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TRACCE E PARERI DI DIRITTO PENALE. (Con traccia per l esercitazione)

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TRACCE E PARERI DI DIRITTO PENALE

III

(Con traccia per l’esercitazione)

CORSO INTENSIVO AVVOCATO 2019 a cura dell’avv. Giulio Forleo

www.jurisschool.it

www.ildirittopenale.blogspot.com

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INDICE

Premessa………. 3

Traccia assegnata nella precedente dispensa………4

Possibile soluzione parere………...5

Schema risolutivo atto………..…10

Traccia: Dolo, aberratio ictus e reato continuato…...………13

Soluzione Traccia 1………...………14

Traccia: Dolo eventuale e reati di pura condotta………...18

Soluzione Traccia 2……….…………. 19

Traccia: elemento soggettivo e distinzione tra concorso e favoreggiamento…………...34

Soluzione Traccia 3……….…………..…35

Traccia: Furto e dolo specifico………...46

Soluzione Traccia 4……….…………..47

Traccia: Elemento soggettivo e distinzione tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni……….…….50

Soluzione Traccia 5……….…………..51

Traccia: Attività medica e violenza sessuale: elemento soggettivo e consenso del paziente………..…58

Soluzione Traccia 6……….…………..59

Traccia: Elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale………..71

Soluzione Traccia 7……….…………..72

Traccia: Colpa in concreto e morte come conseguenza di altro delitto………...80

Soluzione Traccia 8………... 81

Traccia: La previsione dell’evento nella colpa cosciente: elementi sintomatici………..86

Soluzione Traccia 9………... 87

Traccia: La causalità della colpa………..97

Soluzione Traccia 10... 98

Massime rilevanti 2019………..……... 107

Traccia per l’esercitazione……….………115

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3

Premessa Gentili ragazze/i,

in questa terza dispensa del modulo di penale affronteremo le tematiche connesse all’elemento soggettivo del reato.

Molte delle pronunce scelte in questa dispensa affrontano in maniera approfondita tematiche oggetto di importanti dibattiti giurisprudenziali. Cercate di studiare e memorizzare anche le massime poste nelle ultime pagine, scelte sempre nell’ottica degli argomenti “papabili”.

Di particolare importanza sono le sentenze relative ai rapporti tra aberratio ictus ed elemento soggettivo e quelle che delimitano il perimetro della colpa (causalità della colpa ed elementi sintomatici della colpa cosciente).

Nella prima parte della dispensa troverete altresì la soluzione della traccia del parere assegnata nel modulo di penale 2 e lo schema risolutivo dell’atto di penale. Dal prossimo modulo invertirò le soluzioni, fornendovi l’atto svolto e lo schema del parere.

La soluzione della prova intermedia di penale sarà invece presente nel modulo Penale n.4.

Per qualsiasi delucidazione e/o chiarimento non esitate a scrivermi all’indirizzo [email protected].

Grazie mille e buon lavoro.

Roma, lì 22.10.2019

Avv. Giulio Forleo

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TRACCIA ASSEGNATA NELLA PRECEDENTE DISPENSA

Tizio e Caia, conviventi da oltre sedici anni, perdevano entrambi all’improvviso il proprio posto di lavoro. Tizio, preoccupato per la futura situazione patrimoniale, tenendo all’oscuro la compagna, decideva di compiere un furto, durante l’orario di chiusura, nel supermercato Beta sito nella vicina città di Brindisi.

Giunto sul luogo, dopo aver forzato la porta nel retro, entrava nell’esercizio commerciale e s’impossessava di tutto il denaro presente nelle casse.

Mentre si apprestava ad uscire del locale, però, sopraggiungeva il proprietario Sempronio che, posizionandosi dinanzi alla porta d’uscita, gli intimava di lasciare il bottino ed allontanarsi. Di tutta risposta Tizio colpiva l’uomo con il piede di porco utilizzato per forzare la porta e si procurava la fuga.

Sempronio chiamava subito le Forze dell’Ordine indicando il numero di targa del veicolo con cui il malfattore si era allontanato.

Immediatamente le Forze dell’Ordine attraverso il numero di targa risalivano a Tizio e si dirigevano al suo indirizzo di residenza.

Nel frattempo Tizio, tornato nella propria abitazione, in preda alla paura e all’agitazione, confessava a Caia quanto accaduto e le raccomandava di non riferire a nessuno della sua presenza nell’appartamento.

Udito il rumore delle sirene, si rifugiava nel garage di pertinenza dell’abitazione.

Giunte all’indirizzo, le Forze dell’Ordine chiedevano a Caia se il compagno Tizio fosse presente nell’abitazione o se conoscesse dove si trovava in quel momento.

Caia escludeva la presenza dell’uomo nell’immobile e riferiva di non sapere dove fosse.

Le Forze dell’Ordine, insospettite dall’atteggiamento tentennante di Caia, si appostavano in una vicina via; dopo qualche ora vedevano Tizio uscire dal garage e subito lo traevano in arresto.

In virtù della descritta condotta agevolatrice, la Procura della Repubblica contestava a Caia il reato di favoreggiamento personale, previsto e punito dall’art. 378 c.p.

All’esito del dibattimento, il Tribunale di Brindisi dichiarava Caia responsabile del delitto di cui all’art. 378 c.p. e pronunciava una sentenza di condanna alla reclusione di anni due, nei confronti di Caia.

Preoccupata per la condanna ricevuta, Caia si rivolge al vostro studio legale al fine di:

a) ottenere parere motivato in merito alla possibilità di impugnare favorevolmente la sentenza del Tribunale di Brindisi;

b) redigere l’atto di gravame.

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POSSIBILE SOLUZIONE PARERE

Viene richiesto parere legale da Caia, convivente “more uxorio” da più di sedici anni di Tizio, in ordine alla possibilità di impugnare favorevolmente la sentenza del Tribunale di Brindisi che l’ha ritenuta responsabile del delitto di cui all’art. 378 c.p. per aver mentito alle Forze dell’Ordine al fine di evitare l’arresto al suo convivente, ricercato per aver commesso – all’insaputa della donna – una rapina impropria ai danni del Supermercato Beta e del suo proprietario Sempronio.

In particolare, Caia, quando Tizio tornava a casa raccontandole della rapina e chiedendole di mentire alle Forze dell’Ordine sulla sua presenza in casa, acconsentiva e, all’arrivo dei militari, dichiarava loro falsamente di non aver avuto notizie del suo compagno.

Poco dopo, tuttavia, Tizio veniva comunque tratto in arresto. I militari, infatti, poco convinti dall’atteggiamento tentennante di Caia, si erano appostati in una via vicina all’abitazione di residenza della coppia e dopo qualche ora avevano visto Tizio uscire dal garage di pertinenza della casa, dove si era rifugiato subito dopo aver udito il rumore delle sirene in avvicinamento.

Al fine di fornire una soddisfacente risposta al quesito posto da Caia occorrerà analizzare, in primo luogo, il reato di favoreggiamento personale, per verificare la sussumibilità in astratto della condotta di Caia sotto tale fattispecie delittuosa; in secondo luogo, si dovrà esaminare l’applicabilità anche ai conviventi di fatto, quale è Caia rispetto a Tizio, della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1 c.p..

Quanto alla fattispecie di favoreggiamento personale, l’art. 378 c.p. punisce chiunque, dopo che sia stato commesso un delitto e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuti taluno ad eludere le investigazioni dell’autorità o a sottrarsi alle ricerche.

Inserito nel titolo del codice penale dedicato ai reati contro l’amministrazione della giustizia, il delitto di favoreggiamento personale, in quanto reato di pericolo, deve ritenersi integrato da qualsiasi comportamento idoneo, sia pure in astratto, ad intralciare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale nel momento dell’accertamento e della repressione dei reati.

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo, il reato in parola consiste nel turbamento della funzione giudiziaria e non richiede che le investigazioni dell’autorità siano effettivamente fuorviate, risultando sufficiente, ai fini della sua configurabilità, che la condotta del soggetto agente abbia l’attitudine e possa conseguire lo scopo di aiutare l’autore del delitto presupposto ad eludere le investigazioni in corso, per effetto anche di un mero sviamento delle stesse.

