UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO
Scuola di Alta formazione Dottorale
Corso di Dottorato in Formazione della Persona e Mercato del Lavoro Ciclo XXXIV
Settore scientifico disciplinare IUS/07
O RGANIZZAZIONE E DISCIPLINA DEL MERCATO DEL LAVORO DI CURA
Supervisore:
Chiar.mo Prof. Michele Tiraboschi
Tesi di Dottorato di Irene Tagliabue Matricola n. 1058529
Anno Accademico 2020/2021
INDICE
CAPITOLO I
POSIZIONE DEL PROBLEMA E DOMANDA DI RICERCA
1. La cura: inquadramento e definizione………004 2. Il quadro normativo italiano: le fragilità del modello familista ……….014
2.1. La legislazione nazionale e gli incentivi alla gestione domestica della cura……….015 2.2. I recenti tentativi di regolamentazione del caregiving familiare…………022 3. La gestione della cura a livello regionale oggi………...029 4. Il quadro empirico in Italia e le criticità esistenti………...033 5. Domanda di ricerca e piano di lavoro………038
CAPITOLO II LITERATURE REVIEW
1. Il lavoro di cura: aspetti definitori………....042 2. Lavoro gratuito e oneroso: la questione del lavoro di cura………..048 2.1 Contratto gratuito e oneroso: l’orientamento della dottrina civilistica……...051 2.2 La prestazione di lavoro tra gratuità e onerosità: sull’ammissibilità e sulla legittimità di un contratto di lavoro a titolo gratuito………053 3. Lavoro produttivo e riproduttivo………..070 4. Il tema della commodification: la mercificazione del lavoro di cura…………...081
INDICE
CAPITOLO III
DALLE (POCHE) ESPERIENZE PASSATE ALLA URGENZA DELLA EMERSIONE DI UN VERO E PROPRIO MERCATO DEL LAVORO DI CURA
1. Una lezione dal passato: il Patto Modenese per l’assistenza domiciliare agli
anziani………..095
1.1 Punti deboli e di forza del progetto lanciato nel modenese………..101
2. Altre esperienze: l’influenza del Patto nel contesto nazionale………104
2.1 I progetti Madreperla e la centralità del tema della formazione e professionalizzazione degli operatori………..104
2.2 Le altre iniziative promosse a livello locale………..108
3. I limiti delle casistiche presentate e il tema della emersione e regolazione giuridica di un vero e proprio mercato del lavoro di cura………...110
CAPITOLO IV VERSO UNA MERCIFICAZIONE DEL LAVORO DI CURA? 1. Verso un mercato del lavoro di cura?...115
2. I (non) mercati del lavoro di cura e il crescente ruolo degli intermediari………...126
2.1 La diffusione delle piattaforme digitali………...131
3. Il possibile ruolo delle relazioni industriali………...135
4. Definizione e costruzione dei profili professionali………148
5. Nuove regole e nuove tutele per le nuove professionalità……….155
CONCLUSIONI……….168
BIBLIOGRAFIA………173
CAPITOLO I
POSIZIONEDELPROBLEMAEDOMANDADIRICERCA
Sommario: 1. La cura: inquadramento e definizione – 2. Il quadro normativo italiano: le fragilità del modello familista – 2.1. La legislazione nazionale e gli incentivi alla gestione domestica della cura – 2.2. I recenti tentativi di regolamentazione del caregiving familiare – 3. La gestione della cura a livello regionale oggi – 4. Il quadro empirico in Italia e le criticità esistenti – 5. Domanda di ricerca e piano di lavoro
1. La cura: inquadramento e definizione
Le sfide che il nostro Paese si trova oggi a dover affrontare, quali i mutamenti demografici senza precedenti associati alla crescita dell’aspettativa di vita, il calo dei tassi di natalità, il mutamento delle strutture familiari con la genitorialità in tarda età e, da ultimo, le migrazioni, rendono necessarie riflessioni su tematiche a lungo trascurate dalla analisi giuslavoristica e che, tuttavia, hanno un rilevante impatto sulle dinamiche giuridiche del mercato del lavoro1. Su tutte, emerge il tema della cura delle persone non autosufficienti. Se, in passato, infatti, il bisogno
1 Sul tema di come i cambiamenti demografici e sociali abbiano influito sulle politiche nazionali e sulla gestione dei moderni mercati del lavoro si vedano, nel contesto internazionale, European Commission Report, The impact of demographic change, 2020, oltre che L. Hantrais, Socio- demographic change, policy impacts and outcomes in Social Europe, in Journal of European Social Policy, n. 9(4), 1999, pp. 291-309. In ambito nazionale, specularmente, si veda G. Capacci, C. Castagnaro, C. Tardini, Strumenti per un invecchiamento demografico sostenibile, in Quaderni Europei sul nuovo welfare, n. 12, 2009, pp. 24 ss., che affronta il tema dell’impatto economico dei cambiamenti demografici in atto già da diversi anni, proponendo una analisi in chiave comparata sui modelli adottati per potervi far fronte. In termini più strettamente giuslavoristici, invece, si veda A. M. Battisti, Working carers. Misure di conciliazione vita – lavoro, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, n. 1, 2019, oltre che M. Tiraboschi, Persona e lavoro tra tutele e mercato. Per una nuova ontologia del lavoro nel discorso giuslavoristico, ADAPT University Press, 2019, p. 20, secondo cui, in particolare, «(…) le più recenti trasformazioni demografiche e tecnologiche hanno profondamente cambiato le logiche di potere e gli interessi (sempre più eterogenei) che si confrontano nei moderni mercati del lavoro».
di ricevere cura, l’obbligazione e anche il desiderio di fornirla sono rimasti a lungo nascosti nelle pieghe della vita quotidiana e nella divisione del lavoro tra uomini e donne e tra società e famiglia2, negli ultimi anni le crescenti esigenze di assistenza della popolazione hanno posto la problematica al centro del dibattito politico e scientifico, arrivando ad interrogarsi, in particolar modo, su come tali bisogni potranno essere soddisfatti in futuro3.
La questione della cura, di chi può e debba fornirla e di come la relativa disponibilità a prestare assistenza vengano riconosciuti a livello di organizzazione sociale ed economica, si intreccia innanzitutto con il tema dell’invecchiamento della popolazione e con il conseguente aumento dei soggetti a rischio dipendenza4. Ma è anche legato a doppio filo, soprattutto nel nostro Paese, con il
2 C. Saraceno, Bisogni e responsabilità di cura: non solo una questione di genere, Lectio Magistralis, Università di Torino, 26 maggio 2009, p. 1.
