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TRACCE E PARERI DI DIRITTO PENALE. (Con traccia per l esercitazione)

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TRACCE E PARERI DI DIRITTO PENALE

IV

(Con traccia per l’esercitazione)

CORSO INTENSIVO AVVOCATO 2018 a cura dell’avv. Giulio Forleo

www.jurisschool.it

www.ildirittopenale.blogspot.com

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INDICE

Premessa……….Pag. 3 Traccia assegnata nella precedente dispensa e possibile soluzione ………..pag. 4 Traccia assegnata nella prova intermedia e possibile soluzione ...…………pag. 8 Traccia: Aggravante del nesso teleologico e concorso di persone nel reato……...Pag. 11 Soluzione Traccia 1………...Pag. 12 Traccia: Associazione con finalità di terrorismo internazionale..………… ……...Pag. 49 Soluzione Traccia 2………..Pag. 50 Traccia: Resistenza a più pubblici ufficiali e reato continuato……….……...Pag. 66 Soluzione Traccia 3………..Pag. 67 Traccia: Estorsione, aggravante del metodo mafioso ed esercizio delle proprie ragioni...Pag. 77 Soluzione Traccia 4………..Pag. 78 Traccia: Truffe online ed aggravante della minorata difesa………...…..….. Pag. 93 Soluzione Traccia 5………..Pag. 94 Traccia: Autoriciclaggio e concorso di persone nel reato presupposto…………...Pag.102 Soluzione Traccia 6………...Pag. 103 Traccia: Corruzione in atti giudiziari e stato di necessità……….……..…Pag. 121 Soluzione Traccia 7………..……...Pag. 122 Traccia: Eccesso colposo nella legittima difesa...………...Pag. 131 Soluzione Traccia 8………..……..…...Pag. 132 Traccia: Furto e circostanza aggravante della destrezza…....………Pag. 136 Soluzione Traccia 9……….Pag. 137 Massime rilevanti 2018...………...Pag. 143 Traccia per l’esercitazione……….…………Pag. 159

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Premessa Gentili ragazze/i,

con questa quarta dispensa del modulo di penale affronteremo le problematiche connesse agli istituti del concorso di persone nel reato, delle cause di giustificazione, delle circostanze del reato e del concorso di reati. Vi prego di studiare attentamente la presente dispensa in quanto ricca di sentenza di grande attualità spesso emesse dalle Sezioni Unite a composizione di dibattiti giurisprudenziali in piedi da anni.

Nella parte iniziale della dispensa troverete la soluzione della traccia di penale assegnata in occasione della prova intermedia e la soluzione della traccia contenuta nel precedente modulo.

Per venire incontro alle esigenze di chi svolgerà l’atto di penale ho ritenuto di fornirvi, con riferimento alla traccia di penale 3, un modello di atto svolto anziché del parere. Ovviamente le considerazioni giuridiche ivi articolate sarebbero state sviluppate in egual modo, ma con forma diversa, anche nell’ambito del parere.

In proposito, ribadisco l’invito che vi ho rivolto nel modulo di civile 3 di procedere, prima dell’invio per la correzione, all’autovalutazione dei vostri elaborati.

Buono studio e buon lavoro.

Roma lì 12.11.2018

Avv. Prof. Giulio Forleo

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TRACCIA ASSEGNATA NELLA PRECEDENTE DISPENSA

Mevio, proprietario di un immobile nel comune Beta, stipulava con Sempronio un contratto di locazione del suddetto locale al fine di aprire un pub-ristorante.

Dopo tre anni di puntuale pagamento dei canoni mensili, a causa della crisi economica, Sempronio smetteva di pagare le somme dovute, mettendo in forte difficoltà Mevio che, avendo a sua volta perso il lavoro, faceva affidamento su quel denaro per sostenere la propria famiglia.

Mevio tentava, dunque, di sollecitare Sempronio a versare i canoni non pagati, senza tuttavia riuscire ad ottenere quanto spettantegli.

Seriamente preoccupato per le gravi conseguenze che sarebbero derivate a lui ed alla sua famiglia dal mancato introito mensile della sua principale fonte di reddito, Mevio chiedeva al figlio Tizio di dargli una mano nell’ottenere da Sempronio il denaro dovuto.

Tizio raggiungeva dunque Sempronio presso il locale e, puntandogli un coltello alla gola, lo minacciava di morte se entro 8 giorni non avesse pagato i canoni non versati.

Sempronio, intimorito dalla minaccia, corrispondeva subito una parte dei canoni, ma, successivamente, si convinceva ad interrompere il pagamento e a sporgere formale denuncia- querela nei confronti di Tizio.

A seguito del processo penale di primo grado, Tizio veniva condannato dal Tribunale di Milano per il reato di estorsione ex art. 629 c.p..

Il candidato, assunte le vesti di legale di Tizio, rediga:

a) parere legale motivato sull’opportunità di proporre appello averso la suddetta sentenza;

b) atto di appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano.

POSSIBILE SOLUZIONE (scelta tra i compiti corretti)

CORTE D’APPELLO DI MILANO ATTO DI APPELLO

PROC. PEN. Nr.______ R.G.N.R.

Il sottoscritto Avv. ___, del Foro di ___, difensore di fiducia di Tizio, giusta nomina in calce al presente atto, dichiara di proporre appello

AVVERSO

Tutti i capi della sentenza n. _____, del ______, resa nel procedimento penale n. ____/____ R.G., dal Tribunale di Milano, che ha condannato Tizio nato a ____, il_____, alla pena di anni _____ di reclusione e al pagamento di Euro ____ di multa, per aver commesso i reati previsti e puniti dall’art.

629 c.p., in quanto costringeva Sempronio, puntandogli un coltello alla gola e minacciandolo di morte, a versargli parte dei canoni arretrati dovuti al padre Mevio a titolo di regolare locazione di un locale di sua proprietà.

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Con il presente atto si chiede la riforma della sentenza impugnata per i seguenti MOTIVI

1) ERRONEA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DEL FATTO – DERUBRICAZIONE DEL REATO DI CUI ALL’ART. 629 C.P. NEL DELITTO DI CUI ALL’ART. 393 C.P..

L’impugnata sentenza è illegittima e va riformata nella parte in cui ha erroneamente sussunto la condotta di Tizio sotto la fattispecie di estorsione cui all’art. 629 c.p., anziché sotto la meno grava fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, prevista e punita dall’art. 393 c.p..

I fatti emersi all’esito del dibattimento non lasciano, infatti, alcun dubbio in merito al fatto che Tizio abbia agito al fine di esercitare un legittimo diritto azionabile dinanzi all’autorità giudiziaria, avendo semplicemente ecceduto nel tentativo di farsi arbitrariamente ragione da sé medesimo.

In particolare, è incontestato che Tizio si sia limitato ad assecondare la richiesta di recupero dei canoni di locazione scaduti avanzata dal padre Mevio, esasperato per le gravi conseguenze che sarebbero derivate a lui ed alla sua famiglia dal mancato introito mensile del canone, che a causa della perdita della sua occupazione era diventato la principale fonte di reddito familiare.

In proposito, è noto che la più recente giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. si distinguono in relazione all'elemento psicologico (v. ex multis Cass. n.

31224/2014; Cass. n. 705/2014).

Nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, infatti, l'agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria;

nell'estorsione, invece, l'agente persegue il conseguimento di un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto.

Per ritenere configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, occorre, pertanto, che l'agente sia soggettivamente - pur se erroneamente - convinto dell'esistenza del proprio diritto, e che detto diritto riceva astrattamente tutela giurisdizionale.

In tal senso depone anche l’ulteriore dato normativo valorizzato dalla giurisprudenza, per cui sia l'art.