In particolare, costituisce aiuto punibile, in presenza degli altri presupposti, ai sensi dell’art. 378 c.p., qualsiasi atteggiamento, commissivo od omissivo, che favorisca l’elusione delle investigazioni;

pertanto, il comportamento del favoreggiatore, secondo costante giurisprudenza, può concretizzarsi anche nelle mendaci dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, così come nel silenzio, nella reticenza o nel rifiuto di fornire notizie (Cass. 31436/2004; Cass. 37757/2010). Presupposto indispensabile per l’esistenza del reato di favoreggiamento è che sia stato precedentemente commesso un reato da soggetto diverso dal favoreggiatore (c.d. favorito). Nel caso di specie, dunque, presupposto per la

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sussumibilità della condotta di Caia sotto la fattispecie di cui all’art. 378 c.p. è la commissione di un fatto di reato da parte di Tizio (c.d. reato presupposto), che la donna prova a sottrarre all’arresto da parte delle Forze dell’Ordine. Analizzando la condotta di Tizio appaiono sussistenti tutti gli elementi della fattispecie della rapina aggravata dall’uso di armi, di cui all’art. 628, comma 2, n. 1 c.p..

Quanto, poi, all’espressa clausola di riserva “fuori dei casi di concorso” contenuta nell’art. 378 c.p., dalla stessa discende che la fattispecie in esame ricorra nei soli casi in cui il soggetto favoreggiatore non sia stato coinvolto nella commissione del reato presupposto, né oggettivamente mediante un apporto causale materiale, né tantomeno soggettivamente, attraverso la manifestazione di disponibilità a fornire all’autore del reato un rilevante aiuto ai fini della sua consumazione (Cass.

33450/2001).

Per valutare la configurabilità in capo a Caia del reato di favoreggiamento, occorre dunque verificare se la stessa abbia con la sua condotta contribuito alla consumazione della rapina impropria o se il suo apporto sia stato esclusivamente diretto ad aiutare Tizio ad eludere le investigazioni dell’Autorità successivamente alla realizzazione del reato.

La giurisprudenza unanime ritiene, infatti, che la differenza tra concorso nel reato e favoreggiamento vada individuata con riferimento all’elemento psicologico “dimodoché è ravvisabile il concorso nel reato presupposto se l’agente non si limiti ad aiutare taluno a eludere le investigazioni dell’autorità

ma partecipi con animus socii all’attività concorsuale del reato, adoperandosi in funzione essenziale, o comunque apprezzabile, in rapporto di causalità con l’evento.” (ex multis Cass., n. 1325/1998).

Le circostanze per cui Caia veniva a conoscenza della commissione della rapina da parte di Tizio solo dopo la consumazione della stessa, quando il convivente tornava a casa per nascondersi dalle Forze dell’Ordine, e si determinava ad aiutarlo al solo fine di evitare il suo arresto, impediscono di ravvisare nella sua condotta un contributo concorsuale alla realizzazione della rapina. Risulta integrato, dunque, anche il presupposto della assenza di concorso nel reato presupposto.

Quanto all’elemento soggettivo del reato di favoreggiamento, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che per la sussistenza del delitto in questione sia sufficiente il dolo generico, ovverosia la volontà cosciente di aiutare una persona a sottrarsi alle investigazioni o alle ricerche dell’autorità, nonché la ragionevole consapevolezza dell’apprezzabilità del suo contributo di aiuto al detto soggetto, conoscendone il reato presupposto (Cass. 24035/2011).

Orbene, nel caso di specie, nel momento in cui Caia ha escluso la presenza di Tizio all’interno della loro abitazione, riferendo alle Forze dell’Ordine intervenute di non sapere dove fosse, ha posto coscientemente in essere una condotta idonea a configurare l’ipotesi di reato in parola, rendendo dichiarazioni mendaci al solo scopo di consentire al convivente Tizio di eludere le investigazioni dell’autorità a suo carico in seguito alla commissione della rapina, così intralciando le ricerche in corso.

Nel caso “de quo”, dunque, sembrerebbe che la configurabilità di tale reato in capo a Caia non incontri alcun ostacolo, ricorrendone tutti i presupposti.

Alcun rilievo ha, poi, al riguardo, il fatto che le Forze dell’Ordine siano comunque riuscite a trarre in

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arresto Tizio, nonostante le false dichiarazioni rese da Caia proprio al fine di evitare tale circostanza.

Come precedentemente rilevato, infatti, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene che il reato in esame sia integrato anche quando l’aiuto prestato dal favoreggiatore si sia arrestato alla semplice potenzialità ed attitudine a conseguire detto scopo, senza tuttavia raggiungerlo realmente.

Orbene, verificata la sussumibilità della condotta di Caia sotto la fattispecie di cui all’art. 378 c.p., occorre ora valutare l’applicabilità nei suoi confronti della causa di non punibilità prevista dall’art.

384, comma 1 c.p., avuto riguardo alla sua qualità di convivente “more uxorio” del favorito.

La norma in questione esclude la punibilità in relazione a determinate fattispecie criminose, quando il fatto sia stato commesso dall’autore poiché costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento alla libertà e all’onore.

Ciò detto, per valutare l’applicabilità a Caia della suddetta causa di non punibilità occorre soffermarsi sul significato da attribuire all’espressione “prossimo congiunto” contenuta nel primo comma dell’art.

384 c.p..

Definizione generale di prossimo congiunto in ambito penale è fornita dall’art. 307, comma 4 c.p., alla stregua del quale “Agli effetti della legge penale, s'intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorchè sia morto il coniuge e non vi sia prole”.

La norma in esame non ricomprende, dunque, nella nozione di prossimo congiunto il convivente

“more uxorio”. Il combinato disposto degli artt. 307, comma 4 e 384, comma 1 c.p. sembrerebbe escludere, allora, l’applicabilità della causa di non punibilità in questione al convivente di fatto.

Occorre interrogarsi, quindi, sulla possibilità di un’interpretazione analogica della disposizione in relazione alla sua natura giuridica: l’eventuale inquadramento dell’art. 384 c.p. quale norma eccezionale attiverebbe infatti il divieto di analogia di cui agli artt. 12 e 14 delle Preleggi.

In proposito, sebbene parte della dottrina e della giurisprudenza la inquadrino quale causa di giustificazione (l’esimente in questione troverebbe il suo fondamento nello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., del quale costituirebbe una “species”) oppure quale causa di esclusione della colpevolezza, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti la ritengono causa speciale di non punibilità e, dunque, avente natura “eccezionale”.

Tale inquadramento ha indotto per molto tempo la giurisprudenza di legittimità ad escludere la possibilità di estendere in via analogica la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1 c.p. al convivente “more uxorio”. In particolare, proprio con riferimento alla fattispecie di favoreggiamento personale, la Corte di Cassazione ha sostenuto la non applicabilità di detta esimente “operante per il coniuge, al convivente di fatto resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma 1 c.p. e 307, ultimo comma c.p.” (Cass. 35967/2006).

Tale arresto giurisprudenziale ha preso le mosse da quanto in precedenza affermato in materia dalla Corte Costituzionale; questa, in particolare, con sentenza n. 140/2009 ha ritenuto infondata la

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questione di legittimità costituzionale dell’art. 384, comma 1 c.p., censurato in riferimento agli artt.

2, 3 e 29 Cost., evidenziando la differenza tra convivenza “more uxorio” e vincolo coniugale, sull’assunto che “si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare dall’altro, ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti di famiglia di fatto e della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità. Ciò legittima nel settore dell’ordinamento penale soluzioni legislative differenziate” (Corte Cost. n. 140/2009).

Deve tuttavia evidenziarsi che recentemente la stessa Corte di Cassazione, spinta dall’esigenza di dare conto dell’importante mutamento del concetto di famiglia intervenuto nell’attuale contesto sociale, ricorrendo ad un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata del medesimo concetto di famiglia, ha radicalmente mutato il proprio orientamento, ammettendo nel novero dei

“prossimi congiunti” anche il convivente “more uxorio”.

In particolare con la sentenza n. 34147 del 4 agosto 2015 la Suprema Corte ha chiarito che “la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 comma primo c.p. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio” sul presupposto che “oggi, famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”.

Successivamente, tale ridefinizione del concetto di famiglia è stata altresì avallata dalla c.d. Legge Cirinnà (L. 76 del 2016) che, oltre a regolamentare l’unione civile delle persone dello stesso sesso, ha introdotto anche una disciplina delle convivenze di fatto.

Sotto il profilo penalistico, poi, il D.l.vo n. 6 del 2017 ha modificato proprio l’art. 307, comma 4, c.p.

inserendo nel novero dei “prossimi congiunti” la categoria “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

Anche alla luce di tali novità normative che, sebbene non incidenti in maniera diretta sulla questione della estensione dell’art. 384 c.p. alle convivenze di fatto, hanno notevolmente ampliato la nozione di famiglia (ad esempio equiparando al matrimonio l’unione civile tra persone dello stesso sesso) si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n.11476 del 2019 secondo cui “La causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti, dovendosi recepire un'interpretazione "in bonam partem" che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza "more uxorio" alla famiglia fondata sul matrimonio. (In motivazione, la Corte ha precisato che l'equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un'unione civile, prevista dal d.lgs.

19 gennaio 2017, n. 6, non esclude l'estensione della causa di non punibilità ai conviventi "more uxorio", trattandosi di soluzione già consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla

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nozione di famiglia desumibile dall'art. 8 Cedu, ricomprendente anche i rapporti di fatto)”.

Alla luce di quanto detto, si deve ritenere che, nel caso di specie, come è emerso dai fatti narrati, Caia e Tizio sono conviventi da oltre sedici anni, circostanza questa che, nel sottolineare la stabilità della relazione di fatto, depone a favore dell’applicabilità a Caia della causa di non punibilità in questione.

In conclusione, impiegando gli enunciati principi al caso in esame, è possibile prospettare a Caia l’opportunità di impugnare la sentenza del Tribunale di Brindisi dinanzi alla Corte d’Appello di Lecce in quanto, nonostante il suo comportamento potesse configurare il delitto di favoreggiamento personale, il giudice di prime cure avrebbe dovuto comunque assolverla con formula “perché il fatto non costituisce reato”, stante l’applicabilità alla stessa della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma primo, c.p..

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SCHEMA RISOLUTIVO ATTO

Ai fini di un corretto svolgimento dell’atto assegnato bisognava sviluppare i seguenti punti.

1. Interrogarsi sulla Corte d’Appello da adire in considerazione del fatto che la sentenza di 1° grado è stata emessa dal Tribunale di Brindisi: individuarla nella Corte d’Appello di Lecce.

2. Procedere ad una breve ricostruzione dei fatti, nell’ambito della quale mettere particolarmente in risalto la circostanza per cui Tizio, aiutato da Caia ad eludere le investigazioni dell'Autorità, era il convivente dell’imputata da oltre 16 anni.

3. Indicare espressamente (a pena di inammissibilità) i capi e i punti della sentenza da impugnare: “la sentenza è errata e va riformata nella parte in cui ha condannato Caia alla pena di anni due di reclusione per il reato di favoreggiamento di cui all’art. 378 c.p., non rilevando l’applicabilità in favore dell’imputata della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p.”.

4. Formulare apposito motivo con titoletto “Error in iudicando et in procedendo - Violazione e falsa applicazione degli artt. 378, 384, comma 1, e 307, comma 4, c.p. – Erronea qualificazione del fatto – Mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p.”

4.1. Nell’incipit del motivo, dopo aver ribadito nuovamente il capo della sentenza di cui si chiede la riforma, chiarire subito che la qualificazione operata dalla pronuncia di primo grado della condotta di Caia ai sensi dell’art. 378 c.p. è errata nella parte in cui, non attribuendo alcun rilievo al rapporto di convivenza tra l’imputata ed il compagno Tizio, non aveva ritenuto applicabile la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p. sebbene i fatti contestati fossero stati dalla stessa compiuti evidentemente per la necessità di sottrarre il convivente dall’arresto da parte delle forze dell’ordine.

4.2. Indicare che, sebbene si sia a conoscenza dell’esistenza di un dibattito giurisprudenziale in ordine all’applicabilità anche al convivente “more uxorio” della disciplina dettata dall’art. 384 c.p., la recente giurisprudenza di legittimità si è però orientata favorevolmente rispetto a tale possibilità, superando le difficoltà legate al divieto di analogia in ambito penale di cui agli artt. 12 e 14 delle Preleggi.

4.3 Approfondire in proposito il combinato disposto dagli artt. 384, comma 1, c.p. e 307, 4° comma, c.p. che chiarisce, ai fini della legge penale, il concetto di “prossimi congiunti”, non menzionando espressamente il convivente “more uxorio”.

4.4 Illustrare come tale qualificazione ha portato la giurisprudenza di legittimità, fino alla sentenza n.

34147 del 4 agosto 2015, ad escludere l’estensibilità della scusante alle coppie di fatto, stante inoltre la diversità tra il rapporto coniugale e quello di fatto.

Con la citata sentenza del 2015, però, la Cassazione mutava radicalmente il proprio orientamento, ritenendo, in virtù di un’interpretazione estensiva della norma, che “la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 comma primo c.p. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio” sul presupposto che “oggi, famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non

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costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”.

4.5 Riportare, inoltre, come negli ultimi anni il quadro normativo in materia sia stato modificato dalla legge 76/2016 che, oltre a regolamentare l’unione civile delle persone dello stesso sesso, ha introdotto una disciplina delle convivenze di fatto.

Sotto il profilo penalistico, poi, il D.l.vo n. 6 del 2017 ha modificato proprio l’art. 307, comma 4, c.p.

inserendo nel novero dei “prossimi congiunti” la categoria “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

4.6 Sottolineare come, anche alla luce di tali novità normative che, sebbene non incidenti in maniera diretta sulla questione della estensione dell’art. 384 c.p. alle convivenze di fatto, hanno notevolmente ridefinito il concetto di famiglia (ad esempio equiparando al matrimonio l’unione civile tra persone dello stesso sesso) si è espressa nuovamente la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n.11476 del 2019 secondo cui “La causa di non punibilità prevista dall'art. 384 c.p. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti, dovendosi recepire un'interpretazione "in bonam partem" che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza "more uxorio" alla famiglia fondata sul matrimonio. (In motivazione, la Corte ha precisato che l'equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un'unione civile, prevista dal d.lgs.

19 gennaio 2017, n. 6, non esclude l'estensione della causa di non punibilità ai conviventi "more uxorio", trattandosi di soluzione già consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall'art. 8 Cedu, ricomprendente anche i rapporti di fatto)”.

4.7 Concludere il motivo evidenziando che, applicando gli enunciati principi al caso di specie, il Tribunale di Brindisi avrebbe dovuto assolvere Caia in virtù della causa di non punibilità ex art. 384 primo comma c.p.; il mancato riconoscimento di tale causa di non punibilità comporta l’illegittimità della sentenza impugnata con conseguente necessità di una sua riforma da parte della Corte d’Appello adìta.

5. Essendo specificata la pena, era possibile formulare un secondo motivo di impugnazione con titoletto “Erronea applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p. – Mancata applicazione attenuanti generiche – Eccessiva onerosità della pena”.

5.1 Indicare che la sentenza impugnata merita di essere riformata anche da un punto di vista del trattamento sanzionatorio applicato.

Disattendendo i parametri descritti dall’art. 133 c.p. il giudice di prime cure ha determinato una misura sanzionatoria eccessiva e manifestamente sproporzionata, in relazione alla concreta gravità del fatto contestato, soprattutto considerato il rapporto di convivenza tra Caia e Tizio che aveva spinto la prima a preservare il compagno dal potenziale arresto.

Tali peculiarità del fatto avrebbero inoltre dovuto comportare l’applicazione delle attenuanti generiche ex art. 62 c.p.

6. Chiedere, in riforma della sentenza impugnata:

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- l’assoluzione dell’imputata dal reato di cui all’art. 378 c.p. con formula “perchè il fatto non costituisce reato”;*

- in subordine, applicare le attenuanti generiche e rideterminare la pena nel minimo edittale.