3 Temi quali l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dell’aspettativa di vita, la cronicizzazione di patologie un tempo considerate acute, con il conseguente incremento del bisogno di assistenza e di cura sono ad oggi oggetto di molteplici studi. Nel merito in particolare ISTAT, Indicatori demografici. Stime per l’anno 2017, 2018; ISTAT, Rapporto Annuale 2018. La situazione del Paese, 2018; ISTAT, Il futuro demografico del Paese. Previsioni regionali della popolazione residente al 2065, 2017; Fondazione Censis, I disabili, i più diseguali nella crescita delle diseguaglianze sociali, in Diario della transizione/3, 2014; Fondazione Censis, Fondazione Ismu, Elaborazione di un modello previsionale del fabbisogno di servizi assistenziali alla persona nel mercato del lavoro italiano con particolare riferimento al contributo della popolazione straniera – Sintesi di Ricerca, 2013. L’insieme di queste ricerche, di seguito dettagliate (infra, § 4), mostra come l’aspettativa di vita sia destinata a crescere ancora, mentre, al contrario, il numero delle nascite continua ad essere in costante calo. Così, non è possibile escludere che in futuro si presentino scenari, a livello nazionale, in cui il bisogno di cura non riesca più ad essere gestito scendo gli schemi ad oggi esistenti e il modello familista non sia più in grado di soddisfare le esigenze di cura sempre crescenti (infra, § 3).
4 Nel merito, anche C. Dessi, G. Rusmini, I bisogni di cura, in S. Pasquinelli (a cura di), Primo rapporto sul lavoro di cura in Lombardia. Gli anziani non autosufficienti, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2015, prima di addentrarsi in una disamina concentrata sulla condizione lombarda e sulle modalità con cui la Regione Lombardia abbia provveduto a rispondere alle crescenti esigenze di cura, non manca di sottolineare che tra i principali cambiamenti demografici che caratterizzano i Paesi economicamente più sviluppati vi è indubbiamente l’invecchiamento della popolazione. Tale fenomeno, che è legato a doppio filo con
fenomeno della nuova divisione internazionale del lavoro di cura, delle migrazioni e, infine, con il ridisegno del concetto di vita attiva. Quest’ultimo, che sta interessando tanto il contesto nazionale che internazionale, condiziona innanzitutto le regole relative all’età per la pensione, ma anche le aspettative nei confronti della partecipazione delle donne al mercato del lavoro5.
Per poter approfondire il tema in chiave giuridica e giuslavoristica in particolare, sorge innanzitutto l’esigenza di definire ed inquadrare con chiarezza il concetto di cura, comprendendo l’ampiezza del termine e valutando cosa effettivamente possa essere considerata “cura” nei confronti di una persona bisognosa. Già da tempo, infatti, al di fuori del mondo del diritto, tale espressione trascende l’ambito medico, arrivando ad includere anche attività di assistenza in senso lato e racchiudendo così, al proprio interno, tanto una componente materiale, quanto spirituale. Nel linguaggio giuridico, al contrario, il riconoscimento della non medical care, intesa come insieme di prestazioni di dare e di fare realizzate al di fuori dell’ambito prettamente sanitario al fine di assistere una persona dipendente, costituisce una conquista relativamente recente6.
A conferma di ciò, nel testo originario del Codice Civile, l’unico riferimento alla cura della persona dipendente era contenuto agli artt. 357, 360 comma 3, 361 e 424, nell’ambito dell’analisi delle funzioni del tutore e del protutore del minorenne, nonché per relationem del tutore del maggiorenne interdetto per infermità mentale. L’accenno alla “cura dell’interesse del figlio” minorenne quale componente della potestà genitoriale (introdotto dalla Riforma del diritto di famiglia del 1975, all’art. 316, comma 5, cod. civ.), è stato poi recentemente ripreso dal legislatore, ma unicamente in riferimento alla patologia della relazione
il tema dell’aumento del benessere, è generato, sostanzialmente, da due fattori: da un lato l’allungamento della speranza di vita e, dall’altro, la riduzione dei tassi di natalità (p. 15).
5 Sul punto si esprime in particolare C. Saraceno, Bisogni e responsabilità di cura, cit., p. 1.
6 J. Long, La cura della persona dipendente tra etica, legge e contratto, in Dir. Famiglia, n. 1, 2010, p. 478.
di coppia tra i genitori. Ulteriori riferimenti alla cura della persona, infine, sono contenuti negli artt. 405, comma 4, 406, comma 3 e 408, comma 1, cod. civ., relativi alla disciplina dell’amministrazione di sostegno, nonché nella Legge 8 novembre 2000, n. 328, sul sistema integrato di interventi e servizi sociali che, all’art. 16, riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella formazione e nella cura della persona7. Ponendo poi, in ultima analisi, un veloce sguardo sul versante penalistico, un riferimento al tema è reperibile all’art. 591 cod. pen., che punisce con la reclusione «chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sé stessa e della quale abbia custodia o debba avere cura»8. Un sistema giuridico, quindi, volto ad interpretare per lungo tempo il concetto di cura in termini fortemente restrittivi, in netta contrapposizione con il pensiero sociologico propenso, al contrario, a includere nella “cura della persona non autosufficiente” anche tutte quelle attività afferenti la sfera relazionale della persona, così da perseguire quella salute definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità quale stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo come mera assenza di malattia9.
Un tema, quello della cura, intimamente connesso a quello di salute ed assistenza.
Se, infatti, viene sposata la citata definizione, promossa dall’OMS, il riconoscimento della salute come uno stato della persona in sé e per sé giustifica, da un lato, tutti i progressi fatti nel campo e, dall’altro, anche l’ampia
7 Il tema della normativa in materia di caregiving familiare e di sostegno al ruolo delle famiglie che assistono persone bisognose è approfondito in particolar modo al § 2. In questa sede, per una dettagliata ricostruzione dei riferimenti codicistici al tema della cura si veda J. Long, op. cit.
8 Del tema si occupa anche G. Pistore, Alla ricerca di un inquadramento giuridico per il caregiver familiare, in R. Del Punta, D. Gottardi, R. Nunin, M. Tiraboschi (a cura di), Salute e benessere dei lavoratori: profili giuslavoristici e di relazioni industriali, ADAPT University Press, 2020, p. 207.
9 J. Long, op. cit., p. 478, richiama la definizione di salute fornita dal preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, entrata in vigore nel 1948 (consultabile al seguente sito: https://apps.who.int/gb/gov/assets/constitution-en.pdf) e secondo cui «Health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity».
interpretazione del concetto di cura ad oggi promossa. Dal considerare la tutela della salute quale insieme di interventi di tipo curativo o preventivo, si passa così progressivamente ad un concetto più esteso, che contiene anche il bisogno della persona ad avere relazioni, a sviluppare integrazione sociale e ad ottenere garanzia anche per interessi che precedentemente non erano sottoposti a tutela10. Sul piano giuridico, il cambiamento di approccio dell’OMS11 ha inciso molto negli anni se si considera che in Italia, come del resto in altri Paesi del mondo, il diritto costituzionale alla salute è stato riconosciuto come un diritto a fattispecie complessa, ma in sé unitaria, proponendo l’abbandono della tradizionale distinzione tra una dimensione cd. fondamentale ed una cd. sociale dello stesso12, virando invece verso una sua tutela in termini globali.
