Anche l’episcopato di Ceneda comprende un territorio diocesano ben definito. Esso si estende in una porzione di suolo stretta e lunga delimitata ai lati dai fiumi Piave e Livenza, a sud dal mare e a
nord dalle montagne del Cadore. Dal punto di vista sia istituzionale che patrimoniale il vescovo di Ceneda riesce a porre in essere, tra i secoli IX e X, una più riconoscibile azione di consolidamento soprattutto grazie all’assenza di un ruolo concorrente analogo a quello esercitato su Concordia dalla potente abbazia di Sesto. Ciononostante, la situazione dell’episcopato di Ceneda tra i secoli VIII e IX ha diversi tratti comuni con quella di Concordia, nel senso che si tratta di due realtà marginali rispetto al policentrismo rappresentato dalle maggiori città venete di Treviso, Vicenza e Verona. Analogo è poi il percorso di consilidamento istituzionale, che dopo una fase controversa e problematica caratterizzata dai diplomi carolini, si esplicita verso la fine del X secolo con due chiare concessioni patrimoniali emanate dall’imperatore Ottone III. Sia Ceneda che Concordia hanno inoltre una posizione moderatamente eccentrica rispetto alle principali vie di comunicazione medievali. Nel caso cenedese si può affermare che quest’ultima sia una condizione che frena lo sviluppo dello stesso centro urbano, sviluppatosi nel VII secolo attorno ad un castello nell’ambito della distrettualizzazione longobarda. Quest’ultima, come noto, faceva spesso perno proprio su territori decentrati rispetto all’organizzazione precedente, come confermano nell’area i casi di Monselice, Ragogna e Valdobbiadene296. Diverso è invece il ruolo politico dei due centri. Quello
cenedese, sede castellana, è legato soprattutto alla stabile presenza di un duca longobardo. La presenza ducale non è più documentata dopo la sconfitta dei friulani sulla Livenza (776), per cui Gasparri ha ipotizzato una successiva perdita d’autonomia del ducato ed il suo inserimento nella marca friulana297. Con la fine del regno longobardo ed il passaggio dai carolingi prima, ai re italici
poi, emerge con sempre maggiore chiarezza il ruolo pubblico del vescovo Cenedese che diventa, per il tramite di diplomi con concessioni territoriali ed immunitarie sempre più importanti, la principale figura «pubblica» dell’area. Il primo privilegio di Carlo Magno a favore del vescovo Dolcissimo, datato 31 marzo 793, è certamente un documento interpolato in seguito, così come lo era stato quello del 794 al vescovo di Concordia298. Contiene la concessione dei beni e della
giurisdizione ecclesiastica in un ambito territoriale che grossomodo è delimitato dai fiumi Livenza e Piave rispettivamente ad est e ad ovest, a sud dalle paludi e dal mare, e a nord da un complesso sistema di torrenti che scorrono tra la zona pedemontana ed il Fadalto (cfr. figura n. 7). Uno dei presupposti su cui si basa il documento è il possesso del territorio corrispondente all’antica diocesi di Oderzo, distrutta nel 667 dal longobardo Grimoaldo, con la conseguente decadenza del centro cittadino ed il trasferimento della sede vescovile299. Questo avvenimento fu corroborato da una
296 Sull’argomento con specifico riferimento a Ceneda, CANZIAN, Vescovi, Signori, castelli cit., pp. 24, 25; anche N. FALDON (a cura di), Diocesi di Vittorio, Padova 2003, pp. 44 e ss. L’ultima presenza di un duca di Ceneda, Orso, nel
756, compare in un documento dove egli interpreta il ruolo di garante in una donazione a favore del prete Oddone di Sernaglia, a sud est di Ceneda (cfr. CDL, II, n. 168, p. 122).
297 GASPARRI Dall'età longobarda al secolo X cit., pp. 22-23.
298 MGH, DD K I, n. 177, p. 238; CANZIAN, Vescovi, Signori, castelli cit., p. 25, considera certo il solo beneficiario e la formula di immunità, mentre l’Ughelli lo valuta sostanzialmente credibile; cfr. UGHELLI, Italia sacra, cit.,V, col. 174.
leggenda, nata prima del X secolo, con cui si intendeva legittimare l’aggregazione di Oderzo a Ceneda anche attraverso il miracoloso spostamento simbolico della salma di San Tiziano, patrono di Oderzo, nella chiesa di Ceneda, dove viene ancora venerata. Tale leggenda, che secondo il Canzian sarebbe nata già in ambiente longobardo, diventa una giustificazione ulteriore che consente alla cancelleria vescovile di dar forma ad un disegno di potere giurisdizionale che comprende un’ampia fascia territoriale posta tra le sedi vescovili di Concordia da una parte e di Feltre e Treviso dall’altra, ed i cui confini esatti vengono individuati dal corso dei due grandi fiumi Piave e Livenza.
La spartizione dell’antico territorio diocesano di Oderzo viene descritta in un falso praeceptum iudicati dato da Pavia il 6 giugno 743, nel quale re Liutprando favorisce il vescovo di Caneda Massimo contro il patriarca di Aquileia in una vertenza concernente il diritto di possedere i territori che costituivano l’antica diocesi opitergina, già divisa tra i rispettivi predecessori Valentino e Callisto300. Secondo il Brühl che ne fu l’editore, il falso diploma di Liutprando sarebbe una
contraffazione collocabile nella seconda metà del secolo XI, ma - e la tesi sembra accettata dagli studiosi - il riferimento all’attiva partecipazione nel giudizio dell’apparato ducale (in particolare del duca di Ceneda) indurrebbe a ritenerlo, nella sostanza, come un documento originale301. Proprio per
questo motivo, è importante, a nostro avviso, rilevare come nel praeceptum iudicati del 743 non si faccia alcun accenno alla questione relativa al corpo di San Tiziano, che diventa invece importante nella documentazione di mezzo secolo successiva come presupposto simbolico per il riconoscimento del potere vescovile. Si legge nel corrotto diploma carolino del 793:
Igitur notum sit omnium fidelium nostrorum magnitudini presentium et futurorum quatenus nos propter nomen Domini ad aeternam remunerationem talem confirmationem circa ecclesiam Sancti Titiani Confessoris Christi, que est constructa sub oppido Cenetensium castro ubi ipse pretiosus sanctus corpore requiescit […]
significando, nell’idea dell’estensore del documento, come il presupposto del potere del vescovo Dolcissimo si fondasse non solo sul possesso delle spoglie di San Tiziano, giunte miracolosamente secondo la leggenda locale da Oderzo risalendo controcorrente il fiume Monticano, ma anche sulla costruzione della chiesa proprio nello stesso sito del castello che fu dei duchi di Ceneda302.
300 CDL, n. 16, p. 60.
301 CANZIAN, Oderzo medievale cit., p. 5 e ID., Vescovi, Signori, castelli cit., p. 21.
302 Cfr. G. B. MONDINI, Historia della città di Ceneda, ms. sec. XVIII conservato presso la Biblioteca civica di Ceneda, pp. 10 e ss.
Figura 7: I confini della diocesi di Ceneda nell’ambito della marca friulana (secc. IX-XI).
Se consideriamo però le concessioni imperiali fino a tutto il IX secolo, non si trova un provvedimento dei re italici che riconosca alucun tipo di influenza giurisdizionale del vescovo cenedese sul territorio, ovvero nessuno che spinga le potestà episcopali oltre al riconoscimento in spiritualibus concesso da Carlo Magno nel 793. Figli e nipoti di Carlo Magno sono anzi impegnati in Friuli a dare consistenza al ruolo esercitato dal patriarca di Aquileia attraverso il riconoscimento di immunità e concessioni sempre maggiori, e non sembrano intenzionati ad attribuire con la stessa solerzia analoghi privilegi ai vescovi sottoposti alla sua giurisdizione metropolitica. Nemmeno Berengario, da re o da imperatore, sembra interessato a favorire i vescovi con diplomi di concessione, pure così numerosi a beneficio del patriarca di Aquileia e di molti altri fideles dell’area veronese e padana. Alcuni di questi diplomi, come si è visto, non riguardavano immunità o poteri di natura territoriale, ma beni privati, appartenuti soprattutto ad esponenti della vecchia aristocrazia longobarda303, e in qualche caso alla nuova nobiltà d’ufficio franca304. Questi trasferimenti
«puntuali» (una casa, un campo, i beni di un singolo proprietario all’interno di una città etc.) riguardano per lo più patrimoni oggetto di confische o ratifiche di donazioni precedenti. Poco dopo esserne entrati in possesso, sia Carlo che il figlio Ludovico li utilizzarono come donativi alle chiese locali305. Verso le metà del IX secolo, sono più chiare le presenze patrimoniali degli ufficiali regi
anche nel Cenedese e nel Trevigiano. Il marchese Everardo del Friuli dimostra ad esempio di possedere nell’odierno Veneto orientale parte del suo patrimonio personale, di cui il figlio Berengario sembra disporre liberamente, come evidenziato ad esempio dal possesso della corte di Naone verso la fine del secolo306. Il fatto già menzionato che prima dell’866 testasse dalla sua corte
di Musestre, nel basso Trevigiano, fa intuire che non tutti questi beni erano legati all’ufficio marchionale, ma tra essi figuravano anche proprietà familiari. L’impossibilità di distinguere i due diversi ambiti del possesso è, al riguardo, un vincolo che frena nell’interpretazione delle dinamiche regionali.
Purtuttavia è innegabile che si riscontri nella documentazione una certa prudenza di Berengario, una volta diventato re e poi imperatore, nel disporre donazioni a favore delle principali fondazioni eccleasiatiche in questa zona. Si tratta di una situazione peculiare, in quanto lo stesso imperatore in altre aree (ed in particolare in quelle venete) si comporta con maggiore munificenza verso le
303 Si sono esaminate in precedenza (par. 1.2 e 1.3) le donazioni di questo genere operate dal duca Massellio nel 778 (ASV, Sesto, b. 1), e con analoghe caratteristiche le vicende dei beni di Aione (MGH, DD K I, n. 187).
304 Sempre con riferimento al Friuli, il trasferimento dei beni in Cividale del conte Alboino al patriarca, probabilmente figlio del conte Aione, rimmesso alla fiducia di Carlo nel 799; cfr. I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di
Adalberto, cit., n. 76, e ancora supra il par. 1.2.
305 Questo aspetto viene segnalato anche da WICKHAM, L’Italia nel primo medioevo cit., cfr. in part. n. 49 e testo corrispondente.
306 L’appartenenza della corte di Naone, ambito di rilevanza territoriale nel medio Friuli occidentale, emerge da un diploma dell’897 (I diplomi di Berengario cit., n. 18), ma nel dettaglio cfr. infra §. 4.2.
istituzione ecclesiastiche. Stessa cosa si potrebbe dire per i monasteri veneti e friulani, che Berengario riconosce formalmente garantendo le precedenti donazioni, senza però aggiungere nuovi beni al loro patrimonio. Oltre alla conferma dei beni di Sesto nel’888 (già esaminata), l’altro documento di «area friulana» a questo riguardo è la sottoscrizione un diploma a favore del monastero dei santi Pietro e Tonisto di Treviso, avvenuto a Ceneda il 6 gennaio 897. In esso viene garantito alla piccola fondazione monastica il mundio imperiale e la conferma di un’antica concessione lotariana, ma si tratta solo di una conferma a disposizioni patrimoniali precedenti307.
Una sensibilità ben diversa da quella che, ad esempio, spingeva pochi anni prima anni i duchi venetici Agnello e Giustiniano, in una pubblica assise, a dotare il monastero di San Servolo di una chiesa privata, cappella ad iura proprietatis nostra, attingendo addirittura dal proprio patrimonio privato per risolvere una questione che interessava la civitas308. Lo stesso Berengario all’interno del
regnum agisce con sensibilità diversa. Basta uscire dal territorio friulano, o di diretta influenza friulana, per verificare il mutamento della sua politica. A Belluno, proprio nelle immediate vicinanze del territorio cenedese, si attuano per esempio negli stessi anni alcuni interventi regi che portano il vescovo di questa città, impegnato nel corso del IX secolo a definire una serie di questioni con il capitolo che prende forma proprio su istanza del presule, ad essere beneficiato a più riprese prima da Berengario come conte di Belluno e marchese del Friuli, quindi in qualità di re ed imperatore309. Nell’882, quando è ancora tra i principali collaboratori di Carlo il Grosso310,
Berengario si prodiga (con l’approvazione imperiale) a recuperare una possessione del vescovo di Belluno che per oscuri motivi quest’ultimo aveva perso, e che poi sarà trasferita come beneficio decimale al capitolo311. I buoni rapporti col vescovo di Belluno continuarono anche quando
Berengario diventa re, come testimonia il diploma dato da Pavia il 10 novembre 898 con cui l’episcopio viene arricchito delle terre regie del fundo Longoves cum omnibus pertinentiis, nel comitato di Ceneda312.
Il caso bellunese è la conferma più prossima di quello che appare come il chiaro indirizzo imperiale di differenziare l’elargizione di terre e benefici all’interno del regno313. Se questa prassi è
certamente fondata nel territorio emiliano, lombardo e veneto, per quanto riguarda l’ambito friulano e del Veneto orientale si può concludere che le donazioni siano senz’altro più «prudenti»,
307 I diplomi di Berengario cit., n. 17, p. 53.
308 Il documento è dell’anno 819, cfr. RANDO, Una chiesa di frontiera, cit. p. 54.
309 Il primo documento è datato da Belluno 1 marzo 853, e da ciò abbiamo contezza di quanto fosse antico il capitolo dei canonici della città (Documenti antichi trascritti da Francesco Pellegrini, I, Belluno 1903 (= rist.1991), n. 13, p. 61. 310 ARNALDI, Berengario cit., p. 7. Nel febbraio dell’881 Berengario come marchese del Friuli scortava Carlo a Roma per l’incoronazione imperiale.
311 Documenti antichi trascritti da Francesco Pellegrini cit., I, n. 16, p. 67. 312 I diplomi di Berengario cit., n. 21, p. 63.
313 Cfr. TABACCO, Sperimentazioni del potere cit., p. 108, dove le concessioni patrimoniali sotto il regno di Berengario sono descritte come un «disordinato [e indifferenziato] ritirarsi del potere pubblico». Asserzione senz’altro fondata, ma non applicabile in toto anche nel territorio friulano.
limitandosi spesso alla semplice conferma dei precedenti disposti. Il motivo che spiega questa tendenza è ovviamente la volontà di preservare i patrimoni personali e quelli connessi all’ex ufficio marchionale da parte dell’imperatore. Queste iniziative di difesa delle prerogative del patrimonio personale, non ostacolano tuttavia completamente le tradizionali disposizioni carