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Lectio divina. Ab 1,2-3;2,2-4; Sl 94; 2Tm 1, ; Lc 17, 5-10

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Lectio divina

XX X XV VI II I D Do om me en n ic i ca a d de el l T T em e mp po o O O rd r di in na ar r io i o A An nn no o C C

Ab 1,2-3;2,2-4; Sl 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17, 5-10

La forza della fede

Il granello di senapa si presenta minuscolo: a guardarlo, non c'è cosa più insignificante, ma, se lo assaggi, non c'è nulla di più piccante. E questo, cosa rappresenta se non l'ardore della fede, portata al sommo grado nella Chiesa, e la forza che in tal fede è insita? (Agostino, Disc. 246)

Le tre letture di questa XXVII domenica, giornata dedicata ai Catechisti tra i grandi eventi dell’Anno della Fede, convergono appunto sul tema della fede; come preghiera, come dono, come testimonianza, come attesa, come servizio; come forza più potente delle contraddizioni della storia (Ab), più forte della sofferenza e della prigionia (Paolo) e perfino delle leggi della natura (Luca).

La prima lettura propone la fede del giusto di fronte a una storia che vede il trionfo degli empi: il giusto vivrà per la fede. L’oracolo affidato ad Abacuc promette una consolazione davanti al predominio del popolo di Babilonia, popolo che viene descritto come un popolo ateo, che pone la sua fiducia in se stesso. Contrapposta a quest’arroganza piena di sé è la fede del giusto che dà credito a IHWH. Il versetto “Il giusto vivrà per la sua fede” verrà poi ripreso e riletto nella sua pienezza da Paolo, nel Nuovo Testamento. Come nel salmo Uno si evidenza l’antitesi tra un uomo mosso dalla cupidigia e dall’ambizione, che si gonfia con la sua arroganza e con quello che inghiotte, o con i suoi successi; ma non trionferà perché non è retto. E c’è all’opposto un uomo giusto e innocente, che non ricorre alla forza, perché si fida di Dio, e per questo salverà la sua vita. Seguono in Abacuc i 5 guai che cantano il fallimento dell’arroganza, prima di cantare alla fine del libro un atto di fiducia: Ma io gioirò nel Signore, Esulterò in Dio mio Jesu, mio Salvatore

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Il Vangelo ci conduce lungo la salita che porta a Gerusalemme. Nella sezione precedente la parola che faceva da legame tra i diversi episodi era la parola avarizia, e il rapporto con le ricchezze; qui fa da legame tra i diversi insegnamenti la parola fede.

Il brano è divisibile in due sezioni. Una prima in cui gli Apostoli chiedono che sia aumentata la loro fede. La prima osservazione da fare è che la risposta di Gesù è rivolta a chi gli ha posto la domanda, ai dodici apostoli, e attraverso loro a tutti quelli che nella Chiesa hanno un posto di responsabilità; a questi Gesù insegna lo stile del servizio, contrapposto al potere. La risposta è composta dal detto sul grano di senape e dall’esempio del servo mandato al lavoro e poi rientrato in casa. Il paragone del grano di senape è usato in Matteo per descrivere la realtà del regno, di fronte al possibile scandalo dei discepoli; qui lo scandalo potrebbe essere davanti all’apparente insignificanza della fede, che è il contrario dell’arrogante affermazione di sé, piuttosto è il confidente abbandono di sé a un Altro. La fede si appoggia su un sentire umile di sé che permette di concepire la vita come servizio, e non come potere. E’ questo l’insegnamento che Gesù desidera dare ai suoi Apostoli, a chi esercita una responsabilità.

Dall’insieme delle letture possiamo ricavare anche una specie d’identikit dell’apostolo, del servitore della Parola. E’ un uomo capace di sostenere l’attesa, vigilando nella notte, come Abacuc, custode fedele della promessa, che porta a Dio in forma di preghiera lo scandalo della storia e delle sue contraddizioni.

E‘ un uomo che conosce l’apparente piccolezza e l’immensa potenzialità della sua fede, la sua forza di trasformazione, la sua capacità di farsi obbedire anche dalle leggi della natura.

E’ un uomo animato da uno spirito di forza e d’intelligenza, di una carità prudente e che sa portare il peso della testimonianza, sa essere compagno nella sofferenza e per il Vangelo. Si modella sugli insegnamenti ricevuti e custodisce il dono della chiamata. E con tutto questo si reputa servo inutile.

«Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite:

siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi» (Giovanni Paolo I, Allocutio, 6 settembre 1978).

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Co C o mm m me en n t t i i

I Agostino

Da D al ll le e Q Q ue u es st t io i on ni i s su ul l V V an a ng ge el l o o s s ec e co on nd do o L Lu uc ca a, , L Li ib br ro o S Se ec co on nd do o

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La fede è luce per chi viene illuminato, riposo per chi ha lottato, patria per chi ritorna, cibo per chi dev’essere saziato, corona per chi ha riportato vittoria.