Questa nuova lettura ha portato ad una mutata e più moderna considerazione dei diritti fondamentali, intesi come strumenti di auto-realizzazione della persona, considerata nella sua natura di essere sociale. Se i diritti fondamentali si basano sulla dignità della persona, allora, la salute rappresenta uno degli emblemi di questa considerazione dell’uomo valutato complessivamente, nella sua integrità e nella sua capacità di vivere liberamente all’interno dei diversi ambiti sociali. Da qui due osservazioni: da un lato, il contrasto alla malattia non è più un problema esclusivamente medico ma anche sociale e, dall’altro, la salute non coincide più
10 E. Longo, Unitarietà del bisogno di cura. Riflessioni sugli effetti giuridici conseguenti al passaggio dal modello medico al modello sociale di disabilità, in Non Profit, n. 2, 2011, p. 4.
11 Il tema del superamento dell’interpretazione del concetto di salute come mera assenza di malattia è stato oggetto di grande interesse da parte della dottrina. Tale superamento è iniziato con la l. 405/1975 di istituzione dei consultori familiari ed è proseguito con l’art. 27 del D.P.R.
616/1977, il quale ha fornito una definizione molto ampia di assistenza sanitaria ed ospedaliera. A seguire poi la l. 194/1978 sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, fino ad arrivare alla l. 833/1978 sull’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Sul tema, in particolare, si è espressa J. Long, op. cit., la quale affronta in termini giuslavoristici tematiche quali la salute e la cura della persona non autosufficiente.
12 L. Busatta, Il diritto alla salute a geometria variabile, Phd, Trento, Università di Trento, Scuola di dottorato in studi giuridici comparati ed Europei, aa. 2010/2011.
con il concetto di normalità psicofisica perché, se interpretata come benessere in senso lato, risulta legata alla concreta condizione umana in cui la persona vive13.
Per quanto riguarda poi, nello specifico, il concetto di cura, le domande che è indispensabile porre sono legate al significato oggettivo della cura (intesa come attività umana messa a disposizione e al servizio di altri in modo più o meno continuativo o professionale) e, con maggiore rilevanza, per la riflessione giuslavoristica e per la valutazione della esistenza o meno di un vero e proprio mercato del lavoro di cura, all’individuazione di coloro che concretamente e quotidianamente si prendono cura di persone bisognose14.
Con riferimento al primo quesito, è ormai chiaro che una interpretazione del concetto di cura unicamente in rapporto al risultato terapeutico, escludendo invece il curare inteso come prendersi cura, sia stata superata non solo in ambito scientifico, ma anche e soprattutto sociale. Sotto l’egida del paradigma bio- medico tradizionale, che ha dominato a lungo la scienza medica e non solo, il prendersi cura e il curare – care vs cure – sono stati progressivamente considerati come modelli dicotomici, associati a lavoratori con competenze tra loro differenti15. Tuttavia, nonostante le convinzioni del passato, anche la nozione di cura, così come quella di salute, è stata oggi allargata, comprendendo da un lato elementi quali relazionalità o rapporto e, dall’altro, quei molteplici aspetti della vita del paziente che sarebbero esclusi se la cura stessa venisse considerata come mera terapia di una patologia16.
13 Dell’aspetto legato all’esigenza di ripensare il concetto di salute e delle conseguenze che potrebbero derivare da questa nuova ipotesi interpretativa si occupa E. Longo, op. cit., p. 5.
14 Questi temi vengono toccati, ancora una volta, in particolare nell’ambito della riflessione operata in E. Longo, op. cit., p. 5, in cui viene sviluppata una riflessione ad ampio spettro sul legame tra i concetti di salute, cura e assistenza.
15 L. Speranza, Who cares? Who cures? Perché è meglio non separare umanità e competenza, in Professionalità Studi, n. 6, 2019, p. 1.
16 E. Longo, op. cit., p. 5.
In realtà, il curare e il prendersi cura risultano essere intimamente connessi e, in particolar modo nella gestione della cronicità, sarebbe auspicabile prediligere un cambiamento di prospettiva, provando così a spostare l’attenzione dal semplice concetto di curare, prettamente clinico, a quello di prendersi cura e sottolineando l’imperativo morale di assistere persona nel suo complesso, preoccupandosi del suo bene e dei suoi bisogni in senso lato17. Non è, in questi termini, sufficiente far coincidere il concetto di cura con il concetto di terapia, ma, al contrario, è necessario che la cura sia operata nei confronti della persona nella sua interezza e non solo rispetto alla patologia da cui un determinato soggetto può essere affetto, abbandonando così definitivamente la storica contrapposizione tra salute e malattia18. In una tale prospettiva, sarebbe forse più corretto giungere a considerare la cura e il prendersi cura come niente di più che i punti più estremi di un continuum che comprende, però, moltissime sfumature intermedie, peraltro indispensabili ai fini dell’individuazione delle figure professionali più adatte all’esercizio di queste attività19.
Emerge così l’esigenza dello sviluppo di un’etica della cura, intesa come una vera e propria modalità di rapporto, che comporta innanzitutto il rispetto per il modo di essere e per la natura dell’uomo del quale ci si occupa20. Tale etica parte dal presupposto fondamentale relativo all’importanza dell’attenzione per gli altri, in particolare per coloro le cui vite e il cui benessere dipendono da un’assistenza
17 M. Bronzini, “Cura”, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 4,2004, p. 236.
18 M. Bronzini, op. cit., p. 244. Con specifico riferimento al tema della cura e del superamento di convinzioni ormai obsolete in materia, sicuramente di rilievo la ricostruzione che effettua l’A. nel merito delle due prospettive fondamentali riguardo la percezione odierna della cura. Da un lato, quella teleologica, per cui la cura rappresenta uno stato di tensione continua verso l’altro.
Dall’altro quella definita “strumentale”, attraverso la quale la cura viene, appunto, fatta coincidere con il concetto di terapia, quale mezzo esclusivo per intervenire sulla malattia (p. 234). La teoria di fondo sostenuta è, pertanto, fondata sull’esigenza del superamento dell’equivalenza cura – terapia, così da poter estendere la prima alla tutela di quel completo stato di benessere psicofisico che dovrebbe essere oggi la salute della persona.
19 L. Speranza, op. cit., p. 2.
20 M. Bronzini, op. cit., p. 237.
specifica e quotidiana21. Essa si rifà ad una analisi delle condizioni storiche che hanno incoraggiato una divisione del lavoro di tipo morale, in seguito alla quale le attività di cura hanno assistito ad una svalutazione oltre che sociale, proprio in termini morali e sono state, conseguentemente, relegate all’interno delle mura domestiche22. Partendo dalla consapevolezza che queste attività sono spesso ridotte al rango di sentimenti privati sprovvisti anche di valore politico e volendo valorizzare il ruolo dell’assistenza nell’ambito della vita umana, l’etica della cura propone una radicale contestazione di questa impostazione oggigiorno dominate, che esclude questi temi dalla sfera pubblica23, considerandoli di esclusiva come una mera competenza familiare. Ciò innanzitutto in considerazione del fatto che l’etica della cura, così come appena descritta, è legata a doppio filo a condizioni concrete, e non risulta, al contrario, essere un ambito di studio e indagine generale e astratto. Essa, infatti, trova la sua espressione migliore non in una teoria, bensì in una attività24, riguardante la persona nel suo complesso.
