ore dall’insorgenza dei sintomi a pazienti diabetici con infarto mio- cardico acuto a sede anteriore e non sottoposti a terapia trombolitica, randomizzati nel- l’ambito del trial multicentrico italiano SMILE (Survival of Myocardial Infarction Long- term Evaluation), uno studio in doppio cieco e controllato versus placebo.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro

I pazienti diabetici, rispetto ai non diabetici, presentano tassi di mortalità ospedaliera e a lungo termine dopo infarto miocardico acuto pressoché doppi. È quindi importante, in tale popolazione ad alto rischio, valutare eventuali strategie terapeutiche più aggressive, specie nelle fasi precoci di un infarto. L’uso degli ACE-inibitori, già dimostratosi di note- vole beneficio nei pazienti infartuati, specie in quelli con disfunzione ventricolare sinistra, potrebbe giocare un ruolo particolarmente utile anche in una popolazione ad alto rischio, come quella diabetica; rispetto a tale tipo di polazione la letteratura ha fornito fino a ora pochi dati specifici, limitati solo a valutazioni post-hoc di due altri grandi trial clinici.

Sintesi dei risultati ottenuti

I risultati dello studio hanno documentato che i diabetici in trattamento con zofenopril mostra- vano, rispetto al placebo: una significativa riduzione dell’incidenza combinata di mortalità e di scompenso cardiaco severo a 6 settimane (end point primario), una significativa riduzione del- l’incidenza di scompenso cardiaco severo a sei settimane anche quando valutato singolar- mente, e una significativa riduzione della mortalità nelle prime 24 ore dall’esordio dell’infarto.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

I risultati mostrano che la prognosi clinica dei pazienti diabetici infartuati può essere significativamente migliorata dalla somministrazione precoce di zofenopril, che dovreb- be poi essere continuata a lungo termine.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Utilità di studi di tipo prospettico che valutino l’efficacia della somministrazione dell’ACE-inibitore a pazienti diabetici infartuati anche nel lungo termine.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

L’indicazione all’utilizzo degli ACE-inibitori a partire dalle prime fasi di un infarto miocar- dico acuto, già dimostrata nella popolazione generale, ne esce rafforzata dai dati di que- sto studio, in particolare nella popolazione diabetica.

A DENO - ASSOCIATED VIRAL

VECTOR - MEDIATED HUMAN VASCULAR ENDOTHELIAL GROWTH FACTOR GENE TRANSFER STIMULATES ANGIOGENESIS AND WOUND HEALING IN THE GENETICALLY DIABETIC MOUSE

M Galeano, B Deodato, D Altavilla, D Cucinotta, N Arsic, H Marini, V Torre, M Giacca, F Squadrito

Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica e di Farmacologia, Dipartimento di Medicina Interna, Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Università di Messina; Laboratorio Medicina Molecolare, ICGEB Trieste Diabetologia 46: 546-555, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Valutare l’efficacia della terapia genica, mediante un vettore virale che esprime il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF), nella riparazione delle lesioni cutanee indotte sperimentalmente nell’animale geneticamente diabetico.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Precedenti ricerche, anche del nostro gruppo, avevano dimostrato che un difetto dell’e- spressione genica e della produzione locale di VEGF è presente nelle lesioni cutanee del diabete mellito, sia umano sia sperimentale e possono contribuire a spiegare il difetto di guarigione delle ferite ( wound healing ) che caratterizza questa malattia.

Sintesi dei risultati ottenuti

Abbiamo documentato che il trattamento con il vettore virale che esprime il gene per il VEGF aumenta in loco l’espressione genica e la produzione del fattore di crescita e, attraverso que- sta via, migliora gli eventi istologici alla base del processo di cicatrizzazione e abbrevia i tempi di guarigione delle ferite indotte chirurgicamente in topi geneticamente diabetici.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

