Anche l’amministrazione della giustizia è una prerogativa che rimane saldamente nelle mani dei funzionari pubblici, ma il sistema carolingio prevede a questo riguardo anche forme di compensazione e di raccordo tra il centro e la periferia che favoriscono l’entrata in questo apparato del corpo ecclesiastico. Peculiare a questo riguardo è l’ambiguità introdotta da Carlo Magno attraverso l’istituto del missaticum, che consiste nella rappresentanza di un conte e di un ecclesiastico (spesso un abate, ma a volte anche un vescovo) per l’esercizio delle funzioni ispettive, o di amministrazione della giustizia in senso sovra ordinario, o di grado superiore alla prima istanza407.
Rispetto a questo tema, le fonti di natura giudiziale offrono alcuni spunti interessanti. Pur ribadendo per il IX secolo l’assenza di placiti nel territorio dell’odierno Friuli, si assiste comunque all’impiego di ecclesiastici provenienti dall’area friulana in assise svolte principalmente a Verona. Le presenze dei vescovi sono all’inizio molto rare, quasi si trattasse di comparse prudenti. Appare evidente in questo senso la volontà dell’imperatore di ribadire attraverso la presenza dei suoi rappresentanti che il compito dell’amministrazione della giustizia è in capo in primo luogo ai suoi officiali assistiti dall’efficiente apparato tecnico di scabini, notai etc. Ma col passare del tempo, la presenza degli ecclesiastici ai vari placiti diviene tutt’altro che episodica, fino a trovare addirittura i vescovi impegnati in funzioni giudicanti. E’ il caso di uno dei più antichi placiti carolingi di cui si ha testimonianza nel Veneto, celebrato a Verona nell’806, dove la funzione giudicante è svolta contestualmente dal conte Adumaro e dal vescovo Ratoldo408. Lo stesso Ratoldo, investito della
carica di messo imperiale, presiede a sua volta nell’820 un altro giudizio concernente una vertenza tra l’abbazia di Nonantola ed il conte di Verona. E’ un’ulteriore indizio sia dell’interscambiabilità dei ruoli che del sostanziale equilibrio che poteva sussistere in ambito giudiziario tra il conte ed il vescovo insignito delle funzioni di messo imperiale.
Sotto il regno di Ludovico il Pio e di Ludovico II, la presenza dei vescovi nelle città e nei territori diocesani viene riconsiderata anche in una prospettiva pubblica, ovvero attraverso una più chiara relazione con il ruolo comitale. Le fonti giuridiche dell’epoca evidenziano questa mutazione: si confrontino ad esempio le disposizioni che proprio Ludovico II assume durante una sinodo che si tiene a Pavia nell’850. In questa sede, certamente non appropriata per decisioni riguardanti l’ordine pubblico, il sovrano chiama a raccolta i più autorevoli ecclesiastici italiani invitandoli a riferirgli
Sua origine costituzione e legislazione (1231-1420), Udine 1903, pp. 80, 81.
407 Cfr. G. TABACCO, Sperimentazioni del potere cit., p. 63; WERNER, Missus-marchio-comes cit., ad. indicem; CARAVALE,
Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., pp. 119-23.
direttamente sulle condizioni del regno409 ed in particolare sugli abusi che fossero stati perpetrati dai
conti410. Ancor oltre il sovrano italico si spinse con le disposizioni emanate di lì a qualche mese in
un’altra sinodo con riferimento all’esercizio della cosiddetta pena pubblica, in cui proprio il vescovo avrebbe dovuto mantenere un ruolo primario in sede locale. L’imperatore descrive un’organizzazione studiata sin nei dettagli, dove in ogni villa l’arciprete, su mandato del vescovo, avrebbe provveduto all’esecuzione delle penitenze pubbliche. Tutto ciò alla concertata presenza dei capifamiglia, con lo scopo di garantire la necessaria teatralità nell’esecuzione della pena con l’effetto insieme educativo e deterrente411. Il capitolare mantiene la forma astratta, tipica della
normativa, ma non di meno conferma l’apporto del vescovo nell’applicazione delle pene correlate ai reati pubblici nelle sfere minori, laddove cioè era più complesso pensare ad una azione diretta dell’ufficiale pubblico e della sua organizzazione412. Ai funzionari maggiori competevano ed
interessavano molto di più i proventi connessi all’amministrazione della giustizia delle pene e degli affari di grande rilevo, da cui veniva tratto un terzo delle multe, oltre ovviamente a proventi fiscali relativi ai dazi, mercati ed altro413. Questa separazione evidenzia pertanto l’esistenza nell’VIII e IX
secolo di un duplice piano di svolgimento dell’amministrazione della giustizia: da una parte il conte, dall’altra il ruolo esercitato per singulas villas da vescovi ed arcipreti. La politica di Ludovico II e di Carlo il Grosso, sulla linea di quella carolingia, giunge poi a definire con ulteriore precisione il ruolo dei vescovi in relazione a quello dei conti. In questa prospettiva vengono attribuiti ai vescovi poteri di controllo sempre più circostanziati rispetto all’attività dell’apparato regio. Questo rafforzamento di natura amministrativa, come si è visto non sembra percepito nell’area friulana, dove come anticipato non si celebrano placiti per tutto il periodo altomedievale, e dove l’apparato funzionariale svolge la sua attività in stretta relazione alle disposizioni dei vertici imperiali. Questa sorta di amministrazione «straordinaria», dove non esistono o sono ridotte al
409 Sull’argomento, TABACCO, Sperimentazioni del potere cit., p. 194. 410 MGH, Leges, II, Capitularia Regum Francorum, n. 209.
411 Le penitenze pubbliche sono forme di teatrale sconto della pena generata da reati «pubblici», quali ad esempio forme di condotta scandalosa. Lo sì evince dal precedente capitolare rivolto ai vescovi (845-850): Sacra docet auctoritas, ut
publice peccantes publicae poenitentiae subiciantur […], Ibidem, n. 210.
412 Ibidem, n. 228, c. 6: Sollicite procurent episcopi, quam diligentiam erga plebem sibi commissam unus quisque presbiterorum gerat: oportet enim, ut plebium archipresbiteri per singulas villas unumquemque patrem familias conveniant, quatinum tam ipsi, quam omnes in eorum domibus commorantes, qui publice crimina perpetrarunt, publice peniteant; qui vero occulte deliquerunt, illis confiteantur, quos episcopi et plebibium archipresbiteri idoneos ad secreciora vulnera mentium medicos elegerint; qui si forsitan in aliquo dubitaverint, episcoporum suorum non dissimulent implorare sententiam. Si vero episcopus hesitaverit, non aspernetur consumere vicinos episcopos et ambiguam rem alterius aut certe duorum vel trium fratrum esaminare consensu. Quodsi adeo aliqua obscuritate vel novitate perplexa res fuerit, siqudem diffamantum certae personae scelus est, metropolitani et provincialis synodi palam sententia requirantur, ut illud impleatur apostoli: “Peccantes pubblice argue, ut et caeteri metum habeant”. Si autem oculta confessio est, et is, a quo queritur salutis consilium, explicare non sufficit,potest soppresso facinorosi nomine qualitas quantitasque peccati discuti et congruus correctionis modus inveniri. Similiter autem et in singulis urbium vicis er suburbanis et per municipalem archipresbiterum et reliquos ex presbiteris strenuos inistros procuret episcopus abita poenitus in rebus dubiis observatio, quae superius praefixa est.
minimo le attività che caratterizzano la pubblica amministrazione in ragione della costante emergenza connessa alle invasioni slave ed avare, annulla pertanto anche qualsiasi ipotesi di concorrenza tra le sfere del potere ufficiale (conti e marchesi) e quello religioso. Il vuoto dell’attività giudiziaria assente, o comunque non documentata, fino allo scadere del X secolo va quindi contestualizzato nella più generale assenza del ruolo amministrativo dell’autorità pubblica, e questo apre interrogativi sulle modalità in cui venisse gestito nel concreto il contenzioso. In particolare, la situazione specifica della «marca di frontiera», anche per le evidenti ingerenze dirette dell’imperatore nei negozi di natura privatistica414 porta a ipotizzare l’esistenza di una sorta di
limitazione alle normali condizioni di autonomia personale. Il che non comporta necessariamente l’emanazione di una legislazione separata (di cui non si hanno per altro testimonianze), perché le stesse norme carolingie si rivelano adeguate alla creazione di isole in cui – su sostanziale direttiva degli ufficiali pubblici – i diritti possono essere applicati e fatti valere in modo più o meno efficace. Si pensi, solo per rimanere all’ambito giurisdizionale, alla declinazione del termine giustizia al plurale nei capitolari. L’habere iustitiam distingue all’interno del popolo chi ha il diritto, in senso passivo, di essere titolare di diritti di giustizia da chi la esercita direttamente415, ed il primo caso,
cioè la determinazione dell’insieme degli «aventi diritto», è sovente al centro delle reprimende imperiali contro i propri ufficiali che evidentemente tendono a restringere questo ambito per garantirsi maggiore autonomia416.
Sostanzialmente diversa dal Friuli è invece la situazione nel Veronese, che anche in questo versante rappresenta l’area meglio documentata soprattutto per la frequente presenza in loco dell’imperatore e dei suoi delegati. A Verona, luogo di relazione tra la penisola italica ed il regno di Germania, si celebrano la maggior parte dei placiti presieduti dall’imperatore, e tra i membri del collegio giudicante si trova spesso impegnato anche il patriarca aquileiese, a volte direttamente in qualità di delegato imperiale. Nelle altre città venete compaiono nella documentazione invece saltuariamente i conti, il cui apporto nei placiti pubblici è in generale poco rilevante417. Il ruolo attivo del patriarca
friulano nell’attività giudiziale in Italia è più complesso di quel che fanno apparire le sue comparse nei documenti. L’eminente ecclesiastico appare sin dalle prime testimonianze come una figura strettamente connessa alle alte sfere della politica imperiale, di cui è interprete non solo nel territorio friulano. Esemplare è al riguardo l’attività svolta per Carlo Magno dal patriarca Paolino, strettissimo collaboratore e membro della stessa corte per un certo periodo. Il patriarca friulano oltre a presiedere sinodi episcopali trasferendo in essi le direttive imperiali su svariati aspetti sia etici che
414 Si ricordi il già citato esempio dell’intromissione di Carlo Magno nella divisione del patrimonio privato del longobardo Aione ai suoi tre figli: MGH, DKK, I, n. 209, p. 280.
415 BALOSSINO, «Iustitia, lex, consuetudo» cit., pp. 12 e ss.
416 MGH, Capitularia regum Francorum n. 3/3, 13, a. 781, p. 54 e ibid., 4/5, 782, p. 56, oltre ai casi riportati in BALOSSINO, «Iustitia, lex, consuetudo» cit., pp. 12-15.
sociali418, figura come giudice in almeno un placito. Il documento, oggi perduto, è citato nel verbale
di una assemblea successiva che si svolse nel corso dell’812 a Pistoia, e si riferisce agli anni 799- 802419. Secondo questo documento, Paolino avrebbe presieduto un placito assieme all’arcivescovo
di Salisburgo Arno, all’abate di Saint-Denis Fardolfo, e al conte di palazzo Eccherigo per dirimere una lunga vicenda di abusi e di violenze riguardanti la gestione del patrimonio della chiesa abbaziale di San Bartolomeo a Lucca. Paolino presiede in questo placito una giurìa costituita dai massimi esponenti del clero della sua epoca; li accomuna la totale fedeltà e vicinanza alle vicende dell’imperatore, che a sua volta se ne avvale per incidere sull’amministrazione di un cospicuo patrimonio monastico. Dopo la morte di Paolino e per gran parte del IX secolo l’attività dei patriarchi di Aquileia nelle sedi di giudizio rimane abbastanza marginale. Mentre si assiste a questa tendenza, in area veneta è documentabile una ripresa dei giudizi da parte dei conti veronesi; solo a partire dalla metà del secolo successivo avviene invece un deciso incremento dei placiti presieduti dal patriarca. Questa ripresa può essere letta anche come una manifestazione pubblica della progressiva trasformazione del ruolo patriarcale da eminente ecclesiastico dotato di fama e prestigio internazionale a quella di signore ecclesiastico dotato di un dominio temporale sempre più consistente. A partire dal X secolo il presule friulano diviene sempre più un riferimento istituzionale particolarmente importante per la politica imperiale, in affiancamento alla figura del conte420. In
questo quadro di ragionamenti, interviene il distacco della marca Veronese ed Aquileiese dal regnum italiae e la sua unione alla Baviera sancita da Ottone I nella Dieta di Augusta (952)421.
Questa decisione è stata considerata dalla storiografia friulana come un aspetto tutto sommato poco legato alle concrete questioni della storia regionale, frutto di scelte assunte a livello centrale che avrebbero avuto scarse conseguenze nel territorio; tale impostazione è stata invece considerata in modo diverso dagli storici che si sono occupati delle vicende veronesi422. Proprio l’esame della
documentazione veronese conferma come le decisioni assunte in quel consesso portarono alla modifica dei precedenti assetti favorendo un controllo ancor più diretto della marca veronese da parte della grande aristocrazia imperiale. La marca da questo momento viene governata da una figura di altissimo livello della familia imperiale, il duca di Baviera Enrico il Leone, potenziale e
418 CUSCITO, Paolino d’Aquileia nelle sinodi di Francoforte e di Cividale cit., in part. p. 115 e ss.
419 I placiti cit., n. 25, p. 77; Sulle vicende riguardanti il documento, cfr. M. STOFFELLA, Le relazioni tra Baviera e
Toscana tra VIII e IX secolo: appunti e considerazioni preliminari in «Mélanges de l’Ecole Français de Rome», 120/1
(2008), p. 75.
420 Evoluzione delineata da MOR, Il patriarcato de parte imperii, in Il Friuli dagli Ottoni agli Hohenstaufen cit., pp. 17 e ss.
421 Per le premesse a questa decisione cfr. G. FEDALTO, Origine, funzionamento e problemi del patriarcato (secoli VI-X), in Paolo Diacono ed il Friuli altomedievale cit., pp. 152-4.
422 Con l’eccezione del MOR, L’età feudale cit., pp. 178-9. Si confrontino invece PASCHINI, Storia del Friuli cit.,, pp. 60 e ss.; SCHMIDINGER, Patriarch und Landesherr cit., p. 61; ID, Il patriarcato di Aquileia cit. pp. 54-55; CAMMAROSANO, L’Alto medioevo, cit. pp. 72-85. Al contrario inserisce le vicende nel loro generale contesto, pur in termini generali,
CASTAGNETTI , Il Veneto nell’Altomedioevo cit., p. 110, ma senza analizzare le conseguenze che questa scelta può aver
temuto concorrente del fratello Ottone I. Questo importante passaggio si concretizza in un ulteriore indebolimento della figura del conte-marchese del Friuli, e limita allo stesso tempo il disegno di natura regionale che i patriarchi di Aquileia stavano perseguendo come conseguenzenza delle molteplici donazioni da parte imperiale423. Negli stessi anni si registra l’aumento degli interventi
degli imperatori germanici nella nomina dei titolari di vescovati. L’influenza imperiale, come ha dimostrato Daniela Rando, giunge fino ai margini dell’area lagunare e dei territori di Adria e Rovigo con la nomina di rappresentanti filoimperiali fra il clero di vescovadi minori come quello di Altino e di Cittanova424. Il rapporto tra il potere centrale e l’alto clero veneto e friulano continua a
rimanere saldo soprattutto in forza della provenienza prevalentemente tedesca dei vescovi posti al comando delle diocesi venete e friulane425. Questo ruolo di fedeltà, e se vogliamo pure di presidio,
favorì ulteriormente i piani di riorganizzazione imperiale sul Friuli resi manifesti oltre vent’anni dopo la dieta di Augusta con l’annessione della regione alla Carinzia (976)426. E’ proprio in questi
nuovi e più ampi scenari che matura una maggiore coscienza della cooperazione tra l’impero e il patriarca, a cui viene riconosciuto un ruolo sempre più chiaro che lo trasforma da metropolita a figura insieme di rango religioso ed istituzionale. La materia giudiziale è un campo particolarmente significativo al riguardo. Verso la seconda metà del X secolo il ruolo del vecchio marchese carolingio diviene appannaggio del duca di Carinzia (nella fattispecie il duca Enrico I), che rispetto al predecessore appare più attento alle prerogative giudiziali. Questo non esclude tuttavia la possibilità di avviare forme di collaborazione tra duca e patriarca che, pur su livelli decisamente diversi e su ranghi subordinati, consentono una sorta di avvicendamento tra le due figure nei giudizi. Il riconoscimento del primato esercitato dall’apparato pubblico, rappresentato dall’ufficiale regio, è fuori discussione, ma come ha sottolineato il Werner, nelle marche periferiche dell’amministrazione carolingia e post carolingia il lavoro dell’amministrazione della giustizia doveva essere più complesso di quello esercitato nei comitati, perché in queste ultime più cogenti erano gli indirizzi di natura centrale427. Il discorso vale in particolare per l’attività di coordinamento
423 Tra il 952, anno dell’incorporazione del Friuli al ducato bavarese, ed il 983, data in cui Ottone II assegna alcuni castelli al patriarca di Aquileia (cfr. MGH, DD O II, n. 304, p. 360), si registra infatti una certa freddezza imperiale verso i patriarchi, rispetto alle importanti donazioni precedenti. Tale periodo, che coincide per buona parte con il regno di Ottone I, vede l’imperatore impegnato a limitare l’intraprendenza del duca di Baviera anche mediante la riorganizzazione delle figure comitali e della rete vassallatica, vigilando con particolare attenzione sulla preservazione del patrimonio pubblico. Sulla politica italiana di Ottone I, cfr. H. KELLER, Die Ottonen, München 2001; H. BEUMANN, Die Ottonen, Stuttgart 1987; G. ALTHOFF, Die Ottonen. Königsherrschaft ohne Staat, Stuttgart-Berlin-Köln 2005.
424 RANDO, Una chiesa di frontiera cit., pp. 94-104.
425 Cfr. E. KLEBEL, Zur Geschichte de Patriarchen von Aquileia in «Carinthia» I (1953), in part. 330 per il commento all’elenco dei patriarchi e la loro nazionae d’origine.
426 Sull’argomento oltre al quadro tracciato dal MOR, L’Età feudale cit., I, pp. 357-8, 83, e alla più recente interpretazione di C. FRÄSS – EHRFELD, Geschichte Kärntner. I. Das Mittelalter, Klagenfurt 1984, p. 106, rimane
fondamentale lo storico lavoro di J. FICHER, Forschungen zur Reichs-und Rechtgeschicte Italiens, Innsbruck 1868-74, I,
pp. 265-8.
427 WERNER, Missus-marchio-comes cit., pp. 191 e ss., dove il discorso viene esteso alla più generale difficoltà di organizzazione del rapporto tra centro e periferia garantito dai missi dominici.
tra centro e periferia affidata ai missi dominici, la cui presenza nei placiti friulani è sporadica fino alla metà del X secolo428. L’esame di questi documenti, conferma la sempre più massiccia ingerenza
del duca di Baviera nel ruolo di giudicante, come avviene per la sua presenza in un giudizio del 993 riguardante una usurpazione ai danni dell’ex marchese di Verona Tedaldo, o in due placiti istituiti per l’asseverazione di un diploma del 1001 a favore del conte del Friuli Varient (1001)429.
Con la morte di Enrico I di Bavera (955), Ottone II sembra orientato in modo ancor più chiaro verso lo spostamento delle competenze giudiziarie nelle mani dell’apparato pubblico. Dopo aver sostituito Enrico II detto il Pacifico, insediato per qualche anno alla guida del ducato paterno che poi perse per essersi compromesso nel rapimento del minore Ottone III, Ottone II diede avvio ad una robusta azione di delega favorendo la nomina di missi dominici utilizzati soprattutto nell’ambito dei placiti. Tra il 976 (anno dell’unione del ducato di Baviera a quello di Carinzia) ed il 995 (anno in cui Adelberto di Eppenstain viene nominato marchese della Carinzia) si nota l’intensificarsi della presenza dei delegati imperiali, sia laici che ecclesiastici. Nel marzo del 996 in questa veste troviamo il marchese di Verona ed il vescovo di Como430; due anni dopo, nel placito di Staffolo, ne
compare solo uno, il messo imperiale Vuagerio, assistito però dal conte di Ceneda431. Ancora nello
stesso anno il messo imperiale Azeli presenzia ad un placito assieme a due altri missi: il primo, è in realtà il conte Riprando di Verona presente però come messo del duca di Baviera e Carinzia, il secondo è Maurizio Mauroceno, messo del doge di Venezia432. Accanto ad essi troviamo –
comunque sempre con un chiaro ruolo di delegato imperiale - il patriarca di Aquileia, mentre più raramente figura il vescovo di Verona433. Le funzioni giudicanti invece non sono mai assolte dai
vescovi delle diocesi minori. Nel 972, a Verona, il patriarca di Aquileia Rodoaldo presiede un placito come missus imperiale. Con questa veste giudica l’ammissibilità di una richiesta per l’annullamento di un testamento avente come oggetto la donazione di alcuni beni ad una chiesa veronese434. Si tratta ancora di giudizi minori, come si nota dalla qualità degli attori. Un giudizio di
ben altra importanza, sia per i risvolti economici che per quelli politico-signorili, come quello che
428 Ibidem, per il problema dei missi e del loro peso nei processi giuridici.
429 Cfr. I placiti cit.: II, n. 218 (in cui il duca Enrico di Baviera giudica a favore del vescovo di Verona circa una usurpazione ai suoi danni perpetrata dal già marchese Tedaldo di Verona), e nn. 266 e 267.
430 Documenti antichi trascritti cit., I, n. 28, p. 89. 431 I placiti cit., II, n. 238.
432 I placiti cit., II, n. 241. Il Mauroceno compare anche nel placito precedente (I placiti, II, n. 238) e in uno analogo del 18 luglio 998 (I placiti, II, n. 240) sempre come messo e avvocato del doge, che opportunamente in quanto sovrano in
capite si fa rappresentare da un proprio delegato in sede di giudizio.
433 Credo che l’unica eccezione sia la comparsa del vescovo veronese Oberto accanto al conte vicentino Azeli (messo imperiale) e al conte veronese Riprando in un placito tenutosi a Bassano su antichissime controversie tra Venezia ed il vescovo di Belluno concernenti alcuni territori nel comitato cenedese: cfr: I placiti del Regnum Italiae, cit., II, n. 241 (22 luglio 998).
434 I placiti, cit., II, n. 170, in cui Annone del fu Giovanni e Martino suo nipote impugnano un testamento a favore della