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Resta a questo punto da esaminare l’ultimo gruppo di potestà di derivazione pubblica che i vertici del regnum estesero progressivamente ai vescovi tra il IX ed il X secolo, ovvero quelli che l’odierna dottrina giuridica definisce «diritti pubblici» e diritti di «funzione pubblica». Si vuole indicare in questo modo la svariata serie di attività svolte da un soggetto pubblico, o da un suo concessionario, che si estrinsecano in forme di esercizio del potere. Il carattere comune a questo genere di esercizio è di palesarsi mediante l’attribuzione di concessioni da parte del potere centrale agli organi periferici, mentre – ed è paradossale - per i poteri di cui si è appena trattato non sempre questo riconoscimento è necessario. Si pensi ad esempio alla mancanza di prove documentarie a riguardo dell’esercizio delle armi da parte degli ecclesiastici, o alla stessa compartecipazione dei vescovi ai placiti imperiali, stabilita come s’è visto principalmente in relazione alla dignità dell’ecclesiastico (e connessa alle funzioni di coordinamento centrale) e non mediante l’utilizzo di formule autorizzatorie438. Evidentemente, entrando in questo ampio spettro di poteri in privativa, parliamo di

funzioni pubbliche originariamente riservate allo Stato, che poi progressivamente vengono estese nel territorio essenzialmente ai vescovi, soggetti cioè incapaci di intaccare con il loro servizio in delega l’unità ed il predominio del potere centrale. E’ assai raro infatti che la gestione vescovile dei proventi di matrice pubblica sia oggetto di contrasto con l’imperatore: uno dei pochissimi casi accertati avvenne a Cremona nel X secolo, quanto Ottone III revocò la concessione di quidquid ad rem publicam pertinere noscitur sul Po dalla foce dell’Adda fino al porto di Vulpariolo assegnata al vescovo e al comune439.

Altra cosa è il rapporto tra vescovi e comunità locale nell’esercizio dei suddetti privilegi. Fin dal loro precoce sviluppo, queste forme di potere sono infatti contrassegnate da forti contrasti tra i vari soggetti che nel territorio aspiravano al loro esercizio: contrasti che oppongono ufficiali pubblici e vescovi come, a partire soprattutto dal XII secolo, vescovi e comunità locali. In Friuli e nel Veneto orientale la quasi totale assenza di città ove possano sorgere ordinamenti di forma comunale semplifica non poco la scelta da parte dell’autorità pubblica verso una convergenza di deleghe a beneficio delle chiese maggiori, mentre i monasteri non vengono coinvolti in questo importante processo riorganizzativo.

Le condizioni per il potenziamento degli episcopati su questo versante vengono create, come noto, con la concessione di proprietà demaniali, parte dei quali erano gestite sotto Carlo Magno e i suoi successori attraverso il sistema dei funzionari pubblici. Anche se, come si è visto, non tutti i sovrani

438 Caso esemplare è quello del vescovo di Vercelli Ottone, trattato da FUMAGALLI, Il regno italiaco cit., p. 208.

439 MGH, DD O III, II, n. 198. Sull’argomento, TABACCO, Vescovi e comuni in Italia, in MOR - SCHMIDINGER, I poteri dei

carolingi, carolipidi o di dinastia sassone, attuarono politiche omogenee da questo punti di vista (più liberali i primi, più prudente la politica dei sassoni), in linea generale possiamo dire che l’orientamento generale è quello descritto. Ne consegue, come logico, l’intaccamento in termini sia di prestigio che di potere reale di conti e marchesi, indeboliti soprattutto in termini patrimoniali attraverso notevoli alienazioni del patrimonio d’ufficio e attraverso le cessioni iure proprietario a favore degli ecclesiastici440. L’esempio più diretto di questa concorrenza in ambito friulano con esiti

sfavorevoli per il conte, viene da un documento del 1016 mediante il quale Enrico II dona al patriarca una consistente parte del banno pubblico sulla foresta del Friuli centrale, corrispondente alla parte pianeggiante dell’odierna provincia di Udine, a scapito del conte: se ne parlerà diffusamente tra breve441.

Ma oltre all’aspetto eminentemente territoriale, ha una rilevanza ancor maggiore la facoltà che viene accordata agli stessi vescovi, a partire dal regno di Berengario, di esigere i proventi fiscali connessi ai suddetti territori. I più significativi di questi diritti fiscali sono il teloneum (redditi per le merci di transito dei mercati), il ripaticum (se la movimentazione avviene sulle rive di un fiume o in un vero e proprio porto), ma anche più in generale il diritto di navigazione e di pedaggio ad esempio di un ponte, l’erbaticum, che corrisponde alla facoltà – dietro corresponsione di una quota del raccolto - di mietere l’erba ed i foraggi per i bovini, lo sfruttamento delle paludi, dei pascoli e dei boschi pubblici, assieme ai consistenti diritti di pesca e di caccia che rientrano nella sfera delle massime prerogative signorili442. Assenti dai diplomi che abbiamo studiato invece i riferimenti al

caraticum cioè l’obbligo dei sottoposti di prestare il servizio di trasporto delle derrate dal contado verso la città, applicato soprattutto a favore del vescovo. L’aspetto più importante nelle concessioni regie ai vescovi riguarda naturalmente la cessione dei diritti di giurisdizione, base essenziale per la formazione dei nuovi poteri autonomi443, assieme ai quali spesso si accompagnava la cessione di

castelli e curtes. La cessione di mura, torri, districta e poteri di giurisdizione attorno e dentro le città o i castelli diviene sempre più frequente soprattutto durante il periodo di Berengario (re italico nell’888 ed imperatore nel 915). Nel 904 egli sottoscrive un diploma per molti aspetti rilevante individuando il patriarca come possibile titolare dei diritti giurisdizionali che fino a qualche decennio prima rientravano nelle esclusive prerogative della sua famiglia marchionale. Il passaggio avviene nella donazione a favore di Federico sancte Aquilegensi eclesie patriarcha della portam etiam eiusdem civitatis [Cividale] que Santi Petri vocatur prout publice e regie parti pertinuisse

440 Questo punto in tutta la sua rilevanza viene esaminato da G. TABACCO, L’allodialità del potere nel medioevo, «Studi medievali», XI (1970), pp. 565-615. Sul rapporto vescovi e conti, cfr. FUMAGALLI, Terra e società cit., pp. 83-9.

441 Cfr. infra par. 4.1, con riferimento al diploma MGH, DD H II, n. 354 bis (Strasburgo, 1016 settembre 11) con cui Enrico II assegna al patriarca parte del potere comitale sulla foresta del Friuli ridimensionando il banno comitale alla porzione della selva superiore alla via ungarorum.

442 Cfr. per la terminologia, in particolare dei lemmi ripaticum, teloneum ed erbaticum, cfr. J. F. NIERMAYER, Mediae

Latinitatis lexicon minus, Leiden 1993, passim.

perpenditur, prefate sanctae eclesia et patriarchivo sub omni integritate sua habendum et in perpetuum possidendum444. In realtà, sembra che nemmeno gli estensori del diploma si rendessero

conto di quel che mettevano in vendita, per usare un’espressione del Tabacco445. Non si avverte,

leggendo il diploma, la percezione della delicatezza della materia in oggetto. Tant’è che prima di donare la porta di San Pietro della città di Cividale, il re assegna al patriarca una casa non longe a xenodochio sancti Ioanni evangeliste che era appartenuta ai due longobardi Gumone e Milone, e che forse il re aveva acquisito al patrimonio pubblico dopo la loro morte senza eredi446. Infine, dopo

la donazione della porta di San Pietro con l’importante significato pubblico che essa aveva in ragione della sua funzione di difesa della città, Berengario conferma a Federico tutti quei privilegi che aveva ottenuto dai suoi predecessori, e la cui documentazione era stata distrutta dagli Ungari. Le fonti diplomatiche ci informano che in effetti, tra il 901 e l’anno del diploma, furono diverse le scorrerie ungare nell’Italia padana, incursioni che poi si arrestarono tra il 904 ed il 919447. Non è

certo se nel 904 Berengario sia venuto a patti con i predoni per garantire al suo regno un periodo di tranquillità448. I diplomi disponibili sembrerebbero avvallare questa ipotesi, perché dopo il triennio

901-904 in cui le incursioni della cavalleria magiara causarono le peggiori conseguenze, soprattutto a danno delle chiese vescovili e delle pievi (che risultano infatti i destinatari dei maggiori provvedimenti di garanzia449), le notizie cessano per alcuni anni. Letta in questa prospettiva, è

444 I diplomi di Berengario, cit., n. 60, p. 142. Oltre all’aspetto simbolico, il governo della porta significa la gestione dei flussi di entrata ed uscita della città. Le fonti veneziane evidenziano, anche se in epoca più tarda rispetto a quella che qui prendiamo in considerazione, che proprio in questo luogo avvenivano le operazioni di controllo degli ammassamenti e le riscossioni dei tributi fiscali per la vendita nei mercati, cfr. Gli estimi della Podesteria di Treviso, (a c. di) F. CAVAZZANA ROMANELLI, E. ORLANDO, Roma 2006.

445 TABACCO, Vescovi e comuni in Italia cit., p. 199. 446 I diplomi di Berengario, cit., n. 60, p. 142.

447 Ci si riferisce ai diplomi concernenti l’autorizzazione ai vescovi di Padova e al patriarca di edificare nuovi castelli a seguito delle invasioni ungariche, cfr. I diplomi di Berengario cit., n. 82, 136 e 137 esaminati al par. 3.1, al quale si rinvia pure per la bibliografia sugli Ungari in Italia nel X secolo.

448 Tesi per cui v. ARNALDI, Berengario I, cit., 1967, p. 23.

449 Una riflessione va fatta su queste conferme, perché il riferimento ai numerosi incendi di cui sono ricchi i diplomi di questi anni potrebbe nascondere anche l’uso di falsificare i titoli di proprietà, utilizzando le stragi dei perfidi pagani come occasione per chiedere il riconoscimento di territori o diritti mai concessi in precedenza. Infatti, pur assecondando la versione fatta dai cronisti riguardo alla velocità e al fatto che questi assalti fossero improvvisi, come si spiega che in occasione di ogni scorribanda tutte le concessioni regie vadano irrimediabilmente carbonizzate negli incendi? Si confronti ad esempio questo diploma con quello dell’ottobre 921 emanato da Verona a beneficio della chiesa di Aquileia (I diplomi di Berengario, cit., n. 136, p. 350). Anche in questo caso Berengario asseconda le richieste del patriarca Federico che riguardano, stavolta, la donazione di un castello. La richiesta di sicurezza appare giustificata dall’inasprimento delle scorrerie ungare, che in effetti riprendono dal 919 a terrorizzare la pianura veneta e friulana. Dopo la concessione riguardante il castello di Pozzuolo, l’imperatore conferma illi omnia suarum instrumenta

cartarum, que igne aut aliqua negligentia sive Paganorum incursione perdita sunt, vel quidquid ipsus Federicus Patriarcha juste et legaliter aquisivit […]. In un momento così delicato per il regno, in cui evidentemente anche le

confinazioni tra le singole proprietà dovevano essere assai labili (e lo sappiamo perché i primi progetti di divisione tra le proprietà del patriarca e degli altri signori risalgono solo alla fine del XII secolo, cfr. G. BIANCHI, Documenti per la storia del Friuli, Biblioteca Comunale di Udine, Fondo Principale, b. 499, doc. alla data 12 maggio 1192 e seguenti),

anche le possibili alterazioni della situazione patrimoniale dovevano essere cosa senz’altro possibile. Un falso probabilmente posteriore di qualche anno è ad esempio la conferma di Berengario al monastero di San Michele Arcangelo di Cervignano (presso Aquileia), in cui il monastero fa appunto leva alla distruzione dell’archivio cenobitico avvenuto prima del 912 (cfr. I diplomi di Berengario, cit., n. 18 (dei falsi), p. 411), mentre una simile conferma a favore della chiesa di Padova (ibidem, doc. n. 82) è considerata senza vizi. Ma in quest’ultimo caso la distanza di ben otto anni

evidente come la difesa del regnum sia uno dei motivi essenziali, forse il principale, dell’attività regia nel territorio friulano in questo periodo. Per cui l’avvio dei processi di delega che consentono la donazione di proprietà fiscali o l’autorizzazione all’incastellamento diretto o indiretto a vescovi e privati450, pur inserendosi nella già citata politica di mantenimento delle grandi clientele su cui si

basava il potere dell’imperatore friulano, va inquadrato sempre nella prospettiva più cogente della difesa del regnum451. Si confrontino in questa prospettiva le differenti politiche intraprese da

Berengario rispetto ai predecessori. Quando Ludivico II e Carlo il Grosso si sforzavano di portare a compimento una politica di rivendicazione del ruolo unitario dell’impero impegnandosi in frequenti azioni militari per stabilizzare i confini del regnum italiae, si verificava l’assenza di privilegi di diritti pubblici rilasciati ai patriarchi o ad altri ecclesiastici452. Ciò consente di frenare quei processi

di delega a volte difficilmente controllabili avviati decenni prima da Carlo Magno e da Ludovico il Pio, mediante i quali gli imperatori immaginavano una gestione unitaria del proprio regno. La fragilità intrinseca del regnum non consente forme di gestione unitaria, forse nemmeno sotto Ludovico II, nonostante il suo sia stato considerato un potere più forte rispetto agli altri re italici del IX secolo453. Ma con l’amministrazione del «re regionale» Berengario questi processi di

dissoluzione del patrimonio pubblico assumono, come è noto grazie in particolare agli studi già richiamati del Tabacco, una preponderanza nelle strategie di governo. Si tratta indubbiamente anche di una conseguenza degli ambiti «più ristretti» in cui l’imperatore esercita realmente il potere. La difesa dagli attacchi ungarici diventa una questione da delegarsi alle realtà locali, che per farlo pretendono risorse maggiori. La difficoltà di reperire nuovi territori demaniali da destinare alle clientele porta dall’inizio del X secolo alla necessità di valorizzare nuovi cespiti, quali la monetizzazione delle concessioni regie su porti, mercati e commerci. Proprio su questo settore si indirizza l’azione del re a favore dei vescovi454.

dall’ultimo periodo di incursioni documentate fa sorgere qualche dubbio. 450 Questo almeno in base alla ricorrenza delle fonti, ibidem, p. 195.

451 A partire dagli studi del Settia che per primi hanno messo in discussione il rapporto tra ungari ed incastellamento con sistematicità (in part. SETTIA, Castelli e villaggi nell’Italia padana cit. e ID. L’incastellamento nel regno italico secondo le fonti scritte (secoli X-XI) cit.) e dall’esame dei processi di trasmissione del potere da parte del Tabacco (cfr. TABACCO, L’Allodialità del potere nell’alto medioevo, in Dai re ai signori cit., in part. p. 32-38) è prevalsa una interpretazione del

governo di Berengario sull’Italia nord orientale che pone al centro dei meccanismi di potere la gestione delle clientele (cfr. pure gli esempi di Provero, L’Italia dei poteri locali cit., p. 70). Ciò ha indotto al ridimensionamento del risvolto militare che rimane comunque comunque essenziale per comprendere la complessità dei fenomeni che caratterizzano il periodo.

452 L’assenza richiamata riguarda nella fattispecie il territorio della marca del Friuli. Per un esame delle iniziative politiche si rinvia a MOR, L’Età feudale cit., p. 22 e ss.

453 Ibidem.

454 Per un quadro generale sull’auctoritas vescovile e i processi di patrimonializzazione anche O. B

ERTOLINI, I vescovi del «Regnum Langobardorum» al tempo dei Carolingi, in Vescovi e diocesi in Italia nel Medioevo (secc. IX-XIII),

Padova 1964, pp. 1-26, oltre al già citato BORDONE, I poteri di tipo comitale dei vescovi, cit.. Rinviamo invece al par. 3.1

le considerazioni più generali sulla reale incidenza economica delle scorrerie ungare nel territorio friulano e veneto nel secolo X. Cfr. pure MERLO, Vescovi medievali cit., p. 10 e ss.

I trasferimenti delle potestà e dei diritti pubblici riguardanti la gestione dei principali porti fluviali in area sia veneta che friulana si concretizzano grossomodo nella prima decade del X secolo. Queste azioni rispondono ad una ponderata strategia tesa a beneficiare i vescovi a capo delle principali diocesi, inscrivendo nelle loro prerogative la gestione delle più efficienti arterie su cui si svolgevano i commerci, e donando loro i diritti di riscossione delle imposte per poter garantire la sussistenza e lo sviluppo delle chiese locali. Come si vede, il monarca interviene in questo caso agendo su un quadro normativo di palese concorrenza tra vescovi e conti: la riscossione delle imposte così come la gestione dei diritti pubblici sarebbe infatti rientrata, almeno in linea teroica, nella sfera di questi ultimi. L’assenza, già più volte richiamata, degli ufficiali pubblici tra la seconda metà del IX secolo e la metà del X, basta tuttavia a comprendere come i vescovi avessero chiaramente assunto i caratteri necessari per essere titolari di questa funzione «sostitutiva» del potere pubblico455. Che

l’apparato pubblico in Friuli non avesse più le caratteristiche per garantirsi la riscossione di queste risorse appare evidente già nel 900, quando si giunge ad una prima concessione a beneficio del patriarca di Aquileia, la prima di una serie di affidamenti a favore dei titolari di diocesi. Il 10 novembre di quell’anno, Berengario, da Trieste, assegna al patriarca Federico il corso inferiore del fiume Natissa che collegava l’antica città romana di Aquileia al mare. Il re italico estendeva le potestà del patriarca, oltre al fiume, anche a tutti i suoi affluenti, alle paludi, ai mulini, aggiungendovi i diritti regali (iura regalia) con la facoltà di amministrare la giustizia (placitum) in questo contesto territoriale, che sostanzialmente può essere considerato il suburbio di Aquileia in direzione di Grado456. Il modo forse migliore per comprendere l’importanza del documento è quello