Essi rappresentano la conferma che un difetto della produzione di VEGF contribuisce in maniera determinante all’alterato wound healing presente in questo modello sperimentale di diabete e, soprattutto, che esso può essere corretto mediante terapia genica locoregiona- le.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Va valutato se anche nell’uomo è determinante questo difetto di produzione di VEGF e se la sua correzione migliora la prognosi delle ulcere diabetiche non vascolari.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

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L OW INCIDENCE OF END - STAGE RENAL DISEASE AND CHRONIC RENAL FAILURE IN TYPE 2 DIABETES

G Bruno, A Biggeri*, F Merletti, G Bargero**, S Ferrero, G Pagano, P Cavallo Perin

Università di Torino; *Università di Firenze; **Ospedale Santo Spirito, Casale Monferrato (Al) Diabetes Care 26: 2353-2358, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

L’obiettivo era quello di valutare il tasso di incidenza di insufficienza renale terminale e di insufficienza renale cronica, nonché i marcatori predittivi di tali condizioni, in una coor- te di diabetici di tipo 2.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Sebbene il diabete mellito stia diventando la principale causa di insufficienza renale ter- minale nei Paesi industrializzati, pochi studi sono stati condotti su pazienti diabetici di tipo 2 di origine caucasica; tali studi si basavano su casistiche cliniche potenzialmente selezionate per gravità di malattia o su gruppi etnici segregati.

Sintesi dei risultati ottenuti

Sono stati seguiti 1408 pazienti diabetici di tipo 2 per un periodo di 6,7 anni.

L’incidenza/1000 anni-persona di insufficienza renale terminale e di IRC è risultata rispet- tivamente di 1,04 e di 7,63. Sono predittivi di progressione di malattia l’ipertensione arteriosa, la pressione diastolica, il BMI e AER.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

Tali risultati hanno sottolineato che il rischio individuale di sviluppare insufficienza rena- le cronica o terminale è relativamente basso; i valori di AER e di pressione diastolica sono i più potenti fattori predittivi di progressione di malattia.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Il follow-up della coorte di Casale Monferrato consentirà di valutare il ruolo predittivo a lungo termine dell’AER e le interrelazioni sia con i fattori di rischio cardiovascolare classi- ci, sia con il fibrinogeno.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Poiché il rischio individuale di un paziente diabetico di sviluppare insufficienza renale cronica o terminale è basso, per ridurre l’incidenza di tale condizione è necessario atti- vare programmi di prevenzione primaria.

R OLE OF MONITORING IN MANAGEMENT OF ACUTE ISCHEMIC STROKE PATIENTS

A Cavallini, G Micieli, S Marcheselli, S Quaglini Unità Complessa Malattie Cerebrovascolari, Stroke Unit, IRCCS Fondazione Istituto Neurologico C. Mondino, Pavia Stroke 34: 2599-2603, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Scopo dello studio è stato quello di verificare se il monitoraggio in continuo delle fun- zioni vitali, in pazienti con ictus ischemico acuto, sia in grado di migliorare l’outcome in termini di mortalità e disabilità.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

È ormai noto come il ricovero del paziente con ictus presso strutture dedicate (Stroke Unit, SU) riduca significativamente mortalità, disabilità e istituzionalizzazione, ma non vi è ancora un accordo unanime sull’organizzazione delle stesse e in particolare sulla neces- sità di un monitoraggio in continuo dei parametri vitali.

Sintesi dei risultati ottenuti

Un outcome buono (Rankin scale mod 0-3) è stato osservato nell’85% dei casi ricovera- ti in SU e nel 58% dei soggetti in CU. I pazienti ricoverati in SU hanno presentato una più elevata frequenza di complicanze che hanno richiesto un intervento medico, ma di minore durata e con esito migliore.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

Questo studio, di tipo prospettico, ha dimostrato come il monitoraggio rappresenti un elemento indispensabile e caratterizzante la Stroke Unit essendo in grado di per sé di aumentare di 2,5 volte la probabilità di un buon recupero funzionale nel soggetto colpi- to da primo ictus ischemico.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Sono necessari studi più ampi che, qualora confermassero questi risultati, renderebbero indispensabile una revisione della definizione di Stroke Unit che dovrebbe contemplare, tra i requisiti minimi indispensabili, anche il monitoraggio.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

I nostri risultati sottolineano l’importanza di garantire al paziente con stroke un ricovero

il più precoce possibile presso strutture dedicate, possibilmente dotate di monitoraggio,

al fine di ottimizzare il recupero funzionale.