39. 1. I discepoli gli dissero: Signore, aumenta la nostra fede. Può certo ritenersi che chiesero un aumento di quella fede con cui si crede alle cose che non si vedono. Tuttavia si può anche parlare di fede quando si tratta di credere non a delle parole ma a delle realtà già presenti: la qual cosa avverrà quando ai santi sarà dato contemplare in se stessa la sapienza di Dio con cui sono state create tutte le cose (Cf. Sal 103, 24), divenuta loro manifesta con visione diretta. Di questa fede reale e di questa luce che si rende presente [ai santi] parla, forse, l’apostolo Paolo quando dice:In esso si rivela la giustizia di Dio di fede in fede (Rm 1, 17). E in un altro passo: Quanto a noi, contemplando a viso scoperto la gloria del Signore saremo trasformati nella stessa immagine, passando di gloria in gloria, come mossi dallo Spirito del Signore (2 Cor 3, 18). Come in questo passo dice: Di gloria in gloria, così nell’altro: Di fede in fede. E, quanto alla gloria, si passa dalla gloria del Vangelo dal quale sono ora illuminati coloro che credono alla gloria della stessa immutabile verità che diverrà manifesta a coloro che nell’aldilà saranno trasformati e godranno della sua pienezza. Lo stesso è della fede. Dalla fede delle parole per le quali ora crediamo a ciò che ancora non vediamo si passa alla fede nella sostanza delle cose, con cui cioè si possiede per sempre ciò che ora crediamo. In armonia con questa spiegazione è anche il detto di Giovanni nella Lettera ai Parti: Carissimi, già ora siamo figli di Dio ma non è ancora apparso ciò che saremo. Sappiamo tuttavia che, quando egli apparirà, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è (1 Gv 3, 2). In forza di che siamo ora figli di Dio se non perché, credendo nel suo nome, ci è stato dato il potere di diventare figli di Dio (Cf. Gv 1, 12) e così lo possiamo vedere, sia pure in maniera enigmatica? E come potremo nell’aldilà essere simili a lui se non perché, come dice Giovanni, noi lo vedremo così come egli è? La quale frase si identifica con l’altra: Ma allora a faccia a faccia (Cf. 1 Cor 13, 12).

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39. 2. Parecchi non comprendono come ci possa essere una fede nella verità già in sommo grado a noi presente; quindi ritengono che nostro Signore non diede una risposta ai discepoli in ciò che essi avevano chiesto. Chiedendo i discepoli: Signore, accresci la nostra fede, egli disse loro: Se aveste una fede come un granellino di senape direste a questo gelso:

Sràdicati e bùttati in mare, ed esso vi obbedirebbe. E poi continuò: Chi di voi, supposto che abbia un servo ad arare o a pascolare il gregge, quand’egli ritorna dal campo gli dice subito: Vieni e mettiti a tavola? Non gli dice forse: Preparami la cena; rimbòccati le maniche e servimi finché non abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Avrà forse riguardo per quel servo perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Credo proprio di no. Così sarà di voi. Quando avrete eseguito tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo servi inutili; abbiamo fatto ciò che era nostro obbligo fare. Con difficoltà si riesce a vedere cos’abbia a spartire tutto questo con la domanda: Signore, accresci la nostra fede, se non s’intende bene cosa significhi quel: di fede in fede (Rm 1, 17). E il significato dell’espressione è che dovevano lasciarsi trasferire dalla fede attuale, con cui si serve Dio, a quell’altra fede dove si gode di Dio. Cresce infatti la fede se in un primo momento si crede alle parole della predicazione e poi alla realtà delle cose che appaiono in se stesse. Questa contemplazione comporta una somma quiete e sarà donata nel Regno di Dio giunto alla fase eterna; tuttavia la somma quiete di lassù sarà il premio delle fatiche compiute per dovere nel servizio della Chiesa. È detto pertanto che quel servo ara e pasce il gregge nel campo, cioè compie opere riguardanti la presente vita terrena e serve a degli uomini sebbene stolti come bruti. Tuttavia dopo quelle fatiche tornerà certo a casa, cioè si riunirà alla Chiesa ma per lavorare anche lì servendo il suo Padrone finché non abbia mangiato e bevuto. Egli infatti perché aveva fame cercò dei frutti in quell’albero (Cf. Mt 21, 18-19) e perché aveva sete chiese dell’acqua alla donna di Samaria (Cf. Gv 4, 7). Mangi dunque e beva la risposta di fede a lui data dalle genti pagane e a lui presentata dai suoi servi, intendendo per " suoi servi" coloro che si occupano nel predicare il Vangelo.

39. 3. Rientra in questa tematica anche la risposta data antecedentemente con la parabola del granellino di senapa, secondo la quale i cristiani debbono avere come prima cosa la fede necessaria per la vita presente. Finché è un tesoro nascosto in vasi di creta (Cf. 2 Cor 4, 7), sembra cosa piccolissima, ma è dotata di una fortissima vitalità e germoglia (Cf. Mt 13, 31-32) per impulso del nostro Signore Gesù Cristo. Egli vuol essere alimentato attraverso il ministero dei suoi servi, e cioè attraverso loro far passare i credenti nel suo corpo, dopo averli in certo senso uccisi e mangiati. Dopo di che anche quaggiù li pasce lui stesso con la parola della fede e il sacramento della sua passione. Egli infatti non è venuto per essere servito ma per servire (Cf. Mt 20, 28). Dicano dunque tali servi a quel gelso in base alla parabola del granellino di senapa: si rivolgano cioè allo stesso Vangelo della croce del Signore che con i frutti di sangue pendenti dal legno (si pensi qui alle ferite) avrebbe fornito il cibo ai popoli del mondo, e gli dicano di sradicarsi dal giudaismo

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incredulo e di traslocarsi e trapiantarsi nel mare dei gentili. È infatti con tale servizio, effettuato in casa, che essi saranno veri ministri del Signore, affamato e assetato (Cf. Mt 25, 35. 40).

