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L’evoluzione patrimoniale dell’abbazia benedettina di Sesto in Sylvis tra i secoli VIII e X consente di delineare con precisione la portata di questi fenomeni di rafforzamento delle istituzioni ecclesiastiche. Si tratta infatti del caso meglio documentato dell’area friulana, oltre che certamente il più antico, su cui possediamo memorie scritte. Il monastero venne fondato ad opera di alcuni esponenti della famiglia ducale friulana nella pianura del Friuli occidentale intorno alla metà del VIII secolo, sulla scia di altre iniziative analoghe del regno longobardo in Italia centro settentrionale202. Il primo documento che si conosce riguardo a questa iniziativa è una cartula

199 Aspetti presi in considerazione da G. SERGI, L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo, Roma 1994, pp. 4-8.

200 AZZARA, Venetiae cit., p. 81.

201 A questo va aggiunto che l’integrazione tra l’elemento etnico longobardo e quello autoctono raggiunse livelli molto alti nell’VIII secolo, fattore che condizionò l’intera società, anche con riferimento al ruolo delle chiese locali. Cfr. in particolare, G. L. BARNI - G. FASOLI, L’Italia nell’alto medioevo, Torino 1971, p. 51; F. MARAZZI, Dall’impero d’occidente ai regni romano barbarici, in Storia medievale (a c. di) E. ARTIFONI, Roma 1998, pp. 95-98; S. GASPARRI, Il passaggio dai Longobardi ai Carolingi, in Il futuro dei Longobardi cit., p. 27.

202 SERGI, L’aristocrazia della preghiera cit., pp. 8 e ss. Per un approccio complessivo al tema si rinvia al lavoro a cura di G. ANDENNA, Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e motodi della ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio, Milano 2001 (in part. il contributo di G. PENCO, La storiografia monastica italiana tra aspetti istituzionali e indirizzi culturali, pp. 19 e ss.).

donacionis del 762203 con la quale i tre fratelli longobardi Erfo, Marco ed Anto, convenuti

nell’abbazia di Nonantola, dotano l’abbazia maschile titolata a Santa Maria e al Principe degli Apostoli di alcune aziende curtensi poste prevalentemente all’interno della marca friulana, nel territorio collocato tra i fiumi Livenza e Tagliamento. La parte rimanente del loro patrimonio personale viene quindi legata ad una seconda fondazione monastica, stavolta femminile, nata a Salt, un piccolo villaggio non lontano da Cividale. Questo secondo monastero viene posto sotto la direzione della loro madre Piltrude. Si tratta di un chiaro esempio di trasmissione di patrimoni privati a fondazioni religiose che diventano, con l’accettazione delle proprietà, una sorta di bene- rifugio per sfuggire alle requisizioni che si profilavano con l’avvento dei nuovi conquistatori204.

Tale pratica, come s’è già visto, non era sfuggita a Carlo che nei suoi diplomi e nella produzione capitolare cerca di mettere ordine a forme di trasmissione impropria della proprietà privata205. In

altri casi, come è per l’appunto quello di Sesto, l’imperatore opta invece per diplomi di riconoscimento delle nuove fondazioni monastiche, avvalorando la loro importanza territoriale e in alcuni casi le donazioni precedenti.

La cartula donacionis offre uno squarcio sul patrimonio di una famiglia aristocratica longobarda in Friuli in un’epoca poco documentata, e per questo è considerata un atto di grande importanza. Il patrimonio associato dai tre fratelli all’abbazia comprende tre grosse aziende curtensi ed altri possedimenti situati nell’odierna provincia di Pordenone. I primi sono la curte sita in Sexto ubi [est] ipsum monasterium (ovvero il sito del monastero di Santa Maria) verosimilmente fondato pochi anni prima della stesura della cartula206, la curte in Laurenciaca cum oratorio dedicato al Signore e

a San Salvatore207 posto sulle rive del basso corso del fiume Livenza, quindi la curte in Sancto

Focato posta nell’alta pianura friulana, qualche chilometro a nord est di Pordenone. Questi dovevano essere i centri curtensi di maggiore importanza, sicuramente aziende agricole di grande rilevanza economica per il territorio, dotate, come specifica la donazione, di boschi, pascoli e prati, di vigne e di appezzamenti con pertiche (astalariis) per forme di agricoltura specializzata come la

203 CDL, II, n. 162, p. 98; copia del XII secolo con minime varianti in ASV, Congregazioni Religiose Soppresse (CRS),

Santa Maria di Sesto, b. unica. Per la bibliografia su Sesto, oltre a E. DEGANI, L’abbazia benedettina di Sesto in sylvis,

Portogruaro 1908; L’abbazia di Santa Maria di Sesto tra archeologia e storia, (a c. di) GC. MENIS – A. TILATTI, Fiume

Veneto 1999.