di recarsi a visitare le rovine dell’antica Aquileia, da cui emerge chiaramente come la Natissa, un fiume di risorgiva che nasce poco sopra la città, fosse stato fin dai secoli del basso impero il fulcro commerciale dell’intera area. Attorno a questo fiume (oggi rio Molino) erano collocati i magazzini delle derrate e moltissime botteghe artigianali. Era quello che oggi si definirebbe un grande interporto457, dove le merci arrivavano da tutto il bacino Adriatico, e, dopo essere state stoccate,

transitavano attraverso i percorsi continentali dell’antico ed efficiente sistema viario romano. Agli inizi del X secolo, questo sistema aveva subito certamente una involuzione, come è stato ampiamente documentato dalle campagne di scavo archeologico, ma l’attività dello scalo doveva comunque essere ancora di un certo interesse se si continua ad esserci testimonianza del permanere di un regime di prelievo fiscale sulle attività commerciali458. Inoltre, il riferimento contenuto nel

455 BORDONE, I poteri di tipo comitale dei vescovi cit., p. 112, mette in luce un caso estremo di questo trasferimento di prerogative pubbliche a favore del vescovo di Cremona, cui nel 916 giungono i diritti di placita custodire, mansionatica

facere, portatici tollere et telonea ac caraturam publiciter exigere. Cfr. I diplomi di Berengario cit., n. 111, p. 325.

456 I diplomi di Berengario, cit., n. 33, p. 98.

457 Sull’argomento riprendo le considerazioni di C. ZACCARIA, Strutture portuali e rotte marittime nell'Adriatico di età

romana, Atti della XXIX settimana di Studi Aquileiesi. Aquileia, 20-23 maggio 1998), Roma 2001, s. n.; M. BUORA, Attività produttive ad Aquileia, in Da Aquileia…al Danubio. Materiali per una mostra, Trieste 2001, pp. 6-37.

diploma al trasferimento del placito sull’area in questione e dei proventi derivati, induce a pensare che l’antica Aquileia continuasse comunque ad essere un fulcro urbano di una qualche consistenza. Pochi anni dopo il riconoscimento al patriarca di Aquileia, un analogo intervento viene riproposto a beneficio del vescovo di Ceneda. Nel 908, in un contesto di relativa tranquillità della situazione politica soprattutto grazie alla tregua negoziata con gli Ungari, Berengario beneficia, ob imprecationem Bertile dilecte coniugis, la chiesa di Ceneda con il riconoscimento del porto di Settimo (oggi Portobuffolè, in provincia di Treviso) sulle acque della Livenza: […] concedimus sancte Cenedensi ecclesie ubi corpus beati Ticiani confessoris humatum quiescit unum portum in Liquentia quod Septimum dicitur et sicut predictum flumen oritur et defluit usque in mare de ambabus partibus ripe per quindecim pedes palificturam, ripaticum, toloneum, mercatum iuris. Il privilegio comporta l’assegnazione al vescovo di teloneo, ripatico e palifittura, oltre al mercato, entro uno spazio di quindici piedi sulle sponde del fiume. Con lo stesso diploma, il re dona inoltre al vescovo le selve demaniali di Gai e Ghirano, riconoscendo alla concessione una natura esplicitamente privatistica alla chiesa (ius et potestatem proprietariam) quasi che si trattasse non di una porzione del valdo regio, ma di un bene personale459. L’interesse del documento sta tuttavia

nella natura delle concessioni fiscali dirette al vescovo che tramutano il porto di Settimo in una sorta di isola immunitaria della chiesa in cui ogni commercio avviene sotto il controllo dei funzionari del vescovo. Lo stesso teloneo - essenzialmente la tassa sulle merci del mercato - commisurabile ad una percentuale del 2,5 per cento del valore delle merci in transito, diventa una risorsa sempre più importante nell’economia locale460. Del resto, Settimo si trova nel medio

percorso del fiume Livenza, ed è un approdo importante in virtù della frequentazione da parte delle imbarcazioni veneziane. Tra Venezia e Ceneda vi sono molti interessi comuni che riguardano l’area del basso corso dei fiumi Livenza e Piave, dove insistono le basi commerciali dei veneziani, e dalle quali si muovono le imbarcazioni verso i porti continentali461. Per fornire alla movimentazione delle

merci il massimo grado di efficienza, la politica dei Venetici è volta, fin dal X secolo,