393 c.p., comma 3, che l'art. 629 c.p., comma 2, (in quest'ultimo caso, mediante richiamo dell'art. 628 c.p., comma 3, n. 1) prevedono che la pena è aumentata "se la violenza o minaccia è commessa con armi".

Atteso, dunque, che entrambe le fattispecie possano essere integrate da una violenza o minaccia compiuta, come nel caso di specie, attraverso un’arma, risulta evidente che tale modalità di estrinsecazione della condotta non possa essere assunta a criterio distintivo tra i due reati.

I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione si distinguono, pertanto, non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma per l'elemento intenzionale che, qualunque sia stato il livello di intensità o gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria (in tal senso, Cass. n. 705/2014).

In virtù delle esposte coordinate ermeneutiche, dunque, emerge in maniera lampante l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui qualifica le condotte contestate all’imputato in termini di estorsione anziché di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

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Risulta indubbio, infatti, che Tizio, agendo per il recupero di canoni di locazione scaduti e dovuti in virtù di regolare contratto, si sia rivolto a Sempronio nella convinzione ragionevole di esercitare un suo diritto o quantomeno di soddisfare personalmente una pretesa che può formare oggetto di azione giudiziaria.

Né tantomeno può rilevare la circostanza per cui Tizio abbia agito per far valere un diritto che formalmente risulta ascrivibile in capo al genitore Mevio.

Sul punto, infatti, la giurisprudenza è concorde nel ricondurre la fattispecie di cui all’art. 393 c.p. tra i cc.dd. reati propri semi-esclusivi, in cui la qualifica soggettiva costituisce un elemento che non determina la rilevanza penale di una condotta, ma semplicemente la orienta da una disposizione incriminatrice all’altra, con la conseguenza che ove quella condotta venga posta in essere da un soggetto non qualificato, questa assumerà comunque rilevanza penale anche se sulla scorta di altra norma incriminatrice.

Nel caso dell’art. 393, dunque, risulta evidente la sussumibilità in tale categoria rispetto a quella dei cc.dd. reati propri esclusivi, in quanto, venuta meno la qualifica soggettiva dallo stesso richiesta, sarebbe comunque integrata la diversa ipotesi delittuosa di cui all’art. 629 c.p.. In tal senso la Suprema Corte di Cassazione ha specificato che “ogni volta che l’azione violenta volta alla riscossione del credito sia posta in essere dal terzo dovrà dunque essere verificato se questi sia portatore di un proprio interesse diverso ed ulteriore rispetto a quello vantato dal titolare del diritto, potendosi configurare un eventuale concorso nel reato di cui all’art. 393 c.p., solo ove tale interesse esclusivo del terzo risulti assente” (Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2016, n. 11453).

Anche sotto tale ulteriore profilo, nel caso di specie risulta pacifica la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, avendo l’odierno appellante agito non per un interesse personale, ma per l’interesse esclusivo del padre, titolare del diritto de quo.

2) SULLA MANCATA CONCESSIONE DELLE ATTENUANTI GENERICHE.

La sentenza impugnata è altresì errata nella parte in cui non riconosce all’appellante Tizio le attenuanti generiche previste dall’art. 62 bis c.p., in considerazione dell’incensuratezza di Tizio, dell’ottimo comportamento processuale tenuto dallo stesso e della irripetibilità dei fatti a lui ascritti, originati da circostanze eccezionali.

***

Tutto ciò premesso, il sottoscritto difensore conclude affinché l’Ecc.ma Corte d’Appello Voglia, in riforma della sentenza impugnata, accogliere le seguenti

CONCLUSIONI

1. in via principale, derubricare il fatto contestato da estorsione ex art. 629 c.p. ad esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p.;

2. in via subordinata, concedere all’imputato le attenuanti generiche o comunque contenere la pena entro il minimo edittale, con tutti i benefici di legge.

______, lì________

Avv. ………

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NOMINA

Il sottoscritto Tizio (C.F. _______), nato a _____, il ____, residente in ____, via_____, imputato nel procedimento penale n. ____/___ R.G.N.R., nomina quale proprio difensore di fiducia l’Avv._____, del Foro di____, con studio in ____, via____, conferendogli ogni più ampio potere e facoltà di legge, nonché procura speciale a proporre appello avverso la sentenza n. ____ del Tribunale di Milano del ___________, autorizzandolo a nominare sostituti. Esprime il consenso al trattamento dei propri dati personali per l’espletamento del mandato conferito.

________, lì_________

Tizio (firma) La firma è autentica ed è stata apposta in mia presenza Avv. (firma)

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TRACCIA DI PENALE ASSEGNATA NELLA PROVA INTERMEDIA

Mevio, legale rappresentante della società Beta Srl, proprietaria di una conceria sita nella provincia di Pisa, per non pagare gli elevati costi di smaltimento dei liquami industriali derivanti dal trattamento delle pelli, nel corso del 2014 decideva di sversarli illegalmente nel torrente adiacente allo stabilimento.

Nel 2017, nell’ambito di controlli disposti dall’ARPA Toscana sulla qualità delle acque regionali, veniva accertata la contaminazione irreversibile delle acque di tutta la zona nel raggio di 50 km dallo stabilimento della Beta Srl e venivano disposti accertamenti che riconducevano l’esteso disastro alla condotta della società.

A seguito di processo penale, Mevio in data 10 ottobre 2018 veniva condannato dal Tribunale di Pisa per il reato previsto e punito dall’art. 452 quater, comma 1 n. 3) c.p..

Mevio si rivolge al vostro studio legale, rappresentandovi che le uniche condotte di sversamento poste in essere dalla sua società erano circoscritte all’anno 2014, dal momento che a partire dal 2015 aveva affidato il trattamento dei liquami ad una ditta specializzata.

Il candidato, assunte le vesti di legale di Mevio, rediga:

a) parere legale motivato sulla vicenda;

b) atto di appello avverso la sentenza di condanna.

POSSIBILE SOLUZIONE (scelta tra i compiti corretti)

Viene richiesto parere legale da parte di Mevio in merito all’opportunità di appellare vittoriosamente la sentenza con la quale il Tribunale di Pisa lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 452 quater, comma 1, n. 3) c.p. a causa dell’accertamento nel corso del 2017 della contaminazione irreversibile delle acque di zona da parte della conceria di cui era legale rappresentante.

In particolare, come accertato nel processo di primo grado, la genesi dell’inquinamento delle acque era da ricondursi ad episodi di sversamento illegale di liquami industriali in un torrente adiacente allo stabilimento compiuti nel corso del 2014. Come rappresentato da Mevio, infatti, a partire dal 2015 il trattamento dei liquami industriali era stato affidato ad una ditta esterna specializzata.

Le questioni giuridiche da affrontare attengono ai rapporti, in termini di successione di leggi penali nel tempo, tra il reato di cui all’art. 452 quater c.p., contestato a Mevio, ed il meno grave reato di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. e all’esatta individuazione del momento consumativo di quest’ultimo.

La gravità della condotta posta in essere da Mevio, comportante l’inquinamento di una vasta zona (estesa per un raggio di 50 km dallo stabilimento), infatti, rende palese la sua qualificazione in termini di disastro, di cui paiono ricorrere gli elementi tipici individuati dal codice penale. In proposito, affinché possa configurarsi il delitto di disastro doloso, il legislatore

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richiede che venga cagionato un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità, che sia straordinariamente grave e complesso ed i cui effetti non è necessario che siano immediatamente percepibili, pur producendo una compromissione della salute e della sicurezza comune.

La non immediata percepibilità degli effetti è, nello specifico, estremamente ricorrente nelle ipotesi di disastro ambientale, per il quale, infatti, la giurisprudenza ha escluso la necessità di individuare prove circa effetti lesivi sull’uomo.

Al riguardo, è bene ricordare come le fattispecie di disastro ambientale, sino all’intervento della legge n. 68 del 2015, che ha introdotto l’art. 452 quater c.p., non trovassero un’espressa previsione all’interno del codice penale, essendo ricondotte dalla giurisprudenza maggioritaria nella fattispecie di c.d. disastro innominato previsto dall’art. 434 c.p., secondo cui “chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro è punito se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene”.

Quanto ai rapporti tra le due ipotesi di disastro, la Corte di Cassazione ha di recente evidenziato che “Il reato di disastro ambientale di cui all'articolo 452-quater del codice penale ha, quale oggetto di tutela, l'integrità dell'ambiente e in ciò si distingue dal disastro innominato di cui all'articolo 434 del codice penale, menzionato nella clausola di riserva ["fuori dai casi previsti dall'articolo 434"], posto a tutela della pubblica incolumità, peraltro come norma di chiusura rispetto alle altre figure tipiche di reati contro l'incolumità pubblica disciplinate dagli articoli che lo precedono. Inoltre, quale ulteriore differenza, vi è il fatto che nei reati contro l'incolumità pubblica si fa esclusivo riferimento a eventi tali da porre in pericolo la vita e l'integrità fisica delle persone e il danno alle cose viene preso in considerazione solo nel caso in cui sia tale da produrre quelle conseguenze, mentre il disastro ambientale può verificarsi anche senza danno o pericolo per le persone, evenienza che semmai viene presa in considerazione quale estensione degli effetti dell'alterazione dell'ecosistema”

(Cassazione penale, sez. III, 18/06/2018, n. 29901).

Ciò detto, in considerazione del fatto che la contaminazione, sebbene accertata nel 2017 (dopo l’entrata in vigore della suddetta novella legislativa), sia stata causata in realtà da condotte risalenti al 2014 (e cioè prima dell’entrata in vigore della novella), occorre interrogarsi su quale sia il momento consumativo del reato al fine di individuare la norma applicabile ratione temporis.

Sul punto, è di aiuto la circostanza per cui entrambe le fattispecie di reato in analisi sono formulate in termini di reato di pericolo a consumazione anticipata: in entrambe il mero pericolo concreto del disastro è di per sè idoneo a consumare il reato, essendo l’evento dannoso e/o gli eventuali ulteriori effetti considerati alla stregua di mere circostanze aggravanti.

Inoltre, con specifico riferimento alle ipotesi di sversamento di rifiuti e di conseguente contaminazione di siti, il reato di disastro si consuma con la semplice alterazione dei luoghi purché potenzialmente idonea a determinare un danno ambientale di eccezionale gravità.

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In tal senso e con riferimento ad un caso analogo a quello in esame, la Corte di Cassazione ha specificato che “il delitto di disastro innominato (art. 434 c.p.), che è reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola "immutatio loci", purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità”

(Cassazione penale, sez. III, 14/07/2011, n. 46189).

Alla luce di tale orientamento della Cassazione, nel caso di specie il disastro ambientale riconducibile a Mevio può ritenersi consumato già nel 2014, quando cioè egli ha provocato l’alterazione dello stato dei luoghi e determinato un grave pericolo per l’incolumità pubblica.

Ciò determina l’applicazione della disciplina antecedente alla L. n. 68/2015, benché l’evento si sia verificato successivamente.

D’altronde, di recente la Suprema Corte di Cassazione ha escluso che il Legislatore del 2015 abbia voluto perseguire l'intento di una sostanziale abolitio criminis dell'art. 434, comma 2, c.p.

ed ha affermato che “In tema di disastro ambientale, anche dopo la l. 22 maggio 2015, n. 68, che ha introdotto specifici delitti contro l'ambiente disciplinati negli artt. 452-bis ss. c.p., la previsione di cui all'art. 434 c.p. continua a trovare applicazione nei processi in corso per fatti commessi nel vigore della disposizione indicata in forza della clausola di riserva contenuta nell'art. 452-quater c.p. («Fuori dai casi previsti dall'articolo 434»)” (Cassazione penale, sez.

I, 17/05/2017, n. 58023).

Alla luce delle suesposte considerazioni si consiglia a Mevio di impugnare la sentenza del Tribunale di Pisa al fine di ottenere quantomeno la riqualificazione dei fatti contestatigli ai sensi del meno grave reato di cui all’art. 434 c.p.

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1) AGGRAVANTE DEL NESSO TELEOLOGICO E CONCORSO DI PERSONE NEL REATO.

Traccia.

Rimasti senza lavoro e non avendo i soldi necessari per le serate in discoteca con gli amici, Tizio e Caio, notando che l’anziano Mevio andava in giro per il paese a bordo di un’auto nuova, sempre ben vestito e curato, decidevano di introdursi nella sua abitazione per derubarlo delle somme di denaro presumibilmente in suo possesso.

I due concordavano che, nell’ipotesi in cui Mevio si fosse svegliato, Tizio, in considerazione della sua robusta corporatura, lo avrebbe bloccato mentre Caio avrebbe continuato a cercare il denaro.

Introdottisi nell’appartamento però, non appena l’anziano signore si svegliava, Tizio iniziava a colpirlo ripetutamente con un martello che aveva portato con sé per rompere le serrature dei mobili in cui trovare il denaro.

Caio, spaventato dalla reazione imprevista avuta dal compagno e dalla enorme quantità di sangue presente sul letto di Mevio, obbligava Tizio a rinunciare alla ricerca del denaro e ad abbandonare l’appartamento senza alcun bottino.

Mevio, a causa delle gravi lesioni subite, dopo qualche settimana di ricovero in ospedale, decedeva.

Incastrati dalle telecamere di sorveglianza del condominio, Tizio e Caio venivano imputati per i reati di tentata rapina, omicidio aggravato, porto ingiustificato di un martello, aggravato ai sensi dell’art. 61 c.p. n. 2.

Preoccupato per la gravità delle accuse, Caio si rivolge al vostro studio legale per ottenere parere motivato sulla vicenda.

Il candidato, premessi brevi cenni sull’aggravante del nesso teleologico e sul concorso di persone nel reato, rediga il richiesto parere.

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SOLUZIONE TRACCIA 1

Cassazione penale, sez. I, 02/02/2018, (ud. 02/02/2018, dep.10/05/2018), n. 20756

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 20 dicembre 2016, la Corte di Assise di appello di Catania confermava la sentenza del Gup presso il Tribunale della medesima città del 19 novembre 2015 che aveva dichiarato gli imputati A.D., A.V. e G.A. colpevoli dei reati di tentata rapina (così riqualificato il fatto originariamente contestato al capo A come rapina consumata), omicidio aggravato (contestato al capo B), porto ingiustificato fuori dalla propria abitazione di un martello, atto ad offendere, aggravato dall'avere commesso il fatto per eseguire un altro reato (contestato al capo C) e, il solo G., del reato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4 (contestato al capo D della rubrica).

Ritenuta la continuazione tra i reati di cui ai capi A), B) e C), applicato l'art. 72 c.p., comma 2 ed operata la riduzione per il rito, il primo giudice infliggeva a tutti gli imputati la pena di anni trenta di reclusione.

Le conformi decisioni di merito hanno trovato fondamento in una piattaforma probatoria costituita dagli elementi di indagine in atti, integrati dai risultati della perizia medico legale, disposta dal gup, ai sensi dell'art. 441 c.p.p., comma 5, per stabilire l'efficacia causale o concausale tra l'aggressione ed il decesso della vittima.

2. La vicenda, nei termini che si confanno al presente giudizio, può essere così riassunta:

Alle ore 8.05 del (OMISSIS), agenti della Polizia di Stato, su segnalazione ricevuta, si recavano nell'abitazione, sita al (OMISSIS) della via (OMISSIS), angolo via (OMISSIS), dove trovavano, adagiato su un letto, un anziano signore, successivamente identificato in B.V., sporco di sangue, i pantaloni abbassati, le parti intime scoperte e una coperta sul capo. Seppure con evidenti ferite alla testa il B. era cosciente e raccontava che la sera precedente - dopo qualche ora dal rientro a casa - si era messo a letto quando, tutto ad un tratto, nel buio della notte, aveva avvertito che qualcuno lo stava colpendo ripetutamente al capo; aggiungeva che, a causa dell'oscurità, non era riuscito a riconoscere i suoi aggressori ma aveva, comunque, visto che costoro lo colpivano con un martello.

Le gravi condizioni del B. ne imponevano il ricovero presso l'ospedale (OMISSIS) ove veniva

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operato d'urgenza per la amputazione del dito II della mano destra.

In breve tempo, le indagini portavano alla individuazione degli odierni imputati quali autori del misfatto.

Il G., sottoposto su sua richiesta ad interrogatorio, riferiva al p.m. procedente che la decisione di derubare il B. era scaturita dal fatto che costui era stato notato, da lui stesso e da A.D., in giro per il paese sempre ben vestito e curato e questo li aveva indotti a ritenere che l'anziano signore potesse detenere in casa cospicue somme di denaro.

Passando alla fase esecutiva del delitto ricordava che, insieme ai due A., erano entrati notte tempo nella camera da letto del B.; che, ad un certo punto, questi si era svegliato, per cui A.D.

aveva iniziato a colpirlo con il martello.

A propria discolpa, il G. precisava che A.D. aveva agito di sua iniziativa andando oltre il piano criminoso concordato che prevedeva una differente suddivisione dei ruoli per cui il G., in quanto più robusto, avrebbe dovuto bloccare il B..

L'evidenza probatoria a carico degli tre imputati consentiva al p.m. di procedere nei loro confronti con il rito immediato, nel cui ambito i predetti chiedevano di essere giudicati nelle forme del giudizio abbreviato.

Alla conseguente udienza fissata dal Gup, prima che questi delibasse sul rito, il p.m. chiedeva, previo deposito di consulenza medico legale e degli ulteriori atti di indagine integrativamente espletati, di modificare l'imputazione di cui al capo B in quella di omicidio consumato; ciò in quanto nella relata di notifica relativa all'avviso di fissazione dell'udienza era emerso che la persona offesa, B.V., era nel frattempo deceduta.

Il giudice autorizzava la modifica dell'imputazione, ma nel corso del giudizio, alla luce delle divergenze emerse dalle consulenze tecniche di parte, disponeva, ex art. 441 c.p.p., comma 5, perizia medico legale per verificare il nesso eziologico tra l'aggressione patita dalla vittima ed il successivo suo decesso.

Esaurita l'attività istruttoria, il giudizio di primo grado si concludeva con la condanna di tutti e tre gli imputati, confermata in sede di appello.

3. Avverso questa seconda decisione ricorrono per cassazione tutti gli imputati, per il tramite dei rispettivi difensori, chiedendo l'annullamento della decisione, con i provvedimenti consequenziali e affidando l'impugnazione ai seguenti motivi.

4. Ricorso di G.A..

4.1. Con il primo motivo eccepisce violazione dell'art. 41 c.p., comma 2 e art. 575 c.p., e

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manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine all'esclusione di una patologia sopravvenuta da sola sufficiente a causare il decesso della persona offesa sì da interrompere il nesso causale fra l'aggressione da questa subita e l'evento morte.

Si afferma che la motivazione della sentenza impugnata soffre di un "insuperabile" limite scaturente da un'"irrecuperabile" lacuna determinata dal mancato espletamento, in sede istruttoria, dell'esame necroscopico, unico in grado di accertare l'eventuale saldatura "al di là di ogni ragionevole dubbio" della morte del B. alla condotta ascritta agli imputati.

Accertamento, che la difesa (contestando la validità delle argomentazioni con cui la corte territoriale aveva, a suo tempo, respinto questa doglianza) insiste in ricorso nel ritenere fosse necessario se solo la corte territoriale avesse considerato tre dati obiettivi:

a. il dilatato lasso temporale intercorso tra la condotta delittuosa e l'exitus, capace di includere l'insorgere di una nuova patologia;

b. l'assenza di osservazione e controlli clinici dalla data di dimissioni del B. dalla (OMISSIS) ((OMISSIS)) sino al decesso avvenuto l'(OMISSIS), inidonea ad escludere l'eventuale emergenza di "comorbilità" aventi autonoma incidenza causale sull'evento;

c. l'età avanzata della persona offesa.

Si cita a sostegno il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui "le cause concorrenti sono tutte e ciascuna causa dell'evento stesso ed il nesso di causalità può essere escluso se si verifichi una causa o una serie causale autonoma, rispetto alla quale la precedente si ponga tamquam non esset e trovi, nell'attività dell'imputato, soltanto l'occasione per svilupparsi: cioè quando detta causa si trovi nella serie causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile, di guisa che la causa sufficiente alla produzione dello evento sia quella del tutto indipendente dal fatto del reo, avulsa dalla sua condotta ed operante con assoluta autonomia, in modo da sfuggire al controllo e alla prevedibilità di lui. Non è tale la causa sopravvenuta quando sia legata a quella preesistente e con la quale si trovi in una situazione di interdipendenza per cui, mancando l'una, l'altra rimarrebbe inefficace, nessuna di esse potendo, disgiunta dall'altra, realizzare l'evento".

4.2. Con il secondo motivo eccepisce violazione degli artt. 110 e 575 c.p., e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al ritenuto contributo causale fornito dal G. alla commissione dell'omicidio di B.V. e, in via gradata, al mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall'art. 114 c.p..

Dopo aver confutato le argomentazioni addotte nella sentenza impugnata a sostegno del

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concorso del G. nell'omicidio, si duole il ricorrente della mancata individuazione dello specifico apporto - morale o materiale - che il G. avrebbe fornito alla commissione del delitto.

Anche in questo caso il difensore si richiama alla giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all'esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) non esime il giudice di merito dall'obbligo di motivare sulla prova dell'esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l'atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall'art. 110 c.p., con l'indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto viziata la motivazione della sentenza per non aver il giudice di merito indicato gli elementi fattuali dai quali far discendere la prova che l'imputato fosse il mandante di un omicidio).

Contesta, altresì, che questa necessaria verifica probatoria possa ritenersi, nel caso di specie, essere stata assolta positivamente avendo i giudici con ragionamento illogico ritenuto che la prova concernente il concorso nel diverso reato di rapina (rubricato al capo a) fungesse da automatica dimostrazione del contributo causale per il delitto di omicidio.

4.3. Con il terzo motivo, eccepisce violazione degli artt. 110 e 575 c.p., e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine all'individuazione dell'elemento psicologico che avrebbe sorretto la condotta concorsuale del G. nel delitto di omicidio e per l'effetto il mancato riconoscimento del concorso anomalo.