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S ECONDARY PREVENTION OF STROKE IN

I TALYA CROSS - SECTIONAL SURVEY IN FAMILY PRACTICE

A Filippi, AA Bignamini, E Sessa, F Samani, G Mazzaglia

Health Search, Istituto di Ricerca della SIMG

Stroke 34: 1010-1014, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Abbiamo utilizzato i dati presenti nel database di Health Search per valutare il manage- ment della prevenzione secondaria dei pazienti con una diagnosi registrata di stroke o TIA. In particolare abbiamo deciso di analizzare i trattamenti antipertensivi e le prescri- zioni di antiaggreganti piastrinici e di anticoagulanti orali.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Precedentemente a questo lavoro non erano state condotte ricerche per valutare il com- portamento dei medici di medicina generale nel campo della prevenzione secondaria.

Sintesi dei risultati ottenuti

La prevenzione secondaria dei pazienti con eventi cerebrovascolari da parte dei medici di medicina generale può essere migliorata. Il primo obiettivo è quello di aumentare il controllo della pressione arteriosa: oltre un terzo dei pazienti non ha un valore di PA regi- strato, dei rimanenti il 58,7% presenta PA > 140/90 mmHg (17,8% PA > 160/100 mmHg). Anche l’uso di antiaggreganti piastrinici e anticoagulanti orali è subottimale: il 28% dei pazienti non ha ricevuto la prescrizione di nessuno di questi farmaci.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

Queste informazioni sono rilevanti sia perché fanno luce su aspetti importanti della pre- venzione secondaria prima sconosciuti sia perché possono rappresentare la base per ini- ziative tese a modificare l’attuale pratica in medicina generale.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Valutare nel lungo periodo l’incidenza di nuovi attacchi di TIA o stroke e la mortalità corre- lata nei soggetti adeguatamente controllati e in quelli senza adeguata prevenzione secon- daria. Valutare la ricaduta delle iniziative tese al miglioramento della pratica preventiva.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Al momento non sono state condotte ulteriori ricerche per verificare se ci siano state rica- dute sulla pratica clinica quotidiana. I dati ottenuti sono peraltro stati utilizzati nell’am- bito di iniziative di formazione.

A NALISI DELLA MODULAZIONE SIMPATICA CARDIACA NELL ’ OBESITÀ IN ETÀ ADOLE -

SCENZIALE

F Rabbia, B Silke, A Conterno, T Grosso, B De Vito, I Rabbone, L Chiandussi, F Veglio

Centro per lo Studio e la Terapia dell’Ipertensione Arteriosa, Ospedale S. Vito, Università di Torino; Dipartimento di Pediatria, Università di Torino; Trinity College and St. James Hospital, Dublin, Ireland

Obesity Research 11: 541-548, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

Cercare di dare un ulteriore contributo alla conoscenza dei meccanismi alla base dell’i- pertensione associata all’obesità, in particolare al ruolo del sistema nervoso simpatico.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Numerosi lavori hanno evidenziato la presenza di un’alterazione del pattern autonomico come possibile causa dell’ipertensione indotta dall’obesità. Tuttavia, vi sono dati contrastanti. Questi dati controversi potrebbero essere spiegati dalla durata dell’obesità. Infatti, un recente lavoro francese condotto su un modello animale di cani sottoposti a dieta ipercalorica ha messo in evidenza un andamento difasico del simpatico nelle diverse fasi dell’obesità. Una fase precoce dell’obesità caratterizzata da rapido incremento di peso e da un aumentato tono simpatico, sarebbe seguita da una fase tardiva, di stabilizzazione con riduzione del tono simpatico ai livelli pre-obesità.

Sintesi dei risultati ottenuti

È stato studiato un gruppo di 50 adolescenti obesi e un gruppo di coetanei normopeso.