204 Sull’argomento in generale, T. LECCISOTTI, Aspetti e problemi del monachesimo in Italia in Il monachesimo nell’alto

medioevo e la formazione della civiltà occidentale (Settimane di studio Cisam, 4), Spoleto 1957, e P. GROSSI, Le abbazie benedettine nell’alto medioevo, Torino 1957. Per il Friuli, P. ZOVATTO, Il monachesimo benedettino in Friuli,

Trieste 1977; C. SCALON, Il monachesimo benedettino in Friuli, in età patriarcale. Atti del Convegno internazionale di studi (Rosazzo 18-20 novembre 1999), Udine 2002, Infine, sulla questione delle donazioni, con specifico riferimento al

ruolo dei duchi longobardi, M. DE JONG – P. ERHART, Monachesimo tra i Longobardi e i Carolingi, in Il futuro dei Longobardi cit., pp. 105-41.

205 MGH, Leges, Capitularia regum Francorum cit., n. 88.

206 G. SPINELLI, Origine e primi sviluppi della fondazione monastica sestense, in GC. MENIS – A. TILATTI, L’abbazia di

Santa Maria di Sesto cit., pp. 99 e ss.

207 Da ricordare a proposito di questa titolazione che la cartula sestense viene probabilmente stesa nel monastero benedettino del monte Amiata, dedicato anch’esso a San Salvatore e di cui probabilmente era abate uno dei tre fratelli donatori, ibidem.

coltivazione della vite, di mulini, case, stalle e infine di laghetti per la piscicoltura. Ma ci sono anche altri luoghi in cui i fratelli possedevano delle proprietà meno strutturate, che probabilmente venivano concesse a livello: Rivaria, Ripafracta, Biberons e Sacco, cui andava ad aggiungersi una casa a Ramuscello. A questi beni, riservati al monastero maschile, ne vanno aggiunti altri posti al di fuori della marca friulana e due corti (quella di Medea e di Salt, entrambe non lontane da Cividale) che vengono assegnate al monastero femminile di Salt per qualche decennio, fino cioè a quando non saranno a loro volta assorbite dalla fondazione sestense a seguito del trasferimento delle monache nel più sicuro chiostro di Cividale208. Come si vede dalla figura n. 3, si tratta di beni posti a distanza

di diverse decine di chilometri tra loro, tali da non consentire la creazione di un patrimonio unitario, anche se in quest’epoca non sono documentate altre presenze fondiarie organizzate, tantomeno capaci di concorrere con quelle dei benedettini di Sesto. Oltre ad assegnare aziende e beni fondiari, i tre fratelli includono nello stesso documento una manumissio dei servi che lavoravano sotto la loro piena potestà al momento della donazione, un provvedimento che ben si situa all’interno del pio abbandono della vita attiva e di iniziazione a quella contemplativa che è esplicitato dall’arengo del documento209. Quello della liberazione dei servi, com’è stato notato, è un elemento che storicamente

può sembrare precoce rispetto alla datazione del documento, ma anche questa osservazione non pare avere una rilevanza tale da far sorgere da parte degli editori seri dubbi sulla bontà dell’atto210.

Un altro elemento utile ad interpretare lo spirito della donazione, anche se non sappiamo bene quanto concretamente sia stato osservato nella prassi, è la norma che definisce la libera elezione dell’abate secondo la regula di San Benedetto, temperata tuttavia dalla possibilità di intervento del patriarca di Aquileia per la sostituzione di un abate resosi indegno per corruzione, o in generale di condotta disdicevole all’ordine211. C’è infine un ultimo elemento che caratterizza fortemente il

documento e che sarà foriero di conseguenze per la vita del monastero fino al Duecento. I donatori scongiurano infatti il patriarca affinché egli si adoperi per preservare i monaci da ogni genere di violenza, operata sia dalle persone del luogo che dagli inimici, avallando in questo modo un ruolo di garanzia e di ingerenza morale che già in quell’epoca l’alto ecclesiastico doveva interpretare sugli uomini della chiesa friulana e veneta212. La precisazione ci riporta ad una preoccupazione che

possiamo leggere tra le righe della cartula, quella cioè di vivere in un periodo di drammatica

208 Ibidem, pp. 102-3.

209 CDL, II, n. 162, p. 99. Sulla manumissio, cfr. anche TOUBERT, Dalla terra ai castelli cit., p. 170, e soprattutto alle considerazioni sul tema infra al cap. V.

210 SPINELLI, Origine e primi sviluppi della fondazione monastica sestense cit., pp. 99-103.

211 La libera elezione dell’abate è una norma canonica che si lega alla riforma cluniacense, con riferimento alla piena esclusione dei laici nella vita della fondazione monastica, cfr. l’esame sull’argomento operato da M. PACAUT, Monaci e religiosi nel medioevo, Bologna 1989 (= Paris 1970), p. 99 e ss.

212 Il patriarca è così designato garante della sicurezza del monastero principalmente nei confronti dei mali cristianai e dei possidenti locali che potevano rappresentare un rischio per la sicurezza dei monaci. Vale la pena di osservare che tale richiesta invece non avrebbe alcun senso se formulata verso gli inimici esterni (quali ad esempio i predoni avari), ovviamente poco inclini a riconoscere qualsiasi forma di autorità morale o di generico primato patriarcale.

transizione. Lo stesso Paolo Diacono nella sua opera esprime in diversi passi la diffusa idea dell’insicurezza generata dalla forza d’urto dell’esercito di Carlo Magno e della lenta fine di un regno secolare che si era avvicinato progressivamente alle popolazioni locali, e che era riuscito a costituire un nuovo equilibrio sociale con quelle stesse popolazioni213.

213P. C

AMMAROSANO, Paolo Diacono e il problema della regalità, in Paolo diacono e il Friuli altomedievale (secc. VI – X), Atti del XIV Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 2001, pp. 103 e ss.

Figura 3: La distribuzione dei beni donati nel 762 dai fratelli longobardi Marco, Erfo ed Anto alle abbazie di Sesto e

L’impotenza di fronte agli invasori, resa manifesta dall’impossibilità di dar vita ad una difesa unitaria, assecondava le paure. Fu anche attorno a questi stati d’animo che germinarono molte fondazioni monastiche; e proprio da questo sentimento trassero origine le preoccupazioni riguardo a possibili ritorsioni da parte dei nuovi dominatori214. Il tenore della richiesta di protezione al

patriarca di Aquileia poteva anche essere ben motivato dalla stessa posizione del monastero nel centro del Friuli occidentale, ovvero in prossimità dei percorsi che i predoni slavi battevano nelle proprie razzie, anche se in questo caso il patriarca avrebbe potuto concretamente fare ben poco! Dato che intorno alla metà dell’VIII secolo è senza dubbio da escludere che il patriarca potesse possedere milizie personali, se non altro per l’assenza di documenti provanti215. E’ quindi da

presumere che il ruolo di protezione esercitato e di cui si parla nel documento sia esclusivamente legato ad una sfera morale, e quindi preferenzialmente esperito nei confronti dei mali cristiani216.

Solo su questi le interdizioni patriarcali avrebbero potuto esercitare un qualche effetto rispetto alla palese inefficacia nei confronti degli invasori esterni217.

Nel 781, cioè cinque anni dopo aver schiacciato le ultime resistenze dell’aristocrazia longobarda veneta e friulana, Carlo Magno si occupa per la prima volta di Sesto, facendo prevalere quell’atteggiamento sanzionatorio e di riconoscimento dell’istituzione monastica che inizia a diventare un aspetto caratteristico della sua politica, e che continuerà poi anche con i suoi successori218. La prima conferma riguarda la situazione patrimoniale che si era venuta a creare dopo

una donazione adelchiana di qualche tempo prima219. Poco prima della caduta del regno longobardo,

Adelchi aveva infatti disposto due provvedimenti riguardanti l’abbazia friulana. Il primo, di un certo rilievo, era l’approvazione della permuta tra l’abate di Sesto ed un suo gastaldo di nome Roticario, mediante la quale i monaci entravano in possesso di prati e boschi posti nelle vicinanze di Biverone e di una corte regia a Rivarotta (territorio dove già i monaci di Sesto possedevano una corte, come chiarito dal diploma di fondazione), entrambe situate rispettivamente nei pressi dei

214 DE JONG –ERHART, Monachesimo tra i Longobardi e i Carolingi cit., p. 109-111.

215In linea generale, il Tabacco, sulla scia degli studi del Prinz già richiamati, tende tuttavia a non escludere la presenza

di clientele armate a servizio dei vescovi tra VI e VIII secolo, ma i riferimenti riguardano soprattutto l’area francese. Cfr. G. TABACCO, La città vescovile nell’Alto Medioevo in Modelli di città. Strutture e funzioni politiche, (a c. di) P.

ROSSI, Torino 1987, pp. 327-345.

216 Ne ha parlato per primo in modo chiaro il SETTIA, Castelli e villaggi cit.,. p. 72 e ss., con riferimento al ruolo delle spoliazioni operate dai potenti del regno ai danni dei ricchi monasteri.

217 La tutela patriarcale su Sesto può comunque essere letta compiutamente solo tenendo conto della documentazione del XII secolo laddove, proprio facendo leva sulla cartula del 762, il patriarca si appropria del diritto di nomina dell’abate. Ne scaturisce una lite promossa presso vari pontefici che riconoscono comunque le ragioni dell’abbazia sulle pretese patriarcali. Cfr. GOLINELLI, L’abbazia di Santa Maria di Sesto al Reghena nel pieno medioevo cit., p. 139.

218 Considerando solo la produzione degli atti consimili a favore di monasteri italiani negli anni 776 -788: MGH, DDK I, n. 113 (Nonantola); n. 125 (Novalesa); n. 133 (Reggio); n. 131 (Nonantola); n. 157 (San Vincenzo al Volturno); n. 158 (Montecassino).

219 MGH, DDK I, n. 134, p. 185. Il diploma data l’anno 781, e si riferisce ad una precedente sanzione di re Adelchi in un periodo collocabile tra il 759 ed il 774, quando fu associato al trono del padre Desiderio.

fiumi Livenza e Meduna. Il documento che riassume il negozio, purtroppo non chiarisce il motivo per cui beni demaniali, come erano le corti regie, furono utilizzati quale merce di scambio a favore del gastaldo Roticario, che a sua volta entrava in possesso di alcuni campi dell’abbazia a Chiarmacis, nei pressi di Udine. Che i beni di cui entrava in possesso l’abate avessero a che vedere con il patrimonio della corona lo testimonia il fatto che sia la permuta come l’asseverazione della medesima avessero necessitato di una seconda conferma da parte del nuovo regnante: se si fosse trattato di un negozio privato tutto questo non sarebbe stato necessario, a meno che non si fosse trattato di beni strategicamente rilevanti. Probabilmente Adelchi aveva utilizzato la permuta per sottrarre parte del patrimonio pubblico al demanio in vista di un cambio di governo. Con questo primo atto, come già visto databile tra il 754 ed il 774 (periodo in cui Adelchi fu associato al trono del padre Desiderio), l’abbazia da inizio ad un processo di compattamento dei propri possedimenti nel territorio compreso tra i fiumi Livenza e Tagliamento, rinunciando invece, a favore del proprio gastaldo, ad altri situati nei pressi di Udine, più distanti, e quindi di più difficile gestione.

La seconda donazione che Carlo è chiamato a confermare si riferisce invece all’impegno di alcune entrate fiscali della giurisdizione trevigiana (fine Tarvisano) a beneficio del monastero. Si trattava di risorse assai consistenti per la fiscalità del regno: saligne modia centum et porcos quinquaginta, cento staia di segala e cinquanta maiali, la cui proprietà a favore dei monaci ora Carlo si trova a ratificare dietro le insistenze dell’abate Beato. Questo trasferimento non aveva probabilmente nulla a che vedere con la permuta di cui abbiamo detto sopra, ma si trattava di una elargizione a se stante con beneficiario l’abate. Rispetto alle conferme ad altri monasteri dell’alta Italia, relative essenzialmente alle proprietà di ampi territori e in alcuni casi alla concessione di immunità negative, questo diploma si distingue per una certa larghezza nella natura delle concessioni. Quello che si andava a convalidare era infatti un censo assai consistente di pertinenza demaniale accordato in perpetuo ai monaci, che l’imperatore, nell’ambito della nuova organizzazione dei suoi territori, avrebbe potuto tranquillamente revocare220. Pochi anni prima, il monastero era stato per altro

beneficiato da una significativa donazione da parte del duca Massellio221 che trasferiva amplissime

proprietà nella villa qui dicitur Forno (alta val Tramontina). Oltre alla villa con le sue pertinenze, i pascoli, le montagne, i prati ed i casali, Massellio donava in quella circostanza all’abbazia le cave di ferro e di rame, e gli uomini che nostri nomine ad manus suas habere dignosscitur sicut ad curtem regiam nobis commissa pertennerant pro mercedem anime mee seu ad luminaria vel ad stabilitatem regni domni nostri Caroli proficiant in augment222.

220 Probabilmente è per la larghezza di tale concessione che Carlo non assegna ulteriori immunità dai pubblici gravami. Cfr. sull’argomento anche SPINELLI, Origine e primi sviluppi della fondazione monastica sestense cit., p. 111.

221 ASV, CRS, Santa Maria di Sesto, b. unica.

I prati ed i boschi di Biverone, la corte di Rivarotta, così come le proprietà in Forni hanno in comune l’origine longobarda. Questo non tanto in relazione alla «frequentazione longobarda» dei siti, ma perchè è documentabile che fossero appartenuti in precedenza o al patrimonio di aristocratici longobardi, quale era ad esempio il duca Massellio, oppure provenissero dal patrimonio regio alienato per volontà dei sovrani longobardi Adelchi e del padre Desiderio. Ma se l’attenzione dell’aristocrazia longobarda verso le fondazioni monastiche è un elemento noto, e nel caso di Sesto già insito nel primo documento di dotazione del 762223, gli atti successivi confermano che tale linea

non venne minimamente ostacolata da Carlo nel suo compimento, ma anzi promossa nell’ambito di una fase di coabitazione e collaborazione con l’apparato ducale.

A queste donazioni di origine aristocratica si sommano altre meno ricche ma comunque significative. Tra queste ci sono alcune pertinenze in Leproso e Pertica (località del Cividalese ora scomparse) che il diacono Pietro lasciò nel luglio 805 in eredità al monastero, dietro conferma dell’usufrutto, per il tramite dell’abate di Sesto Pietro (il secondo della serie)224. Degli stessi anni

sono però anche le tre carte di donazione fatte rogare dal duca di Senigallia Tommaso, mediante le quali l’aristocratico trasferisce al patrimonio dei monaci alcune sue importanti proprietà nel territorio marchigiano e nei pressi della città di Sinigallia, all’epoca già restituita da Carlo Magno al Patrimonium Sancti Petri225.

Fino a questo momento il monastero di Sesto è beneficiato principalmente da donazioni di beni immobiliari e mai con immunità fiscali, anche se un piccolo riferimento a questo genere di concessioni sembra ravvisarsi già nella conferma di Carlo del 781. In realtà con quel documento Carlo non esplicita la concessione di immunità così come aveva invece fatto più chiaramente altrove, limitandosi a prendere in considerazione le sole questioni attinenti alla permuta adelchiana e acconsentendo alla donazione di alcuni particolari diritti provenienti dal fisco regio, senza mai riferirsi a forme di più ampia immunità. Il vero e proprio salto di qualità in termini di riconoscimento istituzionale avviene al tempo di re Lotario nel marzo dell’830, in un periodo di

223 DE JONG –ERHART, Monachesimo tra i Longobardi e i Carolingi in Il futuro dei Longobardi cit., p. 109-111. 224 DELLA TORRE, L’Abbazia benedettina di S. Maria di Sesto in Sylvis cit., doc. n. 3, p. 87.

225 ASV, CRS, Santa Maria di Sesto, b. unica, fasc. “B” (copia del sec. XII). Non ci soffermiamo su questi documenti perché non riguardano l’area dello studio, ma vale la pena di notare che anche in questo caso Tommaso, figlio del duca Sergio, è un longobardo che pone sotto la tutela del monastero parte delle sue proprietà dopo che la sua città, strappata da Astolfo al patrimonio petrino, veniva restituita da Pipino il Breve. Va per altro ricordato che il monastero potè rivendicare il reale possesso di questo patrimonio per brevissimo tempo. Infatti dopo che l’abate Pietro decideva nel X secolo di darli in affitto a gente del luogo (Cfr. DELLA TORRE, L’Abbazia benedettina di S. Maria di Sesto in Sylvis cit., p.

107), l’abate promosse una serie di iniziative legali per cercare di vederseli restituiti dopo che altri signori del luogo li avevano nel frattempo occupati con la forza. La lontananza dal monastero fu probabilmente la causa principale che portò i monaci a desistere da altre forme di rivendicazione. Su Tommaso che dona diversi beni anche al monastero di Brondolo, nella laguna veneta, cfr. pure Ss. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, II, Documenti (800-1199), (a c. di) B. LANFRANCHI STRINA, Venezia 1981.

tensione con l’imperatore Ludovico il Pio (che nello stesso anno viene obbligato dai figli ad abdicare a favore di Lotario) e di generale crisi per le istituzioni226. Il tentativo del re italico di

creare consenso e stabilità nei propri domìni sta alla base di una serie di provvedimenti che danno origine a nuove isole di autonomia sancite stavolta non da generiche donazioni, ma dalle