* In alternativa era possibile utilizzare la formula assolutoria “perchè il reato è stato commesso da persona non punibile” (l’incertezza sulla natura della causa di non punibilità ex art. 384, comma 1, c.p. determina discordanze sulle formule assolutorie applicabili);

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1) DOLO, ABERRATIO ICTUS E REATO CONTINUATO

Traccia parere.

Tizio, noto esponente del Clan mafioso Beta, decideva di dichiarare guerra al clan rivale Alfa a causa della rottura da parte dei suoi esponenti, Caio e Sempronio, dell’accordo raggiunto per la gestione del Porto. In tale prospettiva organizzava un’azione dimostrativa nei confronti della famiglia di Caio. Insieme a due suoi uomini si recavano nei pressi dell’abitazione di questi e, con armi automatiche, aprivano il fuoco verso l’abitazione, colpendo mortalmente Mevia e Romolo, figli di Caio. Intravedevano altresì due persone all’interno di un’automobile parcheggiata dinanzi al portone d’ingresso e, pensando si trattasse proprio di Caio e della moglie Gianna, sparavano anche verso l’auto. In realtà i due occupanti erano due fidanzatini appartatisi nel vicolo ove era situata l’abitazione.

Catturato dopo una breve latitanza, Tizio veniva condannato per i quattro omicidi commessi. La Corte d’Assise non riconosceva però il vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. rispetto all’omicidio dei due fidanzatini, ritenendo che dell'aberratio ictus in cui era incorso l’agente era idonea a escludere il presupposto del medesimo disegno criminoso.

Il candidato, premessi brevi cenni sugli istituti sottesi, rediga parere legale sulla vicenda.

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14 SOLUZIONE TRACCIA 1

Cassazione penale sez. I, 15/01/2019, (ud. 15/01/2019, dep. 28/01/2019), n. 4119

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con l'ordinanza indicata in rubrica la Corte d'assise d'appello di Messina, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha rigettato l'istanza ex art. 671 c.p.p. con cui T.S. aveva chiesto l'applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva tra i fatti giudicati con quattro diverse sentenze di condanna emesse nei suoi confronti, consistiti rispettivamente:

- nella partecipazione al sodalizio mafioso "clan dei C.", in due tentati omicidi in danno di Tr.Gi.

e nell'omicidio di quest'ultimo e di M.D. (giudicati con sentenza 28.11.2009 della Corte d'assise d'appello di Messina);

- nell'omicidio di S.L. e Mi.Ba. (giudicato con sentenza 14.12.2004 della Corte d'assise di Messina);

- nell'omicidio di P.S. (giudicato con sentenza 30.06.2001 della Corte d'assise d'appello di Messina);

- nell'omicidio di Ca.Sa. (giudicato con sentenza 27.10.2000 della Corte d'assise d'appello di Messina).

Dopo aver richiamato i principi di diritto in materia di riconoscimento della continuazione, con particolare riguardo ai fatti commessi in ambito associativo, e individuato il reato più grave nell'omicidio di P.S., commesso il (OMISSIS), per il quale era stata inflitta la pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di mesi tre, il giudice dell'esecuzione riteneva il relativo omicidio estraneo, per contesto e causale, all'operatività dell'associazione partecipata dal T.;

escludeva la configurabilità della continuazione tra gli omicidi di S.L. e Mi.Ba., commessi il (OMISSIS), e gli altri delitti, in quanto le due vittime erano state uccise per errore di persona (essendo invece Tr.Gi. la vittima designata del gruppo di fuoco), con conseguente occasionalità ed estemporaneità della relativa azione criminosa; giudicava parimenti occasionale e contingente, quanto al momento della sua attuazione e all'insorgenza della relativa determinazione delittuosa, l'omicidio di Ca.Sa., commesso il (OMISSIS), che si inseriva nella strategia perseguita da Ch.Gi.

di eliminazione dei fuoriusciti dal sodalizio mafioso da lui capeggiato, e non poteva perciò costituire frutto di una originaria preordinazione, insorta al momento dell'adesione del T. al sodalizio, comune ad altri omicidi dallo stesso commessi per ragioni diverse.

2. Ricorre per cassazione T.S., a mezzo del difensore, deducendo tre motivi di doglianza, coi quali lamenta:

- erronea applicazione delle norme sulla continuazione e illogicità della motivazione, con riguardo al diniego del riconoscimento del vincolo ex art. 81 c.p. relativamente all'omicidio di P.S.;

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premesso che l'istanza formulata ex art. 671 c.p.p. concerneva esclusivamente la continuazione c.d. orizzontale tra i reati-scopo (e non quella c.d. verticale col reato associativo), il ricorrente rileva che l'affiliazione al clan Ch. risaliva agli anni (OMISSIS), nel ruolo di killer, allorchè era già stata programmata l'eliminazione fisica dei fuoriusciti dal sodalizio mafioso, tra i quali Tr.Gi.

e Ca.Sa., nei confronti dei quali erano immediatamente iniziati gli attentati e le esecuzioni con la partecipazione del T., che aveva allora assentito anche al patto di mutua assistenza stipulato - per la commissione dei delitti di sangue con Ma.Ma., nell'interesse del quale il P. era stato ucciso nel (OMISSIS);

- violazione di legge in relazione all'art. 82 c.p., comma 1 e art. 81 c.p., comma 2, con riferimento al diniego della continuazione tra gli omicidi (dapprima tentati e poi consumati) di Tr.Gi. e M.D., da un lato, e quelli di S.L. e Mi.Ba., dall'altro; il ricorrente censura l'idoneità dell'aberratio ictus che aveva caratterizzato questi ultimi due omicidi a escludere il vincolo della continuazione con quelli del Tr. e del M., posto che la vittima designata dell'erronea azione delittuosa era proprio Tr.Gi. e l'errore, verificatosi nella fase esecutiva del delitto, non incideva perciò sul momento deliberativo e volitivo dello stesso, del quale l'autore doveva rispondere come se avesse commesso il reato in danno della persona che aveva programmato di offendere;

- vizio della motivazione, perchè illogica e contraddittoria, con riferimento al diniego della continuazione rispetto all'omicidio di Ca.Sa., delitto di cui l'ordinanza impugnata aveva riconosciuto la riconducibilità alla strategia di eliminazione dei fuoriusciti dal clan Ch., con conseguente irrilevanza della natura occasionale del momento in cui era stato commesso il reato, attinente alla fase della sua esecuzione e non a quella della sua ideazione, originaria e comune alla deliberazione di uccidere Tr.Gi., tanto che il Ca. era già stato oggetto nell'(OMISSIS) di un attentato, del quale il T. si era assunto la responsabilità.

3. Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui chiede il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.

2. Con riguardo alle censure dedotte nel primo e nel terzo motivo di ricorso, che possono essere esaminate congiuntamente, va rilevato che la motivazione dell'ordinanza impugnata si rivela effettivamente carente e incongrua rispetto all'oggetto dell'istanza formulata dal ricorrente ex art.

671 c.p.p., che come emerge dal relativo dato testuale - riguardava dichiaratamente il riconoscimento della continuazione tra i soli reati-fine commessi nell'arco temporale compreso tra il (OMISSIS) nell'ambito della c.d. "guerra di mafia" che aveva contrapposto il sodalizio criminale partecipato dal T. (clan Ch.) a quello dei "(OMISSIS)", e che sono costituiti da omicidi, consumati e tentati e violazioni della disciplina delle armi.

Il giudice dell'esecuzione, invece, ha argomentato il rigetto dell'istanza del T. con riferimento, essenzialmente, alla ritenuta insussistenza di una continuazione c.d. verticale tra il reato

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associativo e i singoli delitti contro la persona, sotto il profilo dell'assenza di una riconducibilità di questi ultimi, anche ove commessi nell'ambito delle attività del clan mafioso e finalizzati al suo rafforzamento, a una programmazione originaria insorta fin dal momento dell'adesione del ricorrente al sodalizio; tale motivazione, però, non si confronta in modo adeguato e non risponde puntualmente alla richiesta di riconoscimento della continuazione c.d. orizzontale (e cioè tra i reati-scopo dell'associazione) formulata dal T. e incorre perciò nel vizio di incoerenza logica denunciato nei motivi di ricorso.

3. Anche la censura dedotta nel secondo motivo di ricorso è fondata.

L'aberratio ictus, prevista dall'art. 82 c.p., che si verifica quando, per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un'altra causa, l'offesa - tipica della fattispecie criminosa - è cagionata a una persona diversa da quella alla quale era diretta, postula la completa estraneità dell'errore, nel quale è incorso l'agente, al momento ideativo e volitivo del reato, e dunque alla relativa determinazione delittuosa, in quanto l'errore incide esclusivamente sull'oggetto materiale della condotta, la quale, invece di ledere il bene-interesse della persona nei cui confronti l'offesa era diretta (e voluta), lede il medesimo bene di una persona diversa.

Nella giurisprudenza di questa Corte costituisce perciò principio consolidato, in coerenza alla ricostruzione pacifica dell'istituto di cui all'art. 82 c.p., che l'accertamento dell'elemento psicologico del reato deve essere effettuato con riferimento alla persona nei cui confronti l'offesa era diretta (e non a quella effettivamente lesa); il dolo, dunque, deve sussistere esclusivamente (operando altrimenti il differente istituto del concorso di reati) nei riguardi della vittima programmata dell'azione delittuosa, avendosi poi per una sorta di fictio iuris la translatio del medesimo elemento psichico nei confronti della diversa persona concretamente offesa, nei cui riguardi il dolo sussiste ugualmente, con le stesse caratteristiche e intensità, perchè, se questo era l'originario elemento soggettivo dell'agente, l'offesa di una persona invece di un'altra non vale a mutare la direzione della volontà e i suoi contenuti (ex plurimis, Sez. 1 n. 15990 del 6/04/2006, Rv. 234132; Sez. 1 n. 8353 del 27/06/1988, Rv. 178925; nonchè Sez. 1 n. 18378 del 2/04/2008, Rv. 240374, secondo cui nel dolo, inteso come rappresentazione del fatto-reato normativamente tipizzato, non ricade l'identità personale della vittima prefigurata, che rimane dato esterno al fatto costituente reato).

Coerenti a tale ricostruzione sono le affermazioni di principio, tratte da questa Corte, per cui l'aggravante della premeditazione è compatibile col reato commesso in danno di persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta (Sez. 1 n. 16711 del 17/01/2014, Rv. 259521) ed è configurabile il concorso morale, nell'omicidio della persona diversa da quella alla quale l'offesa era diretta, del soggetto che non ha materialmente eseguito l'azione delittuosa nel corso della quale si è verificata l'aberratio, in quanto l'errore esecutivo non ha alcuna incidenza sull'elemento soggettivo del partecipe morale, essendosi comunque realizzata l'azione concordata con l'autore materiale, il cui esito aberrante è privo di rilevanza ai fini della qualificazione del reato sotto il

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profilo oggettivo e soggettivo (Sez. 1 n. 38549 dell'8/07/2014, Rv. 260797).

Non vi è perciò ragione di negare la configurabilità dell'unitarietà del disegno criminoso che fonda la disciplina del reato continuato, allorchè uno dei reati facenti parte dell'ideazione e programmazione unitaria abbia avuto un esito aberrante rispetto all'originaria determinazione delittuosa, in quanto per un mero errore esecutivo l'evento voluto dall'agente si sia verificato in danno di una persona diversa da quella alla quale era rivolta l'offesa: tale evenienza non muta, infatti, i termini dell'accertamento dell'elemento psicologico richiesto per l'integrazione della continuazione, che deve riguardare la riconducibilità a una comune e unitaria risoluzione criminosa del fatto-reato così come in origine programmato, il cui contenuto volitivo, attuativo di quella risoluzione, rimane uguale e non subisce alcuna modifica per il solo fatto che l'oggetto materiale della condotta è accidentalmente caduto su una persona diversa.

L'ordinanza impugnata è dunque incorsa nell'errore di diritto lamentato dal ricorrente, laddove ha escluso la configurabilità dell'identità di disegno criminoso tra i fatti delittuosi in danno di Tr.Gi.

e l'omicidio di S.L. e Mi.Ba. (accertatamente uccisi per un errore di persona nel contesto della sequenza criminosa finalizzata all'uccisione del Tr., il cui omicidio aveva costituito l'epilogo di una serie di attentati in suo danno nei quali erano rimasti incidentalmente coinvolti il S. e il Mi., così come emerge chiaramente dalla lettura della sentenza 14.12.2004 della Corte d'assise di Messina) sul solo presupposto che la sussistenza della continuazione doveva essere valutata con riguardo ai soggetti materialmente uccisi e non all'identità del reale obiettivo dell'azione delittuosa.

4. L'ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata, con rinvio alla Corte di assise di appello di Messina (in diversa composizione: Corte Cost. sentenza n. 183 del 2013), per un nuovo esame dell'istanza di T.S. che non incorra nei vizi di legittimità sopra indicati.

PQM P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di assise di appello di Messina.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2019

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2) DOLO EVENTUALE E REATI DI PURA CONDOTTA.

Traccia parere.

Tizio, collezionista di armi da fuoco e da taglio, si recava presso l’armeria del suo amico Mevio per visionari i nuovi arrivi e scegliere i nuovi pezzi da aggiungere alla sua collezione. Tra questi rimaneva colpiti da un fucile degli anni quaranta di fabbricazione russa.

Arrivato a casa e dedicandosi alla pulitura dell’arma acquistata, notava sulla stessa dei particolari anomali quali la presenza del “cane a becco”, di solito presente sulle armi da fuoco capaci di sparare a raffica.

Preoccupato dalla possibile irregolarità dell’arma telefonava a Mevio esponendogli i suoi dubbi.

Insieme concordavano una data per modificare il fucile ed eliminare i pezzi eventualmente irregolari.

A causa del sopraggiungere di una grave malattia della moglie Caia, Tizio dimenticava di riportarla a Mevio per le modifiche concordate.

Dopo circa un anno, nell’ambito di un’indagine internazionale tesa a smascherare un traffico illecito di armi da guerra dalla Russia, la polizia effettuava un’ispezione di tutte le abitazioni dei clienti di Mevio ed in quella di Tizio rinveniva la predetta arma.

Il perito balistico nominato dalla Procura attestava che l'arma sparava pacificamente a raffica e che lo sparo a raffica (cioè in modalità automatica) costituiva una caratteristica tipica dell'arma da guerra in questione, in ragione della sua spiccata capacità offensiva.

Imputato per i reati di detenzione, porto e ricettazione di un fucile da guerra di cui all'art. 81 c.p., L. n. 895 del 1967, artt. 1, 2 e 4, art. 648 c.p., Tizio si rivolge al vostro studio legale per ottenere un parere motivato circa la strategia difensiva da sostenere in giudizio.