Il tema, peraltro, era stato oggetto di grande interesse già tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando, nel Nord Europa, l’attenzione per la tematica aveva iniziato a crescere. Con il Rapporto Care in Society, pubblicato dal Secretariat for Future Studies svedese, sono stati infatti, in tal senso, messi in luce, forse per la prima volta in modo così evidente, contesti e pratiche della cura interpersonale e della assistenza quotidiana, fino a quel momento ampiamente
21 S. Laugier, La cura: l’etica come politica dell’ordinario, in Iride, n. 2, 2010, p. 295.
22 Sul tema della svalutazione morale a cui sono andate incontro le attività di cura nel corso degli anni si è espressa, in particolare, S. Laugier, L’etica di Amy. La cura come cambio di paradigma in etica, in Iride, n. 2, 2011 che, a pp. 331 ss., ha posto l’attenzione sull’emarginazione che queste attività hanno subito nel corso del tempo. Emarginazione che è andata ulteriormente accentuandosi a causa del confinamento delle stesse ad attività svolte da donne, in ambito privato.
23 S. Laugier, L’etica di Amy, op. cit., p. 331.
24 S. Laugier, L’etica di Amy, op. cit., p. 332 che approfondisce il richiamato tema del legame tra l’etica della cura e condizioni concrete della persona.
trascurati25. Grazie al contributo fondamentale di questo rapporto, il tema della cura è entrato nel linguaggio delle scienze sociali e della politica e, compiendo un ulteriore passo in avanti, ha contribuito alla piena consapevolezza che, parlando della stessa, si approda ben oltre la categoria del lavoro domestico. Il termine care, così come interpretato dal Rapporto, richiama infatti l’attenzione proprio sul concetto di “prendersi cura”, attività che, per le molte prestazioni materiali ed affettive coinvolte, richiede continua disponibilità di tempo26. Analizzando il tema in questi termini, sarebbe forse possibile giungere a definire una complessa cultura della cura27, oltre che una, comunque indispensabile, etica della cura.
Tale nuovo approccio, sicuramente rilevante dal punto di vista medico, è fondamentale anche per il funzionamento giuridico del diritto alla cura. Questa estensione del concetto, che comprende le attività offerte anche da personale non medico, riflette chiaramente la progressiva affermazione della salute come benessere e la conseguente necessità di offrire adeguata tutela al lavoro informale di cura, prestato in adempimento di un dovere morale, prevalentemente dalle donne28. Posto allora, come sembra essere ormai riconosciuto dalla dottrina giuridica oltre che sociologica, che la cura di una persona non debba riguardare solo l’aspetto strettamente sanitario ma che, al contrario, debba essere comprensiva anche di tutte quelle attività di cd. non medical care, un ulteriore quesito che si pone è se ad essa possa essere attribuito un prezzo e, conseguentemente, esserle riconosciuto un preciso valore di mercato.
25 Secretariat for future studies (Svezia), Care in society: a programme for a futures study of care and the need of care, LiberFörlag, Stockholm, 1979. Di particolare interesse per la presente ricerca, sono le due sezioni iniziali della pubblicazione, che si occupano di analizzare e ricostruire quali fossero, già a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, i riflessi, in ambito sociale, prodotti dalle tematiche relative alla cura.
26 L. Balbo, Lavoro, tempo, cura: connessioni e cambiamenti, in Politiche Sociali, n. 2, 2015, p.
257 ricostruisce a grandi linee il contenuto del rapporto svedese, evidenziandone la centralità, proprio nell’ambito dell’analisi di tematiche relative alla cura nel suo complesso e all’interpretazione “ampia” che alla stessa dovrebbe essere riconosciuta.
27 L. Balbo, op. cit., p. 257.
28 E. Longo, op. cit., p. 6.
Parallelamente, appare indispensabile provare ad approfondire un’ulteriore tematica, relativa all’individuazione di chi svolga e debba svolgere concretamente l’insieme delle attività fin qui tratteggiate. Tale aspetto, cui già si è fatto cenno, è infatti centrale nell’ambito del ragionamento giuridico e giuslavoristico in atto.
Chiarito, infatti, che considerare come “lavoro di cura” unicamente quello svolto da operatori sanitari o sociosanitari sarebbe estremamente riduttivo, appare necessario avviare anche una riflessione relativa a quali concretamente siano -e dovrebbero essere- i soggetti demandati allo svolgimento di tali attività. A questo proposito, nell’attuale contesto italiano -e spesso anche internazionale- i principali oneri di cura ricadono interamente sulla famiglia e, in particolare, sui cosiddetti caregiver familiari. Ciò a causa del modello familista a lungo promosso e sostenuto29, che comporta che la gestione della non autosufficienza o, più in generale, dei bisogni di cura, sia relegata all’interno delle mura domestiche. Sotto un’altra prospettiva, tuttavia, non è possibile trascurare anche tutti quei profili che, pur non rientrando tra coloro che esercitano una professione medica o sanitaria, sono chiamati ad accudire persone con esigenze di cura e di assistenza di svariata complessità e natura. Esiste –e persiste– ad oggi, infatti, un (non) mercato del lavoro per tutte quelle attività di assistenza in senso lato, che coinvolge soggetti più o meno qualificati, i quali offrono i propri servizi in assenza delle necessarie tutele, che solo un mercato adeguatamente costruito e regolamentato potrebbe fornir loro. Sembra pertanto necessario, anche con specifico riferimento ai soggetti concretamente demandati alle attività di cura, interrogarsi sull’adeguatezza dei profili ad oggi esistenti e sulla possibilità di progettare la costruzione di nuove figure professionali, in grado di rispondere alle rinnovate esigenze della popolazione.
29 Il tema di come le politiche relative alla cura e all’assistenza abbiano promosso in Italia, nel corso degli anni, un modello incentrato sulla famiglia quale perno del welfare state è affrontato infra, § 2.
2. Il quadro normativo italiano: le fragilità del modello familista
Nell’ordinamento giuridico italiano, è impossibile ad oggi reperire disposizioni relative alla cura di persone non autosufficienti all’interno di un corpus uniforme.
Al contrario, esse risultano disperse e confuse tra molteplici fonti, eterogenee quanto all’oggetto, ai destinatari e prevalentemente finalizzate alla costruzione di un modello volto a considerare ciascun nucleo familiare come primo responsabile del benessere dei suoi membri30, principalmente attraverso l’implemento e la diffusione di diverse misure di conciliazione vita-lavoro31.
30 Sul punto si veda F. Giubileo, Politiche attive e conciliazione. L’assistenza ai non autosufficienti, in Autonomie locali e servizi sociali, n. 3, 2010 che, a p. 517, sottolinea come i sistemi di welfare possano essere considerati familisti non tanto se sono a favore della famiglia, ma, quanto più, se tendono a percepire la famiglia quale primo e principale responsabile della gestione della cura e della non autosufficienza.
31 Anche A. M. Battisti, Working Carers, cit., definisce e descrive le dinamiche del modello familista esistente ad oggi in Italia, ponendolo in contrapposizione con altri modelli, principalmente del Nord Europa, in cui la cura delle persone non autosufficienti non grava esclusivamente sulla famiglia, ma al contrario, è gestita con altri strumenti, principalmente promossi da interventi statali. La questione legata al modello familista di gestione della cura, del resto, è stato oggetto di diversi studi che, nel corso degli anni, hanno finito col confermare la propensione del welfare state italiano ad appoggiarsi, sia a livello nazionale che locale, a modelli di gestione della cura prettamente informali. Tra questi, M. Sala, D. Mesini, S. Pasquinelli, Il lavoro muto, indagine sui caregiver familiari lombardi, in S. Pasquinelli (a cura di), Primo rapporto sul lavoro di cura in Lombardia. Gli anziani non autosufficienti, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, 2015, a pp. 49-50 ribadiscono che «Prevalgono in un modo o nell’altro, tipologie di risposta informali al bisogno, che si fondino sull’affetto familiare o eventualmente sull’impegno di volontari. Una interpretazione del lavoro di cura dai tratti tipici della cultura cattolica e familista». Nel fotografare la situazione presente nel contesto lombardo, vengono di fatto sottolineate tutte le criticità e le problematiche presenti complessivamente su scala nazionale e inerenti alla gestione della cura quasi esclusivamente in ambito familiare. Da ultimo, il tema è affrontato, in termini analoghi anche in A. Ciarini, Famiglia, mercato e azione volontaria nella regolazione del “sistema della cura”: una comparazione tra Italia e Svezia, in Rivista Italiana di politiche pubbliche, n. 3, 2017.
La famiglia italiana, ancora oggi, continua dunque ad avere un ruolo centrale nell’ambito della gestione della cura, facendosi largamente carico del sostegno dei membri più fragili32. In un simile contesto, si rileva come le disposizioni in materia siano in parte specificatamente dedicate a soddisfare i bisogni dei prestatori di assistenza, in parte volte alla tutela dei soggetti passivi, che necessitano di cure e, da ultimo, talvolta intese come frammenti di ampi disegni di regolazione di particolari istituti del mercato del lavoro, posti, quindi, come strumenti di sostegno di conciliazione vita-lavoro. Ad una tale complessità si vada poi ad aggiungere la distribuzione delle disposizioni normative su più piani, quello legislativo in primis e, in secondo luogo, quello contrattuale, sia nella dimensione collettiva che individuale33.
2.1. La legislazione nazionale e gli incentivi alla gestione domestica della cura
A dimostrazione di come in Italia, oggi, piuttosto che appoggiarsi a un mercato (almeno potenziale) del lavoro professionale di cura, quest’ultima ruoti ancora fortemente intorno al caregiving familiare e ad azioni spinte da affetto, l’art. 7 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104, normativa quadro in materia di assistenza, integrazione sociale e diritti dei portatori di handicap, afferma che la cura e la riabilitazione della persona disabile «si realizzano con programmi che prevedono prestazioni sanitarie e sociali integrate tra loro, che valorizzano le abilità della persona handicappata e agiscono sulla situazione di handicap, coinvolgendo la famiglia e la comunità». È evidente come questa disposizione prenda in considerazione le cure istituzionali e sanitarie, rese da soggetti pubblici o accreditati, ma anche e soprattutto quelle informali, legate alla famiglia e al ruolo
32A. M. Battisti, Le politiche di cura per gli anziani, in Professionalità Studi, n. 6, 2019, p. 17 ricostruisce la dinamica relativa alle attuali disposizioni presenti nel panorama nazionale, con riferimento alla cura e alla gestione della non autosufficienza e della disabilità.
33 I. Senatori, C. Favaretto, La tutela del caregiver nel diritto del lavoro: profili legislativi e contrattuali, in Sociologia e Politiche Sociali, n. 3, 2017, pp. 47-48.
dei membri della stessa34. Con la normativa del Novantadue il legislatore ha predisposto una diversa griglia di soggetti ammessi alla fruizione di congedi e permessi, in relazione anche all’età del disabile e al tipo di assistenza apprestabile.
Per le ragioni già ricostruite e inerenti al modello promosso nel nostro Paese, il nucleo più consistente di garanzie e tutele è riservato ancora oggi ai genitori lavoratori, il cui trattamento lavorativo varia a seconda dell’età del figlio stesso35.
La L. n. 104/1992, da coordinare con gli artt. 19 e 20 della Legge 8 marzo 2000, n. 53, che ha avviato la diffusione delle misure di work-life balance36, nonché con gli artt. 32 e 42 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, prevede per la madre lavoratrice, o in alternativa per il padre lavoratore di minore con handicap, il diritto al prolungamento fino a tre anni del congedo parentale, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno, oppure a due ore di permesso giornaliero retribuito fino al compimento del terzo anno del figlio.
Successivamente i genitori lavoratori, nonché colui che assiste un parente o affine entro il terzo grado con handicap convivente, potranno avvalersi di tre giorni di permesso mensile retribuiti, fruibili anche in maniera continuativa, a condizione che il disabile non sia ricoverato a tempo pieno. Da ultimo, sempre il Testo Unico rappresentato dal D.Lgs. n. 151/2001, prevede per questi soggetti, in particolari condizioni, la possibilità di godere di un congedo di due anni, di cui all’art. 4, secondo comma, della L. n. 53/2000. Le modifiche che sono state apportate alla legge del Novantadue da parte dei successivi interventi legislativi del Duemila e del Duemilauno non hanno, tuttavia, sempre tenuto conto degli orientamenti dell’Inps e della giurisprudenza, cui sono da ascrivere i più significativi interventi sulla legislazione in materia.
34 E. Longo, op. cit., p. 6.
35 S. Barutti, S. Cazzanti, L’assistenza alle persone non autosufficienti. La funzione di cura tra forme di tutela esistenti e nuove prospettive, in Lavoro e diritto, n. 2, 2010, p. 257.
36 A. M. Battisti, Working Carers, cit., p. 3.
Va in tal senso segnalato che se, da un lato, sono stati estesi i permessi nei confronti di madre e padre lavoratori, secondo quanto riportato dall’art. 42 del D.Lgs. n. 151/2001, dall’altro, la fruibilità degli stessi è stata subordinata al doppio requisito della continuità ed esclusività della cura, pur in assenza di convivenza37. Aspetto, quest’ultimo, che ha reso necessario l’intervento dell’Inps che, con la Circolare 17 luglio 2000, n. 133 ha dovuto precisare gli esatti confini dei requisiti di continuità ed esclusività previsti dalla normativa nazionale38.