39. 4. Giunti alla fine chiedano pure di godere eternamente del cibo incorruttibile della divina sapienza, e dicano: Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che era nostro dovere. Non ci resta da fare altro. Abbiamo terminato la corsa, abbiamo sostenuto sino alla fine la lotta; ci attende la corona della giustizia (Cf. 2 Tm 4, 7-8.). Tutto infatti può dirsi di quell’ineffabile godimento della verità, e con tanto maggior ragione si può dire ogni cosa quanto minore è la capacità con cui si è degni parlarne, anche per un poco. Essa infatti è luce per chi viene illuminato, riposo per chi ha lottato, patria per chi ritorna, cibo per chi dev’essere saziato, corona per chi ha riportato vittoria. E concludendo, tutti quei beni temporali e passeggeri che l’infedele nel suo errore desidera trovare, certo parzialmente, nella creatura, tutti quanti e tutti insieme e più veri e stabili in eterno troverà l’autentica religiosità dei figli nel Creatore di tutte le cose.

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II Agostino

Da D al l D Di is s co c or r so s o 2 22 23 3/ /H H , , n ne el ll la a v ve eg gl li ia a d di i P Pa as sq qu ua a

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Monti di Dio sono i santi Apostoli, che han reso per noi sacra questa santissima notte.

1. Celebriamo la solennità dell'umiliazione del Signore, il quale umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce (Fil 2, 8). Sul suo esempio anche noi in questa notte santa digiunando, vegliando e pregando umiliamo le nostre anime; e non si può dire che con questa umiliazione sia in contrasto la manifestazione di gioia che vedete. Un grano di senapa che altro è se non una manifestazione di piccolezza? Eppure per questo grano i monti si sono trasferiti in mezzo al mare (Cf. Sal 45, 2); cioè quei grandi predicatori del Vangelo che sono i santi Apostoli dalla Giudea si sono trasferiti tra le genti e hanno conquistato il cuore stesso del mondo, cioè il modo di pensare degli uomini; di questi monti è detto: La tua giustizia è come i monti di Dio (Sal 35, 7); di essi è detto: Tu illuminerai meravigliosamente dai monti eterni (Sal 75, 5). Infatti questi monti, con le loro cime accese e splendenti, hanno portato in mezzo al mare, ossia nella fede delle genti, tanto se stessi, quanto la luce che illumina ogni uomo (Cf. Gv 1, 9), luce che è il monte dei monti, il re dei re, il santo dei santi. Si è così adempiuto in essi quel che aveva predetto il Profeta: Avverrà negli ultimi tempi che il monte del Signore sarà manifestato, stabilito sopra le cime di [tutti] i monti (Is 2, 2), e anche quel che aveva detto il Signore stesso: Se voi avrete fede pari a un grano di senapa, potrete dire a questo monte: Togliti e buttati in mare e ciò avverrà (Mt 17, 19).

Son questi monti che hanno reso per noi sacra questa notte in cui il Signore, che era sepolto, è risuscitato; in questo modo il grano di senape sepolto nel momento della sua umiliazione non si pose in vista; ma poi nel germogliare e nel crescere superò tutte le altre realtà, estendendo i suoi rami in ogni direzione e invitando a rifugiarsi e a riposarsi in lui, come se fossero degli uccellini, tutti coloro che hanno il cuore gonfio. Questo monte abiti anche nel vostro cuore: esso non soffre nei luoghi piccoli, purché vi sia la carità che ne dilata gli spazi. Rivolti al Signore.

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III Agostino

Da D al l C C om o mm me en nt to o a al l V V an a ng ge el lo o d di i G Gi io ov va an nn ni i

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Se Cristo non fosse risorto, la sua morte a nulla ci avrebbe giovato.