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19 SOLUZIONE TRACCIA 2

Cassazione penale sez. I, 21/02/2018, (ud. 21/02/2018, dep. 23/11/2018), n.52869

Fatto

1. Con sentenza del Tribunale di Lecce del 16/05/2014, D.B.G. era assolto:

- dai reati di cui all'art. 81 c.p., L. n. 895 del 1967, artt. 1, 2 e 4, art. 648 c.p., di detenzione, porto e ricettazione di fucile denominato (OMISSIS), calibro (OMISSIS) di cui ai capi A) e B) e di fucile, di cui ai capi C e D), perchè il fatto non costituisce reato;

- dai reati di cui all'art. 81 c.p., L. n. 895 del 1967, artt. 1,2,4 e 7, di detenzione e porto di carabina e fucile, di cui ai capi E) e G), art. 81 c.p. e L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 10, di illegale detenzione di numerose armi in collezione e di munizioni di cui al capo H), art. 81 c.p., L. n. 895 del 1967, artt. 1,2,4 e 7, di illegale raccolta di armi da collezione per plurime violazioni ai divieti ("(...) per avere, con più azioni in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, essendo titolare di licenza di collezione, rilasciata dal Questore di Bari: illegalmente detenuto in collezione più di un esemplare del medesimo modello di armi catalogate e di più di due esemplari del medesimo modello di armi non catalogate, in violazione del divieto previsto dalla L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 6, derogabile ai sensi della circolare del Ministero dell'Interno del 14/02/1980 e della relativa nota di chiarimenti del 15/10/1986, solo per le armi non catalogate qualora gli esemplari presentino elementi di differenziazione tali da potersi considerare modelli diversi della stessa arma, con diversi punzoni e marchi: in particolare per 55 armi risultavano detenuti più esemplari del medesimo modello, senza alcuna differenziazione, per quelle non catalogate, valutate, valutabile ai sensi della predetta nota ministeriale (...)") e ai limiti della licenza di cui al capo I), L. n. 895 del 1967, artt. 1 e 7, di illegale cessione della pistola marca (OMISSIS) di cui al capo L) e art. 367 c.p., di presentazione di falsa denuncia di furto di tale pistola di cui al capo M), perchè il fatto non sussiste;

- dal reato di cui alla L. n. 110 del 1975, artt. 110 e 3, (alterazione delle caratteristiche di una carabina semiautomatica, aumentandone le potenzialità di offesa di cui al capo E), per non aver commesso il fatto.

Nel corso del giudizio dibattimentale, col consenso delle parti, erano acquisiti tutti gli atti del fascicolo del P.M..

1.1. Per quanto attiene ai reati di cui al capo A) della rubrica, nel corso dell'audizione resa nel corso dell'incidente probatorio e nella relazione scritta, il perito balistico d'ufficio B.C. attestava che l'arma sparava pacificamente a raffica, in ciò confortato dalle dichiarazioni e dagli elaborati dell'ing. M.V., consulente tecnico del P.M., e del dr. A.G., consulente tecnico dell'imputato. Lo sparo a raffica (cioè in modalità automatica) costituiva una caratteristica tipica dell'arma da guerra in questione, in ragione della sua spiccata capacità offensiva.

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La Parnisari Arms s.r.l. importava tale fucile e lo cedeva all'armeria GBM, la quale poi lo poneva in vendita come arma comune da sparo demilitarizzata e, quindi, semiautomatica. D.B. acquistava il fucile presso detta armeria e il (OMISSIS) ne denunciava la detenzione alle competenti autorità di P.S. come arma comune da sparo.

Durante l'interrogatorio del 29/10/2010, D.B. riferiva di aver incaricato l'armiere De.Br.Pa. della sostituzione del calciolo dell'arma con altro più piccolo; evidenziava di essersi accorto tra il (OMISSIS) della circostanza che il "cane" di cui era dotato il fucile aveva il "becco" tipico delle armi che sparano a raffica e di aver manifestato un dubbio sulla natura dell'arma a De.Br., il quale lo avvertiva che la certezza sul punto poteva essere ottenuta solo mediante una prova di sparo, per poi tranquillizzarlo in seguito ("... che te ne importa, non è possibile che spari a raffica, dai").

D.B. non si interessava alla natura dell'arma nei mesi successivi, in quanto la sua maggiore preoccupazione era costituita dalla diagnosi di una grave malattia del proprio coniuge. Il (OMISSIS), D.B. era raggiunto da una telefonata del titolare dell'armeria GBM, che gli chiedeva la restituzione dell'arma, essendo sorti problemi di natura amministrativa in ordine all'importazione della stessa. D.B. riteneva necessario contattare direttamente l'importatore arch.

P.B.A., circostanza confermata da quest'ultimo, che, peraltro, lo invitava a ripristinare il calciolo e il guardamano, come da disposizione originale.

Nel corso di una telefonata intercettata del (OMISSIS), D.B. chiedeva a De.Br. di "riportare l'arma così com'era" e "se la modifica fosse reversibile", ricevendo risposta affermativa. Come affermato da D.B., la modifica richiesta non consisteva nel ripristino del funzionamento da fucile automatico a semiautomatico, bensì solo nell'eliminazione delle modifiche al calciolo e al guardamano. Il tecnico della Procura Tale confermava tale circostanza, escludendo la presenza di lavorazioni sull'arma e, in particolare, alla catena originale e al meccanismo di sparo; indi, osservava che la certezza dell'ipotizzato funzionamento dell'arma a raffica poteva essere ottenuta esclusivamente tramite una prova di fuoco, esperibile da un tecnico armiere armaiolo qualificato.

Durante la telefonata intercettata del (OMISSIS), D.B. riferiva a De.Br. che il venditore gli aveva chiesto la restituzione dell'arma, ottenendo la promessa di ottenere in cambio un'arma nuova, ed accennava ad un errore relativo alla matricola, ritenendo che era insorta una problematica relativa alle pratiche di importazione.4

Solo dopo aver appreso dai carabinieri il contenuto della contestazione - e, cioè, la modifica del fucile in arma da guerra - insorgeva in D.B. il timore che si trattasse di un'arma di tale tipologia;

pertanto, nelle telefonate del (OMISSIS), acquisiva notizie sulle modalità di modifica dell'arma, escludendo comunque di aver precedentemente apportato (o commissionato) modifiche idonee a farla sparare a raffica dopo l'acquisto.

Nell'imputazione era menzionata la fabbricazione ungherese del fucile di importazione illegale;

senonchè, dagli atti di causa, la carabina risultava importata dalla Parnisari Arms s.r.l. e venduta dall'armeria con sede in (OMISSIS), aziende in possesso delle necessarie autorizzazioni

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all'importazione e alla vendita di armi, a D.B.. Tali circostanze consentivano di escludere che D.B.

potesse conoscere l'illegittimità dell'importazione.

1.2. Al capo H) della rubrica è contestato il reato di cui all'art. 10, comma 10, in relazione alla L.

n. 110 del 1975, commi 6 e 9, per aver, sebbene titolare di licenza rilasciata dal Questore di Bari, illegalmente detenuto in collezione più di un esemplare del medesimo modello di armi iscritte nel Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo e più di due esemplari del medesimo modello di armi non iscritte in detto Catalogo, in violazione del divieto previsto dalla L. cit., art. 6, derogabile secondo quanto previsto dalla circolare del Ministro dell'Interno del 14/02/1980 e della relativa norma di chiarimenti del 15/10/1986 solo per le armi non iscritte nel Catalogo Nazionale delle Armi da Sparo, qualora gli esemplari presentassero elementi di differenziazione tali da potersi considerare modelli diversi della stessa arma, con differenti punzoni e marchi. Inoltre, gli era addebitata la detenzione di sedici cartucce (OMISSIS) ed altre munizioni di vario calibro per armi in collezione, di cui alla L. cit., art. 10, comma 9 e la violazione del divieto di usare le armi in collezione e di portarle in luogo pubblico.

L'ipotesi accusatoria richiamava espressamente una circolare del Ministero dell'Interno del 14/02/1980 ed una successiva nota di chiarimenti del 15/10/1986, secondo cui la detenzione di più esemplari della stessa arma sarebbe consentita esclusivamente per le armi non catalogate, perchè importate o prodotte prima della pubblicazione del Catalogo sulla G.U. n. 268 del 29/09/1979 (suppl. straord.) e solo qualora gli esemplari presentassero elementi di differenziazione tali da poterli considerare modelli diversi della stessa arma, con diversi punzoni e marchi.

Secondo il pubblico ministero, per cinquantacinque armi risultavano detenuti più esemplari del medesimo modello, senza alcuna differenziazione valutabile ai sensi della predetta nota ministeriale.

L'autorità amministrativa riteneva il delitto in questione sussistente anche in relazione alle armi non catalogate, ma il Tribunale escludeva la fondatezza di tale interpretazione sulla base del testuale disposto di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 6, in violazione del principio costituzionale della riserva di legge.

Il Tribunale, in relazione alle armi catalogate - in conformità al parere del Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Ufficio per l'Amministrazione Generale - interpretava la L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 7, nel senso di non consentire la collezione di più armi uguali, principio derogato dal medesimo ufficio e su richiesta degli interessati per armi aventi lo stesso numero di Catalogo, con evidenti differenze di importanza a fini storico-culturali (diversità del fabbricante, del paese di origine o di peculiari caratteristiche meccaniche).