Da ultimo, anche la Corte Costituzionale ha giocato un ruolo significativo nella determinazione del campo di applicazione delle disposizioni in materia, estendendo il margine di applicazione delle previsioni già esistenti e riconoscendo il diritto di subentro a fratelli e sorelle non solo nel caso di morte dei genitori, ma anche nel caso in cui questi ultimi non siano in grado di provvedere direttamente all’assistenza del figlio disabile39. Inoltre, in un secondo momento, sempre per volontà della Corte Costituzionale, il diritto di usufruire del summenzionato congedo è stato esteso anche ad altri soggetti. Da un lato, ad oggi, è previsto un canale preferenziale nei confronti del coniuge convivente40 e, dall’altro, un
37 S. Barutti, S. Cazzanti, op. cit., p. 258.
38 Cenni in relazione a come la Corte Costituzionale e l’Inps abbiano inciso sulle modalità di individuazione dei destinatari della normativa sono presenti in S. Barutti, S. Cazzanti, op. cit.
39 Corte Cost. 16 giugno 2005, n. 233 secondo cui «La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede il diritto di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità a fruire del congedo ivi indicato, nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio handicappato perché totalmente inabili».
40 Corte Cost. 18 aprile 2007, n. 158 afferma a sua volta che «La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti indicati dalla norma, anche per il coniuge convivente con "soggetto con handicap in situazione di gravità", il diritto a fruire del congedo ivi indicato».
parallelo vantaggio è riconosciuto al figlio convivente41, nel caso in cui non dovessero essere individuati altri soggetti in grado di svolgere attività di cura della persona che necessiti di assistenza continuativa.
In conclusione, il panorama legislativo non sembra, oggi, riuscire a fornire una risposta ai bisogni dei cittadini che svolgono attività di cura dentro le mura domestiche, prevalentemente a causa dell’esiguo numero di strumenti di assistenza e conciliazione messi a loro disposizione, riassumibili quasi esclusivamente in congedi e permessi straordinari. Se, infatti, nel sistema fordista del secolo scorso, per far fronte ai rischi sociali, veniva ritenuto sufficiente un sistema basato su trasferimenti monetari elargiti dallo stato e su misure di conciliazione vita-lavoro, i welfare states del ventunesimo secolo sembrerebbero necessitare anche (ma non solo) di un insieme di servizi decentrati e diffusi sul territorio nazionale, più vicini alle famiglie e alle loro esigenze di cura e assistenza42.
41 Corte Cost. 30 gennaio 2009, n. 19 dichiara quanto segue: «La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto il figlio convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona in situazione di disabilità grave». Per una disamina dettagliata delle novità introdotte dalla presente sentenza della Corte Costituzionale si veda anche G. De Simeone, I confini giuslavoristici dell’assistenza familiare alla persona gravemente disabile, in Rivista Italiana del Diritto del Lavoro, n. 4, 2009, pp. 842 ss., secondo cui, la sentenza in esame induce a riflettere non solo sul disegno complessivo del legislatore in materia di interventi integrativi di sostegno alla persona diversamente abile, ma anche sulla nozione di famiglia considerata nel tempo dal legislatore, grazie ai diversi interventi della Corte nel merito e sull’originaria e persistente collocazione sistematica della previsione normativa nell’ambito di un corpus in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità.
42 S. Barutti, S. Cazzanti, op. cit., pp. 261-262, nel ribadire questa esigenza, anticipa una tematica di particolare rilievo che verrà affrontata nei successivi capitoli, sottolineando come il ripensamento delle logiche su cui si basa l’assistenza e la cura della non autosufficienza, debba passare non solo attraverso la ricerca di nuove forme di tutela nell’ambito della sola normativa statale, ma, al contrario, debba necessariamente basarsi su un ripensamento integrale di altri aspetti
Nel tentativo di virare nella direzione sopra descritta, la già citata L. n. 328/2000, legge quadro sull’assistenza sociale, oltre che introdurre il riconoscimento della nuova interpretazione di cura, estesa e non limitata alla sfera medica43, ha delineato un quadro di interventi e strumenti volti a riconoscere la rilevanza positiva delle assunzioni di responsabilità personali e familiari, proponendo un quadro di politiche di protezione sociale gestito da diversi soggetti congiuntamente. Da un lato, sono state maggiormente coinvolte le famiglie stesse, indispensabili con il loro operato nella cura della non autosufficienza e, dall’altro, è stato valorizzato il ruolo di terzo settore, enti territoriali e Stato44. L’impianto costruito dalla legge incoraggia, del resto, chiaramente l’attività di cura dei familiari; tuttavia, ciò non deve portare a una residualità dell’intervento dei pubblici poteri, che è fondamentale continuino a giocare un ruolo significativo in questo settore45.
Della L. n. 328/2000, merita in particolare di essere analizzata la disposizione ex art. 16, comma 1, che, al fine di valorizzare e sostenere proprio le responsabilità familiari, recita «il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei
del diritto del lavoro e del diritto del mercato del lavoro, oltre che su una generale riorganizzazione dei servizi sociali e di assistenza.
43 E. Longo, op. cit., p. 6.
44 S. Barutti, S. Cazzanti, op. cit., p. 261.
45 S. Barutti, S. Cazzanti, op. cit., p. 263, nel ribadire la centralità del ruolo della famiglia nell’ambito della gestione della non autosufficienza, ricordano come la stessa costituisca, di fatto, una risorsa “a costo zero”. Espressione, quest’ultima, recuperata da M. V. Ballestrero, La conciliazione tra lavoro e famiglia. Brevi considerazioni introduttive, in Lavoro e diritto, n. 2, 2009, pp. 163, la quale, nel ricordare come la famiglia finisca per essere un partner esplicito del welfare state italiano (sul punto, si veda in particolare C. Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino, Bologna, 2003), ribadisce proprio il concetto secondo cui la stessa sia una risorsa a costo zero per lo Stato.
momenti critici e di disagio, sia nello sviluppo della vita quotidiana; sostiene la cooperazione, il mutuo aiuto e l'associazionismo delle famiglie; valorizza il ruolo attivo delle famiglie nella formazione di proposte e di progetti per l'offerta dei servizi e nella valutazione dei medesimi. Al fine di migliorare la qualità e l’efficienza degli interventi, gli operatori coinvolgono e responsabilizzano le persone e le famiglie nell’ambito dell’organizzazione dei servizi». Inoltre, partendo dalla consapevolezza maturata da parte del legislatore del sempre maggiore ricorso a collaboratori da parte di famiglie in difficoltà, merita un cenno la previsione ex art. 17, per cui i Comuni possono prevedere, su richiesta dell’interessato, l’erogazione di titoli validi per l’acquisto proprio di servizi sociali di assistenza, a patto che essi siano erogati da soggetti accreditati.
Va tuttavia evidenziato come, sebbene tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila si sia a lungo discusso della L. n. 328/2000 come di una riforma delle politiche sociali in grado di rivoluzionare l’intero sistema, in concreto, la stessa, che si concentra su principi fondamentali e sulla programmazione territoriale dei servizi, non ha prodotto gli effetti sperati in relazione al rafforzamento della protezione sociale. Le idee proposte nel Duemila, poi rafforzate con la riforma costituzionale dell’anno seguente (per cui lo Stato avrebbe dovuto definire dei livelli essenziali di assistenza e le regioni e gli enti locali avrebbero poi dovuto porre in essere standard minimi in tal senso) si è scontrata con la carenza di risorse economiche, che ha reso impossibile la realizzazione di tale ambizioso progetto46.