I ragazzi obesi sono stati divisi in tre gruppi in base alla durata di obesità, rispettivamen- te obesità di breve (< 4 anni), intermedia (> 4 e < 7), e lunga durata (> 7 anni). Tutti i ragazzi sono stati sottoposti a Holter pressorio, cardiaco 24 ore e a ecocardiogramma per analisi della HRV in dominio della frequenza, del tempo e con metodiche non lineari. È stata evidenziata una marcata e persistente riduzione del tono vagale in tutti e tre i grup- pi di obesi, mentre il tono simpatico mostrava un andamento difasico caratterizzato da un marcato aumento nei soggetti con obesità recente e un decremento negli altri due gruppi con ritorno a valori pressoché normali nel gruppo con obesità di lunga durata.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

I dati ottenuti da noi sull’uomo confermerebbero le evidenze sperimentali di una diffe- rente modulazione del pattern autonomico cardiaco nelle diverse fasi dell’obesità. È pos- sibile che nelle prime fasi dell’obesità uno stimolo, quale per esempio quello insulinico, agisca da attivatore della modulazione simpatica cardiaca e della demodulazione vagale e perciò agisca come primum movens nello sviluppo dell’ipertensione arteriosa.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Poter studiare pazienti obesi in stadio molto iniziale. Studiare gli effetti della dieta e del- l’attività fisica.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

L’esistenza di un diverso comportamento del sistema nervoso autonomico durante la

storia naturale dell’obesità potrebbe condizionare tempi e modi di intervento.

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E FFETTO BENEFICO A LUNGO TERMINE DEL TRAPIANTO DI ISOLE PANCREATICHE SULLA MICRO - E MACROANGIOPATIA DIA -

BETICA IN PAZIENTI AFFETTI DA DIABETE DI TIPO 1 GIÀ TRAPIANTATI DI RENE

L ONG - TERM BENEFICIAL EFFECT OF ISLET TRANSPLANTATION ON DIABETIC MACRO / MICROANGIOPATHY IN TYPE 1

DIABETIC KIDNEY - TRANSPLANTED PATIENTS

P Fiorina, F Folli, F Bertuzzi, P Maffi, G Finzi, M Venturini, C Socci, A Davalli, E Orsenigo, L Monti, L Falqui, S Uccella, S La Rosa, L Usellini, G Properzi, V Di Carlo, A Del Maschio, C Capella, A Secchi

Dipartimento di Medicina Interna, Radiologia, Chirurgia Generale Istituto Scientifico San Raffaele;

Dipartimento di Anatomia Patologica, Università dell’Insubria;

Dipartimento di Medicina Interna, Università dell’Aquila

Diabetes Care 26: 1129-1136, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

La ricerca si è rivolta a capire l’effetto del trapianto di isole sulle complicanze, in partico- lare sulla microangiopatia diabetica.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Prima del nostro lavoro nessuno aveva studiato le complicanze diabetiche dopo il tra- pianto di isole pancreatiche.

Sintesi dei risultati ottenuti

Il gruppo di pazienti con isole funzionanti (SI-K) mostrava una sopravvivenza migliore rispetto al gruppo con isole non funzionanti (UI-K), un più basso rate di mortalità cardiovascolare e una progressione inferiore dello spessore medio intimale con ridotti segni di danno endoteliale alla biopsia cutanea. Inoltre, il gruppo SI-K mostrava livelli più alti di vasodilatazione endotelio- dipendente (EDD) rispetto al gruppo UI-K group, più alti livelli di NO basale, e ridotti livelli di vWF e DDF. Il rapporto C-peptide/creatinine correla positivamente con EDD e NO, e negati- vamente con vWF e DDF. Il trapianto di isole migliora la sopravvivenza, la mortalità cardiova- scolare e la funzione endoteliale in pazienti affetti da diabete di tipo 1 già trapiantati di rene.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