3. Cosa vuol dunque indicare? Ogni anno siamo soliti parlarvene; e, come la lettura si effettua in forma solenne, così sia solenne il tono del discorso che ne ricaviamo. È da indagarsi perché mai Cristo Signore abbia rivolto parole come queste a una donna che già l'aveva riconosciuto. Prima infatti le aveva detto: Chi cerchi? perché piangi (Gv 20, 15). Essa però credeva che fosse il custode dell'orto. E in effetti, se si pensa che siamo erbe di sua coltura, Cristo è un custode di orti. Non è infatti un lavoratore di orti colui che sparse il granello di senapa? quel granello cioè così piccolo ma insieme così rigoglioso che crebbe e si innalzò e divenne una pianta talmente grande che persino gli uccelli del cielo poterono fermarsi sui suoi rami. E lo stesso Signore diceva: Se avrete la fede come un granello di senapa (Mt 17, 20). Il granello di senapa si presenta minuscolo: a guardarlo, non c'è cosa più insignificante, ma, se lo assaggi, non c'è nulla di più piccante. E questo, cosa rappresenta se non l'ardore della fede, portata al sommo grado nella Chiesa, e la forza che in tal fede è insita? Giustamente dunque lo chiamò custode dell'orto e, se gli diede il titolo di Signore, fu per un motivo di riguardo: volendo ottenere un favore, lo chiamò Signore. Gli disse: Se tu l'hai portato via, mostrami dove l'hai messo, in modo che io possa andare a prenderlo (Gv 20, 15). È come se dicesse: Per me si tratta di una persona indispensabile, per te no. O donna, credi che ti sia indispensabile Cristo morto? Guarda com'egli è vivo! Tu cerchi un morto, e il Signore vedeva che lo si cercava morto (Cf. Lc 24, 5). Però Cristo non ci avrebbe recato alcun giovamento se fosse restato morto, ma solo in quanto risuscitò da morte (Cf. 1 Cor 15, 14). Ecco pertanto che, mentre lo si cercava morto, lui si fece vedere vivo. In che senso vivo? La chiamò per nome: Maria; e lei, non appena ebbe udito il suo nome, rispose:

Rabboni. Il custode dell'orto poteva, sì, dire: Chi cerchi? perché piangi? ma Maria poteva dirlo solo Cristo. La chiamò per nome colui che l'aveva chiamata al regno dei cieli: pronunziò infatti quel nome che egli aveva scritto nel suo libro: Maria. E lei: Rabboni, cioè Maestro. Aveva riconosciuto colui dal quale aveva ricevuto la luce per conoscerlo. In colui che prima ella riteneva essere il custode dell'orto ora vedeva Cristo. Le disse il Signore: Non toccarmi, poiché non sono ancora salito al Padre mio (Gv 20, 17).

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IV

Giovanni Paolo II

Si S ia am mo o s s er e r v v i i i in nu ut t il i li i

1. Dal Discorso ad ex alunni del Collegio Belga a Roma - 31/03/1979

Giovanni Paolo II incontra i suoi antichi compagni di studio presso il Collegio Belga.

Cari Amici,

L’Eucaristia che oggi celebriamo insieme è il segno di una particolare unità con Cristo, Sacerdote unico ed eterno, che “entrò una volta per sempre nel santuario... con il proprio sangue” (Eb 9,12). Lo stesso Cristo è sempre presente nella Chiesa “sino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Abita in essa, riunendo il popolo di Dio intorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia. Abita in essa attraverso il nostro servizio sacerdotale. Poiché oggi ci troviamo così intorno all’altare, in questa comunione che abbiamo formato tempo fa al Collegio belga a Roma, i nostri cuori sono pieni di gratitudine per il dono della vocazione sacerdotale, perché egli ci ha scelti perché noi andassimo e portassimo frutto (Gv 15,16), perché, affidandoci i suoi misteri, ci ha affidato gli uomini che hanno “la redenzione mediante il suo sangue” (Ef 1,7). E guardando tutto ciò con gli occhi della fede, noi avvertiamo tutta la nostra indegnità e siamo sempre pronti a ripetere: “Siamo servi inutili”

(Lc 17,10). Noi avvertiamo sempre anche la grandezza del Dono e ringraziamo Dio di questo Dono. “Celebrate il Signore, perché è buono” (Sal 105,1). Oggi desideriamo ridirci reciprocamente questa gratitudine. Il Signore vuole che noi sappiamo essere riconoscenti verso gli uomini, che guardiamo alla nostra vita sotto l’aspetto dei doni ricevuti attraverso la mediazione degli uomini, dei nostri fratelli.

2. Discorso ai sacerdoti a Cestokowa - 10 giugno 1979

Cari sacerdoti polacchi riuniti oggi a Jasna Gora, ecco i principali pensieri che desideravo condividere con voi. I sacerdoti polacchi hanno la loro propria storia, che hanno scritto, in stretto legame con la storia della Patria, le intere generazioni dei “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1), che ha dato la nostra terra. Abbiamo sentito sempre un profondo legame col Popolo di Dio, con questo popolo in mezzo al quale siamo

“scelti” e per il quale veniamo “costituiti” (cf. Eb 5,1). La testimonianza della fede viva che attingiamo al Cenacolo, al Getsemani, al Calvario; della fede succhiata col latte dalle nostre madri; della fede consolidata tra le dure prove dei nostri connazionali, è la nostra tessera spirituale; il fondamento della nostra identità sacerdotale. Potrei nell’incontro odierno

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non ricordare le migliaia di sacerdoti polacchi, che durante l’ultima guerra hanno perso la vita, soprattutto nei campi di concentramento?

Permettete però di limitare i ricordi che mi si affollano nella mente e nel cuore. Dirò soltanto che questa eredità della fede sacerdotale, del servizio, della solidarietà con la Nazione nei suoi periodi più difficili, che costituisce, in un certo senso, il fondamento della storica fiducia nei sacerdoti polacchi da parte della società, deve essere sempre elaborata da ciascuno di voi e sempre, direi, di nuovo conquistata. Cristo Signore ha insegnato agli Apostoli quale concetto devono avere di sé e che cosa devono esigere da se stessi: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Dovete quindi, cari Fratelli, Sacerdoti Polacchi, ricordando queste parole e le esperienze storiche, avere sempre davanti agli occhi queste esigenze, che provengono dal Vangelo, che sono la misura della vostra vocazione. È un grande bene questo credito di fiducia, che il sacerdote polacco ha nella società quando è fedele alla missione e il suo atteggiamento è limpido e conforme con questo stile, che la Chiesa in Polonia ha elaborato nel corso degli ultimi decenni: lo stile cioè della testimonianza evangelica del servizio sociale. Dio ci assista affinché questo stile non venga esposto a qualsiasi “titubanza”.

3. Dal Discorso su Giovanni Paolo I - 28 agosto 1979

Riflettiamo prima di tutto sull’umiltà di Papa Giovanni Paolo I. Possiamo dire che ciò che colpì profondamente fin dagli anni della sua adolescenza fu la certezza dell’amore di Dio e la grandezza della chiamata al Sacerdozio. Nella sua prima lettera, San Giovanni, il confidente del Divino Maestro, ci svela chi è Dio e quale è il rapporto tra Dio e l’uomo:

“Dio è amore; in questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,8-9). Ecco la grande e definitiva rivelazione che la “parola di Dio” porge all’uomo di tutti i tempi: Dio è amore e la manifestazione che garantisce tale amore è l’Incarnazione del Verbo e la sua morte in Croce. Papa Giovanni Paolo I fu sempre intimamente compreso di questa suprema realtà dell’amore proveniente da Dio e perciò della conseguente necessaria umiltà dell’uomo, che non può accampare diritti o elevarsi in superbia. Inoltre egli fu sempre convinto della gratuità e della immensa preziosità della chiamata al Sacerdozio, e poi all’Episcopato, per cui sempre si ritenne piccolo personalmente, ma grande per l’amicizia e la intimità donate da Gesù stesso: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,15). Perciò egli visse umilmente e insegnò continuamente l’umiltà, e quando Giovanni XXIII lo nominò vostro Vescovo, egli, come voi ben sapete, assunse come motto per lo stemma episcopale la parola

“Humilitas”. Questo fu sempre il suo ideale e, divenuto Papa, nell’udienza del 6 settembre

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si affrettò a dire: “Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi”

(Giovanni Paolo I, Allocutio, 6 settembre 1978: Insegnamenti di Giovanni Paolo I, pp. 51-52).

4. Dalla Lettera ai sacerdoti nel 1996, nel 50° sua ordinazione sacerdotale

Desidero, cari Fratelli nel sacerdozio, invitarvi a partecipare al mio Te Deum di ringraziamento per il dono della vocazione. I giubilei, voi lo sapete, sono momenti importanti nella vita di un sacerdote: rappresentano quasi delle pietre miliari nel cammino della nostra vocazione. Secondo la tradizione biblica, il giubileo è tempo di gioia e di rendimento di grazie. L’agricoltore rende grazie al Creatore per i raccolti; in occasione dei nostri giubilei, noi vogliamo ringraziare l’eterno Pastore per i frutti della nostra vita sacerdotale, per il servizio reso alla Chiesa e all’umanità nei diversi luoghi del mondo, nelle condizioni più varie e nelle molteplici situazioni di lavoro, in cui la Provvidenza ci ha voluti e condotti. Sappiamo di essere “servi inutili” (Lc 17,10), tuttavia siamo grati al Signore perché ha voluto fare di noi i suoi ministri.

5. Dal Discorso ai vescovi polacchi 1993

Di fronte ai nuovi compiti, imposti attualmente dall’evangelizzazione nella nostra Patria, la Chiesa polacca non si presenta a mani vuote. Essa infatti è uscita dal periodo di prova del passato arricchita da una grande esperienza: è risultata vittoriosa dal confronto con il totalitarismo ateo marxista; ha difeso con coraggio l’uomo, la sua dignità e i suoi incontestabili diritti; ha pagato con molti sacrifici da parte dei suoi Vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e da molti fedeli laici, il fedele compimento della sua missione. Oggi lo diciamo con umiltà, ripetendo: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”

(Lc 17,10). Dobbiamo ora preoccuparci di non perdere questo inestimabile patrimonio del passato, poiché si tratta di una ricchezza spirituale che deve diventare il fondamento e il lievito dell’attuale evangelizzazione. Questa è anche la ricchezza di cui ha bisogno la Chiesa universale, su cui ha posto la sua attenzione il Sinodo dei Vescovi d’Europa. Esso ci ha ricordato che, nello scambio dei doni spirituali all’interno del nostro continente, anche la Chiesa Polacca può portare un grande e prezioso contributo, a condizione però che essa conservi la sua identità, che rimanga fedele alle proprie radici spirituali. Di fronte ai nuovi compiti dell’evangelizzazione, la Chiesa in Polonia si presenta arricchita da una rinnovata struttura delle Diocesi e delle province ecclesiastiche.