46 B. Da Roit, Quarant’anni di politiche di long-term care in Italia e in Europa, in Autonomie locali e servizi sociali, n. 3, 2017, pp. 596 ss. sottolinea come gli interventi proposti nei termini descritti abbiano avuto in passato ed abbiano tutt’oggi un impatto limitato, ponendo in evidenza come gli stessi abbiano avuto luogo senza risorse significative dedicate e senza un coordinamento e finanziamento su scala nazionale, in presenza si una netta separazione, avvenuta in quel periodo, tra politica sanitaria e politica sociale e generata dalla riforma sanitaria del 1978. Sul punto, si veda anche B. Da Roit, Strategies of Care. Changing Elderly Care in Italy and in the Netherlands, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2010, p. 29, in cui viene posto in evidenza come, di fatto, a seguito della riforma del 1978, la citata separazione tra politica sanitaria e sociale abbia
Le richiamate considerazioni assumono ancora più valore e pregnanza se si considera che, fino ad oggi, lo Stato ha promosso un modello di sostegno nei confronti dei caregiver familiari attraverso una serie di tutele “nel contratto” con conseguente esclusione di tutti coloro che svolgono assistenza di un parente non autosufficiente in via esclusiva47. A tal specifico riguardo, infatti, nel corso degli anni, si sono susseguiti principalmente tentativi che, nella consapevolezza dell’inadeguatezza della normativa vigente, hanno provato ad armonizzare e implementare le misure di tutela e di sostegno della conciliazione vita-lavoro proprio dei cosiddetti working carers, coloro che svolgono attività di cura dentro le mura domestiche e, contemporaneamente, hanno un lavoro retribuito. Al contrario, non è stato riconosciuto il medesimo valore a coloro che svolgono attività di cura in via esclusiva. Il cammino verso l’implemento delle misure di conciliazione vita-lavoro è proseguito, poi, con la Legge Fornero e con il Jobs Act. Nonostante ciò, la normativa è rimasta alquanto disorganica ed incompleta, indipendentemente dagli svariati e differenti strumenti messi a disposizione nel merito. Tra questi, vale la pena citare il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, in luogo del congedo parentale ed entro i limiti dello stesso spettante, introdotto dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n.
81. Diritto, quest’ultimo, ancora una volta specificatamente ancorato alle misure di conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro, che dimostra che gli strumenti di gestione flessibile dell’orario possono rientrare tra le misure di work-life balance, incoraggiandone la diffusione e provando a migliorare, così, le condizioni di tutti quei lavoratori che, parallelamente, hanno anche oneri di cura all’interno del nucleo familiare48. Assumendo una simile prospettiva, andrebbe
portato alla progressiva e sempre maggiormente evidente marginalizzazione ed emarginazione dei servizi sociali e del sostegno sociale.
47 Del tema della tutela dei caregiver esclusivamente all’interno del contratto si è occupata anche G. Pistore, op. cit., p. 207.
48 A. M. Battisti, Working Carers, cit., p. 3 ss., pone in evidenza gli aspetti richiamati, nell’ambito di una più ampia ricostruzione del contesto nazionale e della normativa vigente in materia. Nel
probabilmente incoraggiato in termini ancora più decisi il work-life balance nei confronti dei caregiver familiari, così come regolamentato dalla normativa vigente. Garantendo infatti allo stesso strumenti di protezione e sostegno più ampi ed efficaci di quelli esistenti sarebbe possibile contribuire, almeno in parte, a migliorare le condizioni dei familiari che assistono soggetti bisognosi. È divenuto infatti, ad oggi, indispensabile riuscire a riconoscere il valore non solo sociale ma anche economico dell’attività di cura svolta dal caregiver familiare, individuato come la persona che si prende cura, in casa e in maniera non professionale o comunque non contrattuale, di una persona che necessita di assistenza secondo quanto previsto dalla L. n. 104/199249, pur nella consapevolezza che interventi simili, da soli, difficilmente potrebbero in ogni caso risolvere tutte le problematiche ad oggi riscontrate.
2.2. I recenti tentativi di regolamentazione del caregiving familiare
Riconoscimento, quello dell’essenzialità del caregiving familiare, che il legislatore italiano ha introdotto in via definitiva con la Legge di Bilancio del 2018 (Legge 27 dicembre 2017, n. 205). La normativa ha, infatti, istituito un fondo di 20 milioni di euro per ogni anno del triennio 2018-2020, destinati al sostegno del ruolo di cura ed assistenza del caregiver familiare. Più nello specifico, secondo quando riportato all’art. 1, comma 254, «il fondo è destinato alla copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale del caregiver familiare».
ribadire tale concetto viene sottolineato come servano, nel complesso, interventi mirati per l’assistenza all’infanzia, nonché servizi di cura per assistenza ad anziani e persone a carico, che siano di qualità, disponibili, universalmente accessibili e abbiano costi ragionevoli, in modo tale da poter incidere positivamente sulle criticità ad oggi esistenti.
49 A. M. Battisti, op. cit., p. 5.
In tale contesto si è presentato poi il problema di riuscire a identificare l’esatto profilo del caregiver familiare stesso, destinatario delle descritte previsioni di legge. Ciò in ragione del fatto che, fino al 2017, l’ordinamento giuridico italiano non si era occupato del tema nei summenzionati termini. Il rischio inevitabile che si prefigurava era che, nella complessità del quadro normativo vigente, si presentasse la necessità, da parte del legislatore, di compiere, di volta in volta, una precisa scelta su quali soggetti includere nella cerchia della cura familiare, quali destinatari di benefici di svariato genere50. Per ovviare a tale potenziale problematica, con l’art. 1, comma 255, nella citata Legge di Bilancio è stata inserita una definizione di caregiver familiare, quale «persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado (…)». Ancora una volta, è evidente, i fondi legislativamente introdotti sono stati innanzitutto ancorati a legami di parentela o affettivi tra assistenti e assistiti e, sotto un’altra prospettiva, sono stati a lungo bloccati, considerando che solo con il decreto 27 ottobre 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 gennaio 2021, sono state individuate le modalità di redistribuzione di tali somme, attraverso un coinvolgimento degli attori regionali e locali.
L’impostazione di impronta, ancora una volta, fortemente familista, promossa con la Legge di Bilancio 2018, è stata confermata in primo luogo dall’art. 1, comma 483, della Legge di Bilancio 2019 (Legge 30 dicembre 2018, n. 145), che ha previsto solamente un incremento del fondo per i caregiver familiari pari a 5
50 I. Senatori, C. Favaretto, op. cit., p. 50, pongono in evidenza come, attualmente, nell’ordinamento giuridico italiano non sia possibile reperire una definizione univoca di caregiver, né tantomeno un corpus uniforme di disposizioni dirette alla sua tutela. Per tale ragione, nel corso degli anni, il quadro complessivo italiano ha comportato la necessità, per il legislatore, di compiere di volta in volta una precisa scelta su quali dovessero essere i soggetti beneficiari delle singole misure poste a tutela della non autosufficienza.
milioni di euro per ognuno degli anni del triennio 2019-2022. A ciò si aggiunga che anche la Legge di Bilancio 2021 (Legge 30 dicembre 2020, n. 178) ha provveduto unicamente ad occuparsi della cura familiare. Da un lato, infatti, l’art.