Rispetto al problema iniziale i nostri dati hanno evidenziato con forza che il trapianto di isole è safe, e riduce lo sviluppo della macro- e microangiopatia con importante impatto sulla sopravvivenza del paziente.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

Tra le prospettive di ricerca vi è sicuramente quella di capire se il nostro dato è attribuibile al parziale miglioramento del compenso glicometabolico oppure alla secrezione di C-pep- tide che viene in qualche modo ristabilita. Anche alla luce del fatto che recentemente al C- peptide è stato attribuito un ruolo nella prevenzione delle complicanze del diabete.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

Nella pratica clinica quotidiana i pazienti diabetici uremici trapiantati di rene (e cioè il 30% di tutti i trapiantati di rene) dovrebbero essere considerati per il trapianto di isole.

L A RIDOTTA ESPRESSIONE DEI GENI

UCP2 ED UCP3 È ASSOCIATA ALLA RIDUZIONE DEI TRIGLICERIDI INTRAMIO -

CITICI IN SOGGETTI AFFETTI DA OBESITÀ GRAVE SOTTOPOSTI A DERIVAZIONE BILIOPANCREATICA

G Mingrone, G Rosa, AV Greco, M Manco, N Vega**, M Hesselink***, M Castagneto*, P Shrawen***, H Vidal**

Ist. Clinica Medica e *Clinica Chirurgica CNR, UCSC, Roma;

**Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (INSERM), Lyon, France; ***Dept.

Human Biology and Movement Sciences, NUTRIM, Maastricht University, The Netherlands Obesity Research 11: 632-640, 2003

A quale particolare problema si è rivolta la ricerca svolta?

La ricerca ha dimostrato come la diversa disponibilità di lipidi, quale substrato energeti- co, potesse influire sull’espressione nel tessuto muscolare scheletrico delle proteine dis- accoppianti, UCP2 ed UCP3, sulla spesa energetica a riposo (REE) e delle 24 ore (24hEE), sul quoziente respiratorio (npRQ) e sulla sensibilità insulinica in 11 soggetti affetti da obesità grave (BMI > 40 kg/m

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) sottoposti a diversione bilio-pancreatica (DBP), inter- vento chirurgico che causa il malassorbimento preferenziale dei lipidi.

Qual era lo stato delle conoscenze precedentemente al vostro lavoro?

Nel mitocondrio, le UCPs sono proteine deputate al trasportato di protoni nei processi di produzione energetica. I fattori che ne regolano l’espressione sono poco noti.

Sintesi dei risultati ottenuti

Dopo DBP, si osservava la riduzione delle concentrazioni plasmatiche di trigliceridi e acidi grassi liberi (FFA); del contenuto di trigliceridi intramuscolare (IMTG) (~ 54%), e l’au- mento della sensibilità insulinica. L’introito calorico era aumentato mentre la quota di energia metabolizzabile era ridotta a causa della steatorrea; la EE e la 24hEE non erano modificate; il npRQ era aumentato indicando un aumento dell’ossidazione dei carboi- drati. L’espressione di UCP2 e 3 era ridotta (~− 35% e ~− 28%). Le modificazioni di UCP2 e 3 correlavano con quelle di IMTG e con l’aumento del npRQ. In un modello di regres- sione multipla, IMTG era la variabile che più influenzava l’espressione di UCPs rispetto alla massa grassa, alla massa magra e agli FFA.

In che modo questi risultati hanno permesso di approfondire le conoscenze riguar- do al problema iniziale?

I nostri risultati dimostrano come i lipidi accumulati nel tessuto muscolare siano i più effi- cienti regolatori dell’espressione di UCPs.

Quali sono le prospettive di ricerca ulteriore sull’argomento?

I meccanismi molecolari mediante cui IMTG influenzano l’espressione di UCPs potreb- bero essere in parte gli stessi coinvolti nell’alterata risposta molecolare all’insulina e sono meritevoli di più approfondite ricerche.

Vi sono ricadute dei vostri risultati sulla pratica clinica quotidiana?

La conoscenza di tali meccanismi potrebbe condurre a interventi terapeutici più mirati

per l’obesità.

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