Dopo aver evidenziato che la corte territoriale, discostandosi dal giudice di prime cure, aveva ricondotto l'elemento psicologico nell'alveo del dolo eventuale, il difensore del G. eccepisce l'assenza in atti di alcun elemento che consentisse alla corte di ritenere la consapevolezza e la condivisione da parte del G. della condotta violenta posta in essere da A.D.. Il primo, invero, aveva prestato la propria adesione al piano delittuoso di accedere di notte nell'abitazione del B.

per rubare, eventualmente ricorrendo all'uso della forza per piegare la reazione del predetto, senza tuttavia condividere ex ante l'aggressione brutale e repentina del predetto con l'uso,

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peraltro, di uno strumento (il martello) che doveva fungere soltanto per l'effrazione della porta di ingresso.

Ne consegue, in tesi difensiva, che la responsabilità del G. avrebbe dovuto, al più, essere inquadrata nel perimetro siglato dall'art. 116 c.p., che sarebbe valso, tra l'altro, ad escludere la contesta circostanza aggravante prevista dall'art. 61 c.p., n. 2 da attribuire soltanto all'esecutore materiale del delitto.

4.4. Con il quarto motivo eccepisce violazione dell'art. 584 c.p., e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della natura preterintenzionale dell'omicidio.

Deduce che l'accertata dinamica del fatto (in particolare: l'arma impropria utilizzata, il comportamento dei tre imputati dopo l'aggressione, le condizioni della vittima al momento della loro fuga, la direzione della maggior parte dei colpi inferti alla vittima in zone non vitali) avrebbe imposto l'esclusione dell'animus necandi e, pertanto, la qualificazione del fatto nell'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale.

4.5. Con il quinto motivo eccepisce violazione degli artt. 62-bis e 133 c.p., e mancanza ed illogicità della motivazione in ordine al disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed all'entità della pena inflitta al G..

Deduce che "elementi positivi" tali da giustificare la concessione delle circostanze attenuanti generiche o comunque una mitigazione della pena potevano essere rinvenuti nell'incensuratezza dell'imputato, nella qualificazione dell'elemento soggettivo nella forma meno pregnante del dolo eventuale, nel ruolo secondario assunto dall'imputato, nella "concausalità" tra condotta ed evento.

5. Ricorso di A.V..

5.1. In via preliminare e generale questo ricorrente si duole del fatto che il procedimento in questione è contrassegnato da una evidente lacunosità del materiale probatorio a disposizione delle parti, frutto di "un'erronea ed illogica rinuncia a qualsivoglia approfondimento di natura tecnica sulle cause che hanno determinato la morte di B.V.". Contesta la attendibilità dell'accertamento indiretto cui si è affidata la corte territoriale per giungere alla conclusione che l'evento in esame non poteva essere derivato da cause diverse dalle condotte attribuite agli imputati. E in questo senso, alla luce anche di quanto rappresentato dal perito medico legale ("mi è mancato l'anello di chiusura tra trauma meccanico violento, lesioni riportate dal B., menomazioni che ne sono conseguite ed evento morte"), il canone dell'oltre ogni ragionevole

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dubbio avrebbe imposto l'assoluzione dell'imputato per insussistenza del fatto.

5.2. Tanto premesso, con il primo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 40,41 e 575 c.p., per avere la corte di assise di appello disatteso tutte le argomentazioni difensive in relazione:

a. al mancato espletamento dell'autopsia che avrebbe consentito di colmare la lacuna (l'anello mancante) evidenziato dallo stesso perito.

b. all'inadeguatezza della documentazione medica utilizzata dal perito per colmare detta lacuna.

Più in generale contesta la logicità della motivazione in tutti i passaggi, puntualmente richiamati in ricorso, da cui si evince lo "sforzo" dei giudici volto ad escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, la presenza di una causa sopravvenuta da sola sufficiente a provocare l'evento.

5.3. Con il secondo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 110 c.p..

Con argomentazioni analoghe, a tratti sovrapponibili, a quelle utilizzate dalla difesa del G., sostiene che nella condotta dell'imputato "difetta (rispetto all'evento omicidiario) sia il contributo, materiale o morale, sia l'efficienza causale".

In questo senso, censura della sentenza impugnata:

La logicità dell'iter argomentativo attraverso cui la corte di assise di appello è pervenuta a ritenere la piena condivisione da parte del G. e di A.V. della violenza utilizzata da A.D., benchè l'oggetto dell'accordo tra i tre imputati prevedesse soltanto la commissione del furto nell'abitazione del B. e la "brutale aggressione" della vittima fosse stata una esclusiva iniziativa di A.D., "in preda (per come riferito dal G.) probabilmente ad un momento di terrore".

I giudici avrebbero, dunque, fondato il giudizio di responsabilità nei confronti dell' A.V. sulla base soltanto della presenza fisica di quest'ultimo al momento e sul luogo del fatto attribuendo decisiva valenza probatoria ad una condotta puramente passiva.

5.4. Con il terzo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 116 c.p..

Sostiene che, nel caso di specie, potevano al più ricorrere i presupposti per attribuire la responsabilità del fatto all'imputato a titolo di concorso anomalo: evento più grave non voluto dal concorrente e non dipendente da fattori eccezionali. Eccepisce che, sul punto, la motivazione è "assolutamente carente".

5.5. Con il quarto motivo censura, in via gradata rispetto a quanto dedotto con il secondo motivo (mera presenza passiva dell'imputato al momento della brutale aggressione), l'assoluta carenza

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di motivazione in ordine al riconoscimento dell'ipotesi attenuata prevista del contributo di marginale importanza.

5.6. Con il quinto motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 584 c.p. (si rinvia sul punto al successivo par.

6.2 relativo al ricorso di A.D.).

5.7. Con il sesto e settimo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p..

Si duole, nello specifico, del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della determinazione della pena inflitta all'imputato, avendo, su entrambi i punti, la corte di assise di appello omesso di considerare: il coinvolgimento dell'imputato da parte dei correi soltanto nell'imminenza dell'azione delittuosa; il comportamento processuale dell'imputato; la regolare condotta in carcere.

6. Ricorso di A.D..

6.1. Con il primo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 40,41 e 575 c.p..

Lamenta l'assenza di nesso eziologico tra la condotta materiale posta in essere dal ricorrente la sera del (OMISSIS) e la morte del B. avvenuta dieci mesi più tardi.

Alle deduzioni, sul punto, comuni ai ricorsi dei coimputati (in primis il mancato espletamento di un esame autoptico della vittima), si rimarcano da parte della difesa di A.D. i limiti della perizia medico-legale effettuata nel corso del giudizio di primo grado, essendosi questa basata su "una situazione di fatto, oggettiva ed incontrovertibile, ossia la totale sconoscenza dello stato di salute della persona offesa negli ultimi sette mesi di vita", senza che tali lacune possano ritenersi colmate dal contenuto del "certificato telematico redatto ai fini dell'erogazione della pensione di invalidità" rilasciato al B. dieci giorni prima della sua morte.

In definitiva, si contestano tutti i rilievi contenuti in sentenza e posti a sostegno della sussistenza di un nesso di concausalità tra l'aggressione e la morte del B.:

a. l'ottima salute del B. prima dell'aggressione subita (smentita dal medico curante dott. Bi. che, nel corso dell'esame dibattimentale, ha riferito che il paziente era affetto da

"cerebrovasculopatia cronica multinfartuale" sin da prima del (OMISSIS), tale da avergli procurato già nel (OMISSIS) vari episodi ischemici);

b. l'assenza di patologie successive al fatto da sole in grado di provocare l'evento morte. In relazione a questo punto si evidenzia l'illogicità della motivazione nel passaggio in cui si

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afferma che eventuali patologie sopravvenute sarebbero state rilevate dai familiari della vittima e di conseguenza di queste sarebbe stato investito il medico curante. Trascurano, invero, i giudici dell'appello che talune forme di patologia sono anche asintomatiche sino all'exitus.