1, comma 334, ha previsto uno stanziamento di 30 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2021-2023, esclusivamente dedicati alla copertura degli interventi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico del caregiver familiare. Parallelamente, con l’art. 1, comma 365, è stato introdotto un ulteriore contributo economico, destinato esclusivamente a madri disoccupate o monoreddito, facenti parte di nuclei familiari monoparentali e con figli a carico, con una disabilità almeno pari al sessanta per cento. Nei confronti delle donne rispondenti ai citati requisiti è previsto lo stanziamento di un bonus mensile pari ad un massimo di 500 euro netti, per ognuno degli anni 2021,2022 e 2023.
Previsione, quest’ultima che, rimandando al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia, l’onere di definire dei criteri di determinazione e di fruizione delle somme, ha lasciato spazio a diversi dubbi interpretativi. Sicuramente, in ogni caso, l’aspetto che non può essere trascurato riguarda il campo dei destinatari. Osservando, infatti come del bonus potrebbero godere unicamente le madri (e non altri familiari quali, ad esempio, i padri) con un figlio con grave disabilità, è possibile constatare come sia stata ancora una volta confermata l’impostazione secondo cui la cura debba essere gestita prevalentemente ed in via preferenziale dalla famiglia se non, addirittura, esclusivamente dalle donne.
La sempre maggiore consapevolezza (e urgenza sociale) intorno al tema della cura familiare, oltre che la mancanza di una disciplina omogenea sul tema della non autosufficienza e della gestione domestica della cura, hanno fatto sì che, nelle ultime legislature, venissero presentate numerose proposte di legge, con l’obiettivo di vedere riconosciuti sempre maggiori diritti ai caregiver familiari. Il tema, in particolare, è stato affrontato con maggiore attenzione a partire dalla XVII legislatura, durante la quale sono stati presentati diversi disegni di legge su svariate tematiche, legate all’assistenza di persone non autosufficienti. In
particolar modo, il Disegno di Legge 2 settembre 2015, n. 2048, sulle misure in favore di persone che forniscono assistenza a parenti o affini anziani, era incentrato sulla gestione dei soggetti in età avanzata bisognosi di cure continuative. Il Disegno di Legge 5 novembre 2015, n. 2128, meglio conosciuto come Disegno di Legge Bignami, ambiva parallelamente al riconoscimento ed al sostegno degli assistenti familiari. Peculiarità di questa proposta legislativa risiedeva nella definizione di caregiver familiare, funzionale al riconoscimento della qualifica e delle conseguenti tutele. Nello specifico, all’art. 2, comma 1, si faceva riferimento a coloro che, in ambito domestico, si prendevano cura volontariamente e gratuitamente di un familiare o di un affine entro il secondo grado -ovvero di uno dei soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184- convivente e che, a causa di malattia, infermità o disabilità, era riconosciuto invalido civile al cento per cento, con conseguente esigenza di assistenza globale e continua ai sensi della L. n. 104/1992, per almeno cinquantaquattro ore settimanali, inclusi i tempi di attesa e di vigilanza notturni.
Tale definizione, prevedendo, da un lato, l’esigenza del riconoscimento di una disabilità al cento per cento e, dall’altro, che l’attività di cura fosse svolta per almeno cinquantaquattro ore settimanali, finiva con l’escludere dall’elenco dei destinatari una platea molto vasta di caregiver familiari, o perché impiegati in attività di cura per tempi inferiori o perché chiamati ad accudire un soggetto che, pur non autosufficiente, non si vedesse legalmente riconosciuta una disabilità totale da parte dello Stato.
Cronologicamente successivo, il Disegno di Legge 2 marzo 2016, n. 2266, denominato Legge quadro nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione del caregiver familiare, partendo dall’analisi della realtà nazionale, dichiarava, all’articolo 1, comma 2, come finalità, «il riconoscimento, la valorizzazione e la tutela di chi presta assistenza a una persona non autosufficiente, conciliando tale attività con la sua vita lavorativa e sociale (…)». Anch’esso concentrato sul caregiver familiare, obiettivo principale del D.d.L. era quello di ottenere il riconoscimento di tale figura, così da poterne valorizzare e sostenere il ruolo
all’interno della società. Inoltre, a partire dall’ottobre 2018, l’XI Commissione Congiunta del Senato aveva avviato l’analisi di diverse proposte, presentate da svariate forze politiche e incentrate sul tema dell’esigenza di maggiore tutela proprio del caregiving e del lavoro svolto quotidianamente per il sostegno di parenti bisognosi. In particolare, oggetto di analisi, in quei mesi, sono stati il Disegno di Legge 23 marzo 2018, n. 55, il Disegno di Legge 16 aprile 2018, n.
281, il Disegno di Legge 3 luglio 2018, n. 555, il Disegno di Legge 18 luglio 2018, n. 698 e il Disegno di Legge 10 ottobre 2018, n. 853 a cui, successivamente, si era aggiunto anche il Disegno di Legge 24 ottobre 2018, n. 890.
Nessuno di questi disegni è stato, tuttavia, nel tempo, approvato. Al contrario, il 4 febbraio 2020 era entrato in discussione presso la Commissione Lavoro del Senato il Disegno di Legge 7 agosto 2019, n. 1461, denominato Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare, avente, ancora, come obiettivo principale il riconoscimento di maggiori garanzie e tutele nei confronti dei caregiver in possesso dei requisiti previsti dal già citato art.1, comma 255, della Legge di Bilancio 2018. Sebbene il progetto risultasse sicuramente molto ambizioso, il Disegno di Legge sembrava confermare, sotto alcuni precisi profili, lo scarso valore economico riconosciuto al lavoro di cura. Se, da un lato, infatti, per i caregiver erano previste misure di ausilio importantissime quali gruppi di mutuo aiuto e di supporto psicologico, recuperando idee già parzialmente avanzate in passato, sotto un altro profilo, erano evidenti le problematicità di alcune previsioni introdotte. L’art. 5, in particolare, prevedeva infatti che al caregiver familiare fosse riconosciuta unicamente la copertura di contributi figurativi, equiparati a quelli del lavoro domestico e a carico dello Stato, nel limite complessivo di tre anni51. Non solo, quindi, la prosecuzione di una impostazione di un modello di gestione familiare della cura, ma, paradossalmente, anche il riconoscimento di esigui diritti nei confronti dei caregiver familiari stessi.
51 Del tema si occupa in particolare S. Borelli, Who Cares? Il lavoro nell’ambito dei servizi di cura alla persona, Jovene Editore, Napoli, 2020, p. 38.