6. Da Redemptoris missio 35-36 -Le difficoltà della missione ad gentes

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35. La missione “ad gentes” ha davanti a sé un compito immane che non è per nulla in via di estinzione. Essa, anzi, sia dal punto di vista numerico per l’aumento demografico, sia dal punto di vista socio-culturale per il sorgere di nuove relazioni, contatti e il variare delle situazioni, sembra destinata ad avere orizzonti ancora più vasti. Il compito di annunziare Gesù Cristo presso tutti i popoli appare immenso e sproporzionato rispetto alle forze umane della Chiesa. Le difficoltà sembrano insormontabili e potrebbero scoraggiare, se si trattasse di un’opera soltanto umana. In alcuni Paesi è proibito l’ingresso dei missionari; in altri è vietata non solo l’evangelizzazione, ma anche la conversione e persino il culto cristiano. Altrove gli ostacoli sono di natura culturale: la trasmissione del messaggio evangelico appare irrilevante o incomprensibile, e la conversione è vista come l’abbandono del proprio popolo e della propria cultura.

36. Né mancano le difficoltà interne al popolo di Dio, le quali anzi sono le più dolorose.

Già il mio predecessore Paolo VI indicava in primo luogo “la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella stanchezza, nella delusione, nell’accomodamento, nel disinteresse e, soprattutto, nella mancanza di gioia e di speranza” (Evangelii nuntiandi, 80). Grandi ostacoli alla missionarietà della Chiesa sono anche le divisioni passate e presenti tra i cristiani, la scristianizzazione in Paesi cristiani, la diminuzione delle vocazioni all’apostolato, le contro-testimonianze di fedeli e di comunità cristiane, che non seguono nella loro vita il modello di Cristo. Ma una delle ragioni più gravi dello scarso interesse per l’impegno missionario è la mentalità indifferentista, largamente diffusa, purtroppo, anche tra cristiani, spesso radicata in visioni teologiche non corrette e improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”. Possiamo aggiungere - come diceva lo stesso Pontefice - che ci sono anche “alibi che possono sviare dall’evangelizzazione. I più insidiosi sono certamente quelli, per i quali si pretende di trovare appoggio nel tale o tal altro insegnamento del Concilio”.

Al riguardo, raccomando vivamente ai teologi e ai professionisti della stampa cristiana di intensificare il proprio servizio alla missione, per trovare il senso profondo del loro importante lavoro lungo la retta via del “sentire cum Ecclesia”.

Le difficoltà interne ed esterne non debbono renderci pessimisti o inattivi. Ciò che conta - qui come in ogni settore della vita cristiana - è la fiducia che viene dalla fede, cioè dalla certezza che non siamo noi i protagonisti della missione, ma Gesù Cristo e il suo Spirito.

Noi siamo soltanto collaboratori e, quando abbiamo fatto tutto quello che ci è possibile, dobbiamo dire: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).

7. Alla chiesa di Volterra 22 settembre 1989

Vi esorto a confidare nella forza vittoriosa della grazia, a coltivare la speranza in essa senza timori, senza perplessità, senza interpretazioni riduttive. Non fermatevi ai risultati appariscenti. Non sta in essi l’ultima Parola di Dio sulle vicende umane. Siate ottimisti

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nonostante tutto, perché il Signore sa quello che fa anche quando voi seminate nel pianto.

Egli vuole adoperare il povero lavoro dei “servi inutili” che siamo noi (Lc 17,10), quale segno e testimonianza della sua misericordia. Per vivere in questo spirito occorre, però, saper accogliere innanzitutto in se stessi i suggerimenti interiori della fede e della carità ed orientare il proprio sforzo verso la conquista di un’autentica santità personale. Il discorso intorno alla santità dei ministri di Dio, delle anime consacrate e dei laici deve essere ribadito e tenuto presente sempre, essendo questo l’essenziale obiettivo della nostra vita e condizione importante dell’efficacia soprannaturale dell’apostolato. La santità è la pienezza ed il culmine di ogni vita cristiana, il traguardo a cui sono chiamati i fedeli di qualsiasi condizione. Essa è il fondamentale messaggio del Concilio Vaticano II a tutto il Popolo di Dio (cf. Lumen Gentium, 40). Orbene, che sarebbe se tale invito, se il “precetto”

della santificazione personale non fosse adeguatamente apprezzato da coloro che servono il Signore nel sacerdozio, nella vita religiosa, nell’apostolato laicale? Che sarebbe di noi, se non facessimo della via della perfezione e della santità l’impegno fondamentale della nostra esistenza?