Nel caso in esame, le armi in questione presentavano caratteristiche diverse, così come sostenuto dalla difesa e non contestato dal pubblico ministero, ed erano state regolarmente denunziate. La Divisione della Polizia Amministrativa della Questura di Bari aveva autorizzato la loro detenzione, non aveva mai avuto obiettato alcunchè e non aveva mai disposto l'espulsione di talune armi dalla

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collezione. Il Tribunale non condivideva la tesi formulata dal P.M. della necessità di segnalare le ragioni storico - culturali suindicate e di ottenerne il riconoscimento in via preventiva.

In riferimento alla contestazione della detenzione di munizioni in violazione della L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 9, il Tribunale si riportava alle considerazioni difensive, secondo cui le stesse erano relative alla pistola (OMISSIS).

Il Tribunale poi escludeva che le armi in collezione fossero state usate e portate in luogo pubblico, rilevando che, al di fuori della medesima, D.B. possedeva centosessanta fucili, per i quali non sussisteva il divieto. Nelle conversazioni intercettate, erano contenuti riferimenti a tre fucili non in collezione, utilizzabili in luogo pubblico.

2. Con sentenza della Corte di appello di Lecce del 10/10/2016, in parziale riforma della sentenza di primo grado, D.B., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e riconosciuta la continuazione, è stato condannato alla pena di anni due di reclusione ed Euro trecento di multa, condizionalmente sospesa, per i reati di detenzione, porto e ricettazione di fucile denominato (OMISSIS), calibro (OMISSIS) di cui alla L. n. 110 del 1975, capo A) e L. n. 110 del 1975, art.

10, comma 10, di illegale detenzione di numerose armi in collezione di cui al capo H), quest'ultimo limitatamente alle armi catalogate, esclusa la detenzione di due esemplari di pistola (OMISSIS) (quale titolare di licenza di collezione, rilasciata dal Questore, per l'illegale detenzione in collezione di più di un esemplare del medesimo modello di armi catalogate e di più di due esemplari del medesimo modello di armi non catalogate, in violazione del divieto previsto dalla L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 6, derogabile ai sensi della circolare del Ministero dell'Interno del 14/02/1980 e della relativa nota di chiarimenti del 15/10/1986, solo per le armi non catalogate qualora gli esemplari presentino elementi di differenziazione tali da potersi considerare modelli diversi della stessa arma, con diversi punzoni e marchi).

2.1. Secondo la Corte territoriale, non occorreva rinnovare l'istruttoria dibattimentale, per poter riformare la sentenza di primo grado; tale obbligo sussisteva solo in ipotesi di diverso apprezzamento di una prova orale ritenuta in primo grado non attendibile, mentre, nella fattispecie, il primo giudice non aveva negato l'attendibilità intrinseca dei testimoni, escludendo la responsabilità personale dell'imputato per un travisamento probatorio.

2.2. In relazione all'imputazione di cui al capo A) della rubrica, la Corte territoriale ha premesso alcune circostanze ritenendole pacifiche: la natura di arma da guerra dell'arma, l'assenza di modifiche da parte di D.B. escluso il cambio del calciolo, la richiesta a De.Br. di ripristino delle condizioni originarie dell'arma, la preoccupazione esternata all'armiere in relazione alle caratteristiche del fucile.

La Corte di merito ha valutato che D.B., grazie alle vantate conoscenze in materie di armi, alla propria capacità di espletare prove in bianco delle armi con bravura superiore al consulente, alla semplicità da bambino del fucile (OMISSIS), che replicava quello del kalashnikov, e alla presenza del "cane a becco", aveva ammesso di aver compreso che quasi sicuramente il fucile sparava a

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23 raffica.

Dopo la scoperta di tale anomalia, pertanto, era insorto in D.B. qualcosa in più di un semplice dubbio sulla natura dell'arma, bensì un atteggiamento psicologico che assumeva la forma del dolo eventuale. D.B. aveva programmato di effettuare la modifica necessaria ad eliminare la possibilità dell'arma di sparare a raffica.

La sopravvenuta grave malattia della moglie non comportava l'esclusione del dolo, non avendo comunque impedito a D.B. di conversare spesso con De.Br. di armi. Per oltre un anno, l'imputato conservava l'arma, senza svolgere controlli sulle modalità di funzionamento dell'arma.

In riferimento all'imputazione di cui al capo H) della rubrica, la Corte di appello ha evidenziato il possesso da parte di D.B. di più esemplari del medesimo modello di armi catalogate.

2.3. La Corte territoriale ha ritenuto erronee le valutazioni del giudice di primo grado in riferimento all'intervenuta abrogazione del catalogo delle armi, in quanto lo stesso era stato sostituito da un diverso sistema di classificazione; la norma incriminatrice di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 10, commi 6 e 10, inerente alla detenzione da parte del collezionista di più esemplari per ogni modello già catalogato non era stata abrogata dalla L. n. 183 del 2011 e dalle altre disposizioni successive, in quanto esse non prevedevano la perdita di efficacia delle classificazioni effettuate sotto il pregresso regime. Si versava in ipotesi di successione di norme extrapenali non integratrici del precetto penale, per cui l'abrogazione delle prime non comportava la sopravvenuta abrogazione del reato precedentemente commesso durante la loro vigenza.

3. D.B., a mezzo dei propri difensori, mediante separati atti, ricorre per Cassazione avverso la suindicata sentenza della Corte di appello sulla base dei motivi di seguito riportati.

4. Ricorso redatto dall'avv. Massimo Manfreda.

4.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla reformatio in pejus, disposta senza procedere alla necessaria rinnovazione istruttoria.

Si deduce che la Corte territoriale ha fornito una lettura riduttiva dello sviluppo giurisprudenziale su tale tema, ritenendo di limitare la necessità di rinnovare l'istruttoria ai soli testimoni. Al contrario, secondo la giurisprudenza formatasi con la sentenza a Sezioni Unite Dasgupta e con quelle successive, in caso di appello avverso sentenza assolutoria fondata su prove dichiarative, occorreva procedere alla rinnovazione istruttoria anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3, senza distinguere tra testimoni, testimoni assistiti, coimputati e imputati di procedimento connesso, rilevando solo la decisività delle loro dichiarazioni come poste a fondamento del giudizio assolutorio di primo grado.

L'interrogatorio reso dall'imputato in sede di convalida e acquisito in dibattimento col consenso delle armi, doveva essere rinnovato, in quanto adoperato, al fine di configurare l'elemento soggettivo a titolo di dolo alternativo.

Si sostiene, peraltro, che la Corte territoriale si è limitata ad una propria lettura della vicenda, senza confutare quella del Tribunale, se non in termini generici sul metodo.

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24 5. Ricorso redatto dall'avv. Franco Coppi.

5.1. Violazione dell'art. 81 c.p. e L. n. 895 del 1967, artt. 1,2 e 4 e carenza ed illogicità della motivazione in relazione alla condanna intervenuta per il reato di cui al capo A).

Si osserva che D.B. acquistava l'arma - qualificata dal venditore come arma comune da sparo - e si accorgeva solo in occasione dell'incontro con l'armiere di fiducia De.Br. di una caratteristica del

"becco del cane", tipica delle armi in grado di sparare a raffica. De.Br. rassicurava D.B., sostenendo di essere sicuro del contrario. D.B. non si accontentava di tale qualificato parere ed acquistava il "cane" e il "controcane" di un fucile ungherese, il cui montaggio avrebbe impedito lo sparo a raffica, ripromettendosi di recarsi dal proprio armiere per modificare l'arma. Il (OMISSIS), appresa l'esistenza di una grave malattia della moglie, rinviava l'intervento sull'arma. Ricordava nuovamente il problema all'arma nell'(OMISSIS), quando l'importatore Pa. gli aveva chiesto in restituzione il fucile, per consegnarlo all'ufficio di Questura competente al controllo. In tale frangente, temendo la possibile scoperta del problema del cane, chiedeva nuovamente aiuto all'armiere, affinchè montasse i pezzi acquistati mesi prima.