Trascurano, altresì, l'eventualità che il decesso del paziente potesse essersi verificato per una infezione sistemica da cattiva manutenzione delle piaghe da decubito (sul punto del tutto insoddisfacente la difesa ha ritenuto la risposta del perito nel corso dell'esame, per cui detta ipotesi era da escludere perchè nessun sanitario aveva scritto o annotato che il paziente fosse affetto da flogosi sistemica condizionata da lesioni da decubito).

6.2. Con il secondo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 584 c.p..

Sulla base degli elementi in atti appare incontrovertibile, in tesi difensiva, che l' A.D. ha posto in essere atti diretti unicamente a percuotere e provocare lesioni personali ai danni del B., con esclusione di ogni previsione dell'evento morte che ha costituito un quid pluris rispetto all'evento effettivamente perseguito ovvero quello di evitare la reazione della persona offesa ("senza considerare che l'azione era stata programmata per compiere un furto accettando soltanto che degenerasse in rapina e che la condotta violenta era stata posta in essere al buio").

6.3. Con il terzo motivo eccepisce violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 c.p..

Si duole, nello specifico, del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della determinazione della pena inflitta all'imputato, avendo, su entrambi i punti, la corte di assise di appello omesso di considerare la confessione resa dall'imputato, il comportamento processuale (sempre presente alle udienze, mostrando atteggiamento educato e remissivo) e quello post factum, concretizzatosi, una volta resosi conto di aver colpito "un povero anziano", nella immediata desistenza dall'azione ed il contestuale adoperarsi adagiando la vittima sul letto.

Deduce che validi "elementi positivi" per giustificare la concessione delle circostanze attenuanti generiche o comunque una mitigazione della pena potevano essere rinvenuti nell'incensuratezza dell'imputato, nella qualificazione dell'elemento soggettivo nella forma meno pregnante del dolo eventuale, nel ruolo secondario assunto dall'imputato, nella "concausalità" tra condotta ed evento.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

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1. I ricorsi sono complessivamente infondati e devono, pertanto, essere rigettati.

2. Al di là del dato enunciato, le censure dei ricorrenti formalmente riguardano anche inosservanze di norme processuali e sostanziali, ma in realtà si esauriscono in rilievi rivolti alla congruità e logicità della motivazione.

Ciò non preclude ovviamente l'ammissibilità del motivo di impugnazione, purchè si accerti che il ricorrente non si sia limitato a prospettare una propria alternativa lettura del compendio probatorio, ma abbia individuato omissioni, carenze o punti di frizione dell'iter valutativo seguito dai giudici del merito, tali da inficiare la validità della decisione.

Invero, affinchè la motivazione possa essere ritenuta viziata è necessario che il ricorrente riesca a prospettare una effettiva contraddizione logica, intesa come non plausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; oppure che lamenti una insufficiente descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento.

L'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha, dunque, un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (per tutte: Sez. U, n. 12 del 31.5.2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U, n. 47289 del 24.9.2003, Petrella, Rv. 226074).

L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, sempre che siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento.

Si è così giunti ad affermare che in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno;

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ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema logico in sè compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è "geneticamente" informata, ancorchè questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (in termini, Sez. 6, n. 25255 del 14.2.2012, Minervini, Rv.

253099).

In definitiva, la prospettazione di un vizio della motivazione impone alla Corte un duplice vaglio: con il primo, volto a stabilire la ammissibilità del ricorso, deve verificare che la doglianza non si risolva in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata; con il secondo (subordinato all'esito positivo del precedente) deve verificare se effettivamente la motivazione presenti alcuna delle specifiche omissioni, carenze o manifeste illogicità dedotte dal ricorrente.

Ancora in via preliminare, occorre evidenziare che, nel presente giudizio, le due decisioni di merito sono consultabili congiuntamente in questa sede alla luce del principio per il quale quando la sentenza appellata e quella di appello non divergono sui punti denunciati, esse si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 5, n. 14022 del 12.1.2016, Genitore, Rv. 266617).

In tali evenienze il compito del giudice della legittimità è circoscritto alla verifica della congruità e logicità delle risposte contenute nella decisione di appello alle singole doglianze prospettate nel relativo atto di gravame.

Tanto premesso, la sovrapponibilità delle doglianze prospettate nei singoli ricorsi suggerisce di procedere ad una disamina trasversale degli stessi trattando unitariamente le questioni comuni.

3. Con il primo motivo di ciascun atto di gravame le difese degli imputati hanno eccepito la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui i giudici hanno escluso la sopravvenienza in capo alla vittima di una patologia da sola sufficiente a determinarne il decesso sì da interrompere il nesso causale fra la condotta ascritta agli imputati e l'evento morte.

Secondo la prospettazione difensiva, l'impianto probatorio su cui si fonda il giudizio di colpevolezza degli imputati è carente di un elemento essenziale ai fini della ricostruzione del

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fatto, vale a dire l'esatta individuazione della causa della morte della vittima che si sarebbe potuta accertare soltanto attraverso una perizia necroscopica che i giudici hanno, però, ritenuto di non disporre.

Da qui, in tesi difensiva, lo "sforzo" motivazionale da parte dei giudici dell'appello di colmare la lacuna anzidetta valorizzando altri profili fattuali, valutati, però, a dire dei ricorrenti, in termini parziali, contraddittori ed illogici.

In definitiva, le difese degli imputati sostengono che soltanto l'esame autoptico avrebbe potuto consentire di addivenire ad una esatta ricostruzione della dinamica eziologica tra l'azione in contestazione e l'evento.

L'assunto non è condivisibile.

Da escludere, innanzi tutto, che esso costituisca il postulato di un principio avente portata generale, in quanto ciò equivarrebbe ad affermare che in tutti i casi in cui non sia possibile effettuare l'esame necroscopico sulla presunta vittima di un omicidio sarebbe precluso l'accertamento del fatto.

Può semmai convenirsi con i ricorrenti nel ritenere che in presenza di un quadro probatorio quanto mai incerto e contrastante l'indagine necroscopica possa assumere una valenza decisiva.

La corte di assise di appello ha, tuttavia, escluso che, nel caso di specie, ricorresse una simile ipotesi, in quanto dalla perizia disposta dal primo giudice e dall'esame del perito era emersa l'assenza di elementi obiettivi rivelatori di specifiche morbilità autonome insorte dopo l'aggressione e tali da porsi come causa esclusiva dell'exitus.

In questa situazione, l'esame autoptico, oltre che inidoneo a fornire, a distanza di quasi tre anni dal decesso del B., risposte in ordine ad eventuali sopravvenute morbilità autonome innescatesi a prescindere dall'aggressione medesima e dopo la stessa, è stato convincentemente ritenuto dai giudici un espediente puramente "esplorativo" e come tale superfluo.

Riconoscendo, dunque, piena attendibilità all'indagine peritale svolta dal dott. R.C., la corte territoriale è pervenuta alla conclusione che "pur in assenza di autopsia, poteva senz'altro ritenersi che la morte del B. era avvenuta per una causa patologica naturale, in relazione alla quale il trauma cranico provocato dall'aggressione avvenuta il (OMISSIS), e le conseguenze scaturitene, avevano certamente avuto efficacia quanto meno concausale determinante in relazione all'exitus".

Rispondendo, poi, alle perplessità delle difese, i giudici hanno evidenziato, sulla base sempre dei risultati dell'indagine peritale, che se è vero che la mancanza di autopsia non aveva

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consentito di accertare la specifica causa della morte del B. e di escludere in assoluto la ricorrenza di ulteriore patologia, è altrettanto inconfutabile che le emergenze in atti consentivano di escludere che il paziente fosse in precedenza affetto da patologie idonee a determinarne, da sole, l'exitus e che fosse poi stato interessato da patologie di ordine clinico internistico tali da richiedere l'intervento di un sanitario, per cui "poteva comunque indirettamente affermarsi la derivazione della morte dall'evento traumatico subito con l'esclusione di altre comorbilità causalmente efficienti in modo autonomo, poichè dalla sindrome di allettamento del paziente, autonomo ed autosufficiente prima dei fatti, erano conseguite - e conseguono normalmente in analoghe condizioni di età del soggetto e tipologia e gravità del trauma - complicanze e danni secondari assai gravi relativi a diversi organi ed apparati, come sopra dettagliatamente specificati".

Ed ancora, a sostegno di quanto ritenuto, si riportano in sentenza le affermazioni del perito, secondo cui può ritenersi "con assoluta certezza, che il B., a seguito delle lesioni, non avrebbe mai più acquistato uno schema posturale perchè una rieducazione forzata fatta nel giro di sessanta giorni dall'evento traumatico, quindi dopo un evento acuto, che non sortisce alcun effetto di natura di rieducazione neuromotoria, non sortisce mai più nessun effetto e quindi sarebbe stato un paziente cronicamente lungodegente allettato (cfr. esame perito, udienza del 09/07/2015, pag.12); rimane immutato l'ipertono spastico dell'arto inferiore di sinistra. Cioè come è entrato il B. è uscito dalla Casa di Riposo Monsignor Calaciura (pag. 13 citato verbale di udienza)".

"Pertanto, in presenza di sindrome da allettamento, l'accertamento della causa della morte può, senza che residui alcun ragionevole dubbio, avvenire per esclusione, e cioè escludendo ogni altra causa, di cui, nella specie, non vi è traccia in atti nè ragione di sospetto".

3.1. La solidità logica di tale argomentazione non è scalfita dalle censure dei ricorrenti che ripetono quelle contenute nell'atto di appello e nella sentenza impugnata tutte esaminate e respinte.

Le difese si sono limitate, per lo più, ad evocare, talvolta ricorrendo ad argomentazioni puramente congetturali, circostanze dalle quali sarebbe potuta scaturire una patologia letale, senza tuttavia dedurre elementi obiettivi segno di una importante patologia, sia pure in forma embrionale, in atto.

Si eccepisce, in particolare, che la corte territoriale non avrebbe adeguatamente considerato:

a. il dilatato lasso temporale intercorso tra la condotta delittuosa e l'exitus, capace di includere

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l'insorgere di una nuova patologia;

b. l'assenza di osservazione e controlli clinici dalla data di dimissioni del B. dalla (OMISSIS) ((OMISSIS)) sino al decesso avvenuto l'(OMISSIS), inidonea ad escludere l'eventuale emergenza di "comorbilità" aventi autonoma incidenza causale sull'evento;

c. l'età avanzata della persona offesa.

d. l'inadeguatezza della documentazione medica utilizzata dal perito per colmare ciò che lo stesso aveva definiva l'anello mancante.

Si eccepisce, altresì, l'illogicità della motivazione nel passaggio in cui si afferma che l'eventuale sopravvenienza di patologie sarebbe stata rilevata dai familiari della vittima e di conseguenza di questa sarebbe stato investito il medico curante. La difesa confuta tale argomentazione osservando che talune forme di patologia sono anche asintomatiche sino all'exitus e che il decesso del paziente poteva essersi verificato per una infezione sistemica da cattiva manutenzione delle piaghe da decubito.

Al di là del carattere puramente congetturale - e come tale privo di ogni rilevanza - di tali ultimi rilievi, le restanti deduzioni (tutte peraltro ampiamente vagliate nella sentenza impugnata) si arrestano, come già evidenziato, ad una soglia estremamente anticipata, tale da renderle generiche, in quanto vengono indicate una serie di circostanze, astrattamente idonee al sorgere di una condizione di morbilità, non corroborate, però, nel caso concreto, da alcun elemento obiettivo da cui desumere l'esistenza di una effettiva condizione patologica del B., antecedente o successiva alla aggressione subita, in grado, prescindendo totalmente da questa, di determinarne il decesso del predetto.

Non diversamente deve ritenersi in relazione alle deduzioni difensive in merito all'esame del dottor Bi., medico curante del B., disposto nel giudizio di appello.

I ricorrenti sostengono che da questo atto istruttorio si ricava, innanzi tutto, il bisogno da parte dei giudici di acquisire nuovi elementi che corroborassero la tesi accusatoria. In secondo luogo, il contributo offerto dal Bi. smentirebbe la circostanza secondo cui il B. prima dell'aggressione subita godeva di ottima salute, avendo il predetto medico riferito che il paziente era affetto da

"cerebrovasculopatia cronica multinfartuale" sin da prima del (OMISSIS), tale da avergli procurato già nel (OMISSIS) vari episodi ischemici.

Su entrambi i profili dedotti, la sentenza impugnata contiene risposte che, in quanto immuni da sbavature logiche, sono in questa sede insindacabili.

Quanto alla prima obiezione, della quale non può peraltro non rilevarsi una certa eccentricità

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rispetto al thema probandum, i giudici hanno chiarito che l'esame del dott. Bi., "è stato disposto in quanto il sanitario non risultava essere stato sentito in alcuna fase nel processo di primo grado, al fine di acquisire notizie di prima mano, tramite, appunto, il medico curante, circa le patologie da cui il B. era affetto prima della brutale aggressione".

Quanto alla "cerebrovasculopatia cronica", i giudici, sulla base di quanto riferito dal perito, hanno ritenuto che trattasi di una tipica malattia senile, di scarsissima incidenza sulla mortalità.

In definitiva, tutti gli elementi in atti (tra i quali comprendere anche le dichiarazioni del dottor S.P.M., direttore del reparto di neurochirurgia dell'Ospedale (OMISSIS), ove la vittima, dopo l'aggressione subita, era stata ricoverata) consentivano di ritenere che il B. all'epoca dell'aggressione, sebbene quasi ottantenne, "godesse di buona saluti tanto da condurre una vita assolutamente autonoma, da vivere da solo, senza neanche l'ausilio di una badante o di una donna delle pulizie, da rifiutare l'aiuto della figlia - che pur andava a trovarlo - per le faccende domestiche, da andare quotidianamente, da solo, a fare la spesa, da essere sempre ben curato e ben vestito, al punto che era stato "adocchiato" dagli imputati proprio per queste sue caratteristiche, che li avevano indotti a ritenerlo un soggetto benestante".

Contrariamente a quanto eccepito dalle difese, i giudici di secondo grado non si sono, dunque, discostati dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui "le cause concorrenti sono tutte e ciascuna causa dell'evento stesso ed il nesso di causalità può essere escluso se si verifichi una causa o una serie causale autonoma, rispetto alla quale la precedente si ponga tamquam non esset e trovi, nell'attività dell'imputato, soltanto l'occasione per svilupparsi: cioè quando detta causa si trovi nella serie causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile, di guisa che la causa sufficiente alla produzione dello evento sia quella del tutto indipendente dal fatto del reo, avulsa dalla sua condotta ed operante con assoluta autonomia, in modo da sfuggire al controllo e alla prevedibilità di lui.

Non è tale la causa sopravvenuta quando sia legata a quella preesistente e con la quale si trovi in una situazione di interdipendenza per cui, mancando l'una, l'altra rimarrebbe inefficace, nessuna di esse potendo, disgiunta dall'altra, realizzare l'evento" (Sez. 4, n. 12048 del 12.7.1990, Gotta, Rv. 185235).

Il principio appena affermato (peraltro pienamente condiviso dal Collegio) ha, piuttosto, trovato corretta applicazione nella sentenza impugnata, nella quale i giudici, attraverso una puntuale e coerente lettura di tutti gli elementi fattuali in atti, hanno ritenuto che nella fattispecie in esame fosse da escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sopravvenienza, rispetto al

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compromesso stato di salute del B. a seguito e per effetto dell'aggressione subita, di una causa autonoma in grado da sola di determinare l'evento letale.

Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo, per il resto, il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile.

4. Il quarto motivo del ricorso di G., il quinto del ricorso di A.V., il secondo del ricorso di A.D.

hanno ad oggetto il passaggio argomentativo della sentenza impugnata in cui i giudici hanno ritenuto la sussistenza del dolo omicidiario.

4.1. Al riguardo, occorre rammentare che in tema di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente.

Ne consegue che, ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'"animus necandi", assume valore determinante l'idoneità dell'azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata "ex post", con riferimento alla situazione che si presentava all'imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso. I parametri cui il giudice deve conformare la propria valutazione sono costituiti dalle caratteristiche dell'arma utilizzata per l'esecuzione del fatto, della natura e della localizzazione delle lesioni in una zona corporea sede di organi vitali, della intensità e della forza di penetrazione dei colpi (nel caso di utilizzo di armi da taglio), della posizione reciproca dell'imputato e della parte offesa (ex multis: Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 51056 del 27/11/2013, Tripodi, Rv. 257881).

4.2. Il principio ha trovato puntuale applicazione nella decisione impugnata.

La corte territoriale con motivazione pienamente rispondente ai canoni della coerenza e della logica, ha ritenuto che tutte le circostanze enucleabili dalla dinamica del fatto rispondessero positivamente agli indici rivelatori del dolo di omicidio e non di lesioni.

"Non v'è dubbio - si afferma in sentenza - che gli odierni imputati, colpendo reiteratamente l'anziana vittima con un martello alla testa, si rappresentarono certamente - tutti - la possibilità che la p.o. potesse decedere a seguito dei colpi ricevuti e, quanto meno, ne accettarono il rischio pur di conseguire il loro obiettivo di neutralizzarla per portare a compimento, impunemente, la rapina".

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Rispetto a quanto sostenuto dal primo giudice che aveva individuato nel dolo diretto l'elemento soggettivo connotante l'azione degli imputati, la corte di assise di appello ha ritenuto che la ricostruzione dei fatti risulta perfettamente coerente "sia con il dolo diretto, nei termini specificati dal primo giudice, sia, in via residuale e garantista, con il dolo eventuale, senza nulla rilevantemente modificare nella sostanza e nel disvalore".

4.3. Con argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili le difese hanno censurato questo passaggio della sentenza per violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 584 c.p..

Si sostiene da parte dei ricorrenti che l'accertata dinamica del fatto (in particolare: l'arma impropria utilizzata, il comportamento dei tre imputati dopo l'aggressione, le condizioni della vittima al momento della loro fuga, la direzione della maggior parte dei colpi inferti alla vittima in zone non vitali) avrebbe imposto di escludere l'animus necandi e, di conseguenza, di qualificare il fatto nell'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale.

In altri termini, secondo la prospettazione difensiva, A.D. avrebbe posto in essere atti diretti unicamente a percuotere e provocare lesioni personali al B., senza prevederne il decesso, costituente un quid pluris rispetto all'evento effettivamente perseguito ovvero quello di evitare la reazione della persona offesa.

4.4. La doglianza è affetta da genericità in quanto con essa i ricorrenti, senza individuare alcun profilo di manifesta illogicità della motivazione, si sono limitati a confutare le valutazioni contenute in sentenza contrapponendo una propria alternativa lettura degli elementi di causa, peraltro opinabile sul piano della congruenza (come nel caso della estrema, ma non conducente, valorizzazione conferita dai difensori all'utilizzo per la commissione del misfatto di un'arma impropria).

A sostegno delle proprie ragioni, i ricorrenti hanno anche rimarcato l'incertezza espressa dai giudici tra dolo diretto e dolo eventuale.

Il rilievo è, tuttavia, da ritenere privo di una effettiva incidenza, in quanto il giudice dell'appello, pur lasciando aperta la possibilità che nel caso di specie ricorresse una ipotesi di dolo eventuale anzichè diretto, ha tenuto a precisare, coerente alla complessiva ricostruzione del fatto operata, che, in ogni caso, il fatto restava sostanzialmente immutato nel suo disvalore.

La puntualizzazione ha consentito alla corte di assise di appello di ritenere l'alternativa tra le due forme di dolo indifferente ai fini del riconoscimento delle attenuanti previste dagli artt. 114 e 62-bis c.p., escluse entrambe, come si avrà modo di esporre più avanti, in ragione di ulteriori

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profili argomentativi a sostegno della gravità del fatto.

5. Complessivamente infondati, ai limiti della inammissibilità, sono i motivi di ricorso attraverso cui i difensori del G. e di A.V. hanno censurato la ritenuta responsabilità dei predetti quali concorrenti di A.D., esecutore materiale dell'omicidio.

Nello specifico, le difese hanno eccepito violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla ritenuta responsabilità dei predetti imputati ai sensi dell'art. 110 c.p. (secondo motivo dei ricorsi del G. e dell' A.V.) e, in via gradata, all'escluso inquadramento dell'apporto fornito dai predetti nello schema del concorso anomalo ex art. 116 c.p. (terzo motivo dei ricorsi del G. e dell' A.V.).

5.1. In merito al primo profilo, con motivazione, oltre modo puntuale e coerente alle risultanze in atti, i giudici dell'appello hanno ritenuto pienamente provata la partecipazione di tutti e tre gli imputati nella commissione del delitto, a prescindere dal fatto che l'esecuzione materiale sia stata posta in essere dal solo A.D..

5.2. Con gli odierni ricorsi i difensori reiterano sostanzialmente le doglianze già proposte in sede di appello, senza tuttavia fornire alcun elemento in grado di inficiare la solidità dell'apparato argomentativo attraverso cui le stesse sono state ivi respinte.

I ricorrenti, dopo aver confutato le argomentazioni addotte nella sentenza impugnata a sostegno del concorso del G. nell'omicidio, si dolgono della mancata individuazione dello specifico apporto - morale o materiale - che il G. avrebbe fornito alla commissione del delitto.

Contestano, al riguardo, che questa necessaria verifica probatoria possa ritenersi assolta positivamente attribuendo alla prova concernente il concorso nel reato di rapina (rubricato al capo a) la automatica efficacia dimostrativa del contributo causale per il delitto di omicidio.

Si sostiene, altresì, l'illogicità dell'iter argomentativo attraverso cui la corte di assise di appello è pervenuta a ritenere la piena condivisione da parte del G. e di A.V. della violenza utilizzata da A.D., benchè l'oggetto dell'accordo tra i tre imputati prevedesse soltanto la commissione del furto nell'abitazione del B. e la "brutale aggressione" della vittima fosse stata una esclusiva iniziativa di A.D., "in preda (per come riferito dal G.) probabilmente ad un momento di terrore".

I giudici avrebbero, dunque, fondato il giudizio di responsabilità nei confronti dei due ricorrenti in esame sulla base soltanto della loro presenza fisica al momento e sul luogo del fatto, finendosi così per attribuire decisiva valenza probatoria ad una condotta puramente passiva.

5.3. La prospettazione difensiva non convince, in quanto mal si concilia con le risultanze in atti e con la logica ricostruzione della dinamica del fatto che da queste la corte territoriale ha

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