8. Al santuario di Pompei 1979

Vengo dunque qui, nel santuario di Pompei, nello spirito di questa preghiera per vivere insieme con voi quel segno della profezia di Isaia. E partecipando alla preghiera della Genitrice di Dio, che è “Omnipotentia supplex”, desidero insieme con tutti i pellegrini esprimere ringraziamento per quella molteplice missione, che ultimamente mi è capitato di compiere tra il mese di settembre e di ottobre. Ne ho già parlato più di una volta. Ho ripetuto le parole e i pensieri, che Gesù stesso aveva insegnato agli Apostoli: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). E perciò, tanto più sento il bisogno di ringraziare qui, in questo santuario, Maria e con Maria. E se la mia gratitudine va contemporaneamente anche agli uomini, lo faccio soprattutto perché questo mio servizio di Pietro, servizio papale, essi lo hanno preparato così bene in ginocchio; perché hanno dato ad esso un profondo carattere di preghiera, carattere sacramentale, eucaristico. Potrei pensare, senza commozione, a tanti uomini, spesso giovani, che mediante i sacrifici, le veglie notturne han fatto strada allo Spirito che doveva parlare? Bisogna veramente che ci si ricordi di ciò. Poiché questo è il cuore stesso di quel ministero; il resto è soltanto una manifestazione, che umanamente si può talora leggere troppo superficialmente. Cristo invece ci insegna che il tesoro, cioè il valore essenziale, sta nel cuore (cf. Lc 12,34). Vengo quindi qui per ringraziare di tutto questo. E se vengo anche per chiedere – oh, quanto chiedere! quanto supplicare! – quello che chiedo è soprattutto che la missione della Chiesa, del Popolo di Dio, la missione iniziatasi a Nazaret, al Calvario, nel Cenacolo, si compia nella nostra epoca in tutta la sua originaria nitidezza, e insieme in consonanza coi segni dei nostri

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tempi. Che, sull’esempio della Serva del Signore, io possa – fino a quando piacerà a Dio – rimanere fedele e umile servo di questa missione di tutta la Chiesa e che senta, ricordi e ripeta soltanto questo: che sono un servo inutile.

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V

san Pietro Crisologo

Da D ai i s se er r mo m on ni i

11

Uomo, dà a Colui che ti ha fatto padrone quello che esigi dal servo…

3. Chi di voi, se ha un servo che ara o pascola le pecore, quando questi torna dal campo, subito gli dice: «Vieni, mettiti a tavola», non gli dice piuttosto: «Vieni e cingiti e servimi, finché io mangi e beva, e dopo mangerai e berrai tu»? Come familiare, come domestico, com'è proveniente dall'uso quotidiano, come è comune questo insegnamento! Se chi ascolta è un padrone, riconosce che esige tali prestazioni dal servo; se è un servo, sa di prestare questi servizi al padrone. Infatti il servo, dopo le veglie prima dell'alba, dopo i vari e duri lavori del giorno intero, dopo l'accorrere più volte con timore e ansia, prepara la cena al suo padrone e, cingendosi le vesti, gli offre ciò che ha preparato. Non si insuperbisce perché lo fa, ma trema nel farlo in ogni singola situazione e imbandisce al suo padrone cibi di vario genere, cucinati con ogni arte e di ogni sapore, mentre egli dovrà gustare forse uno spuntino mal cotto e senza sale; porgendo frequenti coppe varia i calici e cambia i vini; ai discorsi lunghissimi di un lunghissimo banchetto sta fermo, sta senza potersi muovere, sta in piedi, perché in tale servizio non è lecito provare stanchezza. E quando il padrone dedica ormai al sonno parte della notte e la trascorre nel riposo, il servo raccoglie, cura, raccoglie con diligenza, pone, riordina, ripone e indugia in operazioni inevitabili, così da riservare al cibo o al sonno nulla o ben piccola parte della notte. Dopo tutto questo, se non si sveglia per il giorno successivo e non previene il padrone che dorme, stanco, instancabile andrà incontro alle percosse, al castigo per l'oggi e non gli varrà nulla la fatica del giorno innanzi, perché tutto quello che il padrone avrà fatto indebitamente o in preda all'ira, secondo il capriccio o non volendolo, per dimenticanza o per riflessione, consapevole o inconsapevole, nei riguardi del servo è sentenza, giustizia, legge. L'ira di chi comanda contro il servo è un diritto, mentre la condizione servile non ha voce in capitolo di fronte all'arbitrio del padrone.

4. Così, dunque, il servo comprende che cosa debba a Dio servendo un uomo in tal modo, e il padrone, spadroneggiando, impara quale servitù debba al Padrone dei padroni, e lo comprende dalla propria lezione. Questo compiva Paolo, che scriveva così a proposito della propria servitù: Fino a quest'ora abbiamo fame e sete e siamo nudi e siamo molestati e siamo trattati a schiaffi. E altrove: Rendo livido il mio corpo e lo assoggetto alla servitù. Offriva la verga

1 OPERE DI SAN PIETRO CRISOLOGO, Sermoni/3, Città Nuova-Bibioteca Ambrosiana,1997, p. 229-233

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il buon servo che, agendo continuamente così, si percuoteva sino alla lividura né allentava i freni al corpo per timore che, a causa dell'indulgenza, la carne cadendo incappasse nella servitù di un altro.

5. Ma, uomo, dà a Colui che ti ha fatto padrone quello che esigi dal servo. Tu, che dormi sempre ed esigi dal servo veglie instancabili, talvolta veglia anche tu per il Signore che veglia ininterrottamente per te. Servi il tuo Signore digiunando almeno per qualche istante, tu cui il servo accudisce sempre mentre mangi. Condona la punizione al tuo servo innocente, al quale il tuo Signore usa indulgenza quando pecca. Talvolta concedi il perdono a colui cui il tuo Signore perdona sempre. Certamente, se farai del bene, sii convinto di aver saldato un debito con chi ti ha fatto credito, non di avergli reso un beneficio . Quando avrete fatto, dice, tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili; abbiamo fatto ciò che dovevano fare. Quando mai l'uomo, così inutile a se stesso nelle cose umane, sarà utile da se stesso per quelle divine? Consideri l'uomo le malvagità del cuore, i vizi della carne, i flutti dei piaceri, le tempeste dei desideri, gli scogli dell'ira, i naufragi dei delitti, e allora darà a Dio ciò che ha d'utile in sé e attribuirà a sé tutto ciò che è inutile. Ma ritorniamo all'argomento proposto, affinché ormai sia chiaro perché il Signore abbia dato ai suoi discepoli questo ammonimento.

6. Cristo, per mandare i suoi apostoli ai popoli che soffrivano per vari dolori, diede loro la potenza dello Spirito, il potere celeste, la grazia delle guarigioni. Perciò, andando in giro, così restituivano la vista ai ciechi, la deambulazione agli zoppi, l'udito ai sordi e, per non annoiarvi con i singoli casi, davano la salute a tutti gli ammalati. Perciò al ritorno si vantavano dicendo: Signore, nel tuo nome anche i demoni sono soggetti a noi. Ma il Signore li frena dicendo: Non rallegratevi perché i demoni sono soggetti a voi; rallegratevi, dunque, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli. Dunque, perché non perdessero per la superbia ciò che avevano ottenuto con la fatica e non attribuissero a sé ciò che avevano ottenuto per intervento divino, con l'esempio del servo li richiama all'umiltà, che è la madre del sapere.

7. Chi di voi, se ha un servo che ara o pascola il gregge, al suo ri¬tomo dal campo gli dice subito: «Vieni, mettiti a tavola», e non gli dice: «Vieni, raccogliti le vesti e servimi, finché io mangi e beva, e do¬po anche tu mangerai e berrai». Dopo aver compiuto i loro lavori e dopo aver dato grandi e numerose prove di potenza, gli apostoli si credevano veramente utili, ma affondavano nel fango della carne e nella polvere di questo corpo e non sapevano di essere inutili. Ma ciò si comprende quando Giuda tradisce, Pietro nega, Giovanni fugge e tutti lo abbandonano, affinché apparisse il solo nel quale era e dal quale era ogni utilità.

8. Quanto all'aver detto: Dopo mangerai tu, ammonisce i discepoli a desiderare ardentemente, dopo la sua ascensione, di unirsi subito al Signore nella beatitudine superna. Infine conforta i discepoli che stava per lasciare quaggiù, li rafforza per affrontare

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la sofferenza e li rende idonei a sopportare la fatica di servirlo. Infatti allora gli apostoli servirono il Signore a tavola per tanto tempo, per quanto tra le cucine dei peccatori e i fuochi die pagani prepararono sulle mense della Chiesa la cena del Signore a perpetuo ricordo. Conosce questa cena chi è fedele; chi non la conosce, desideri conoscerla per essere fedele.

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VI S. Ambrogio

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**

I servi inutili (Lc 17, 7-10)

31. Vien poi il comando che nessuno deve vantarsi di ciò che fa, perché, giustamente, siamo tenuti a obbedire al Signore. Se tu non dici al servitore addetto all'aratura oppure a pascolare le pecore: Passa oltre, mettiti a tavola — e qui comprendiamo che nessuno si mette a tavola se prima non sia passato oltre; del resto anche Mosè prima passò oltre, per vedere una visione mirabile — se dunque tu non soltanto non dici al tuo servitore: Mettiti a tavola, ma richiedi da lui un altro lavoro e neppure lo ringrazi, cosi nemmeno in te il Signore permette che vi sia l'esclusività di una sola occupazione o di un'unica fatica, perché, finché viviamo, dobbiamo sempre essere in attività.

32. Riconosci dunque che sei un servitore obbligato a molte incombenze. Non stimarti qualcosa di più, perché sei chiamato figlio di Dio — bisogna si riconoscere la grazia, ma non ignorare la nostra natura — e non vantarti se hai fatto bene il tuo servizio; avevi il dovere di farlo. Il sole obbedisce, la luna si sottomette, gli angeli servono. Quello strumento eletto dal Signore per le Genti dice: Non sono degno di venire chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Inoltre, in un altro punto, per dimostrare che non aveva consapevolezza di colpa alcuna, soggiunse: Ma non per questo sono giustificato. Perciò anche noi non pretendiamo di lodarci da soli, e non preveniamo troppo presto il giudizio di Dio, né anticipiamo la sentenza del Giudice, ma lasciamola al suo tempo, al suo giudice.

Segue quindi il rimprovero di coloro che non sono riconoscenti, e precisamente a questo punto si giunge a trattare del giudizio futuro.

* AMBROGIO, Esposizione del Vangelo secondo Luca, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova Editrice.

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