Prima dell'incontro, però, D.B. apprendeva dai Carabinieri dell'esistenza di indagini a suo carico per la modifica del fucile in questione da arma comune da sparo in arma da guerra. Per tale ragione, il (OMISSIS), telefonava all'armiere, manifestandogli il timore che si trattasse di arma da guerra e chiedendogli come modificarla, conversazione intercettata, in cui categoricamente smentiva di aver apportato modifiche, affinchè sparasse a raffica.

La sentenza impugnata ha configurato la responsabilità di D.B. a titolo di dolo eventuale, senza valutare i seguenti elementi di segno contrario: l'acquisto dell'arma presso un'armeria autorizzata;

le rassicurazioni dell'armiere; l'indispensabilità di una prova di sparo diretta ad accertare l'attitudine dell'arma a sparare a raffica (come attestato anche dal consulente del P.M. in occasione dell'incidente probatorio); la dimenticanza della vicenda a causa delle condizioni di salute della moglie.

Anche la conoscenza da parte di D.B. dell'esistenza di un'indagine a suo carico non poteva influire sul suo grado di conoscenza delle caratteristiche del fucile, ma semmai generargli solo un senso di colpa e di frustrazione per non aver compiuto la modifica in tempo utile.

D.B. tempestivamente segnalava l'acquisto dell'arma all'autorità di pubblica sicurezza, che, semmai, avrebbe dovuto impartire l'ordine di riconsegna. La legittimità della detenzione non poteva dipendere dalla mera valutazione soggettiva del detentore dell'arma.

Di fronte al dubbio sulla possibilità dell'arma di sparare a raffica, D.B. si attivava per provvedere immediatamente alle modifiche necessarie per ripristinare le modalità di sparo in base alle norme del settore.

5.2. Violazione dell'art. 81 c.p. e L. n. 110 del 1975, art. 10, comma 10 e carenza ed illegittimità della motivazione in riferimento alla condanna intervenuta per il capo H).

In ordine alle armi - inserite e non nel catalogo nazionale - si richiamano le argomentazioni esposte

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nella sentenza di primo grado, che, in ordine alle armi inserite nel catalogo, rilevava la presenza di caratteristiche divergenti tra i singoli modelli. Si osserva che la sentenza della Corte di appello ha travisato le argomentazioni della sentenza di primo grado, esaminandole troppo sinteticamente e limitandosi ad esaminare un argomento subordinato sviluppato dalla difesa, rappresentato dall'intervenuta abolizione del catalogo delle armi previsto dalla L. n. 110 del 1975, art. 7, da parte della L. n. 183 del 2011, art. 14, comma 7. Al contrario, la sentenza di primo grado aveva fondato il giudizio assolutorio su di un'argomentazioni diverse da quest'ultima, non confutate nella sentenza di appello (vedi par. 1.2.).

Si evidenzia altresì la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha escluso le finalità storico - culturali della collezione sulla base delle modalità di conservazione, confondendole con la destinazione della medesima ad essere visitata dal pubblico.

5.3. Violazione dell'art. 6 CEDU e carenza di motivazione, per essere stata parzialmente riformata la sentenza assolutoria, senza confutare specificamente le ragioni poste a sostegno della decisione riformata e senza procedere a rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, per escutere nel contraddittorio delle parti i testimoni di accusa.

In particolare, in relazione al reato di cui al capo H), la sentenza impugnata non ha sviluppato nessuna argomentazione, per confutare le dichiarazioni del teste C., responsabile della Sezione Armi della Questura di Bari, presso la quale l'imputato presentava le denunce delle armi in occasione degli acquisti, che descriveva la tipologia dei controlli effettuati, in conformità alle Direttive Ministeriali.

Inoltre, in relazione al reato di cui al capo A), la Corte territoriale ha fondato il ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado esclusivamente sulla contrapposizione tra una diversa lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato e dal consulente tecnico del pubblico ministero, secondo il quale occorreva necessariamente la prova a fuoco, per stabilire se l'arma poteva sparare a raffica, mentre nella sentenza impugnata tale affermazione è stata disattesa, sostenendosi che tale accertamento poteva essere condotto da un esperto di armi quale l'imputato.

6. Motivi aggiunti presentati dall'avv. Franco Coppi.

La difesa specifica, in relazione ai reati di cui al capo A), che, nel corso dell'interrogatorio reso all'udienza di convalida, l'imputato si era difeso da una contestazione diversa e, cioè, di aver trasformato l'arma in modo da sparare a raffica e per tale ragione si era dilungato sulle caratteristiche dei pezzi della stessa, al fine di far comprendere di non averli modificati. D.B. non aveva la conoscenza tecnica, per stabilire se l'arma sparasse a raffica, e aveva ricevuto rassicurazioni in senso del tutto contrario. Nel corso delle conversazioni intercettate, D.B. riferiva di non aver mai sparato colpi con le proprie armi, per cui non aveva potuto concretamente accertare le modalità di sparo dell'arma.

In ordine alla configurabilità del dolo eventuale, ritenuto nella sentenza impugnata, non si consideravano alcuni aspetti decisivi quali l'acquisto dell'arma attraverso canali legittimi,

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l'immediata denunzia del possesso all'autorità di P.S., l'impossibilità di verificare la capacità di fuoco dell'arma dall'esame esterno, la detenzione legale di un migliaio di armi da parte di D.B., magistrato, e il rispetto della normativa di settore nel corso di trenta anni di collezionismo.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è fondato.

1. Col primo motivo di ricorso l'avv. Franco Coppi deduce l'inesistenza del dolo nei reati di cui al capo A) (detenzione e porto di fucile denominato (OMISSIS), calibro (OMISSIS)) e l'omessa analisi, da parte della Corte di appello, dei plurimi elementi prodotti a sostegno di tale tesi.

1.1. Dall'esame delle argomentazioni logiche e coerenti della sentenza di primo grado, fondate principalmente sulle circostanze di fatto inerenti all'acquisto dell'arma, sul contenuto delle intercettazioni e sull'analisi delle dichiarazioni di D.B., emerge la veridicità della tesi difensiva circa la sussistenza di un dubbio del medesimo ricorrente sulla natura di arma da guerra del fucile in questione.

In relazione all'elemento psicologico in capo a D.B., occorre ripercorrere le plurime argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado e nelle difese del ricorrente a sostegno della tesi della convinzione quanto alla liceità del proprio comportamento.

L'armeria GBM poneva in vendita il fucile come arma comune da sparo demilitarizzata e, quindi, semiautomatica.

Al momento dell'acquisto, D.B. non immaginava di violare la legge penale, avendo comprato il fucile da un armiere, il quale ovviamente era autorizzato ovviamente a vendere esclusivamente armi non da guerra. Inoltre, egli denunziava regolarmente l'acquisto dell'arma, giacchè non poteva non ritenere la natura lecita della medesima, in quanto le armi da guerra non sono in commercio.

In occasione dell'incontro con l'armiere di fiducia D.S., D.B. maturava un dubbio sulla reale natura dell'arma a seguito della visione della caratteristica del "becco del cane", tipica delle armi in grado di sparare a raffica. D.S., tuttavia, gli forniva piena rassicurazione al riguardo.

Nonostante tale qualificato parere, D.B. acquistava il cane e il controcane di un fucile ungherese, il cui montaggio avrebbe impedito lo sparo a raffica, ripromettendosi di recarsi dal proprio armiere per farli montare sull'arma.

Le circostanze appurate, per un elevato senso di scrupolo, lo inducevano a decidere di svolgere ulteriori accertamenti al riguardo, evidentemente per effettuare se necessarie - le dovute modifiche dell'arma e per rendere pienamente legittime le condizioni d'uso.

L'imputato, pur ipotizzando di effettuare una verifica tecnica ad hoc, ne ritardava l'espletamento, perchè scopriva l'esistenza di una grave malattia della moglie e si dedicava alle sue cure.

Il consulente tecnico del P.M., in sede di incidente probatorio, affermava la tesi della assoluta necessità di svolgere una prova di fuoco del fucile, per poterne stabilire il possesso delle caratteristiche di arma da guerra (fucile idoneo a sparare a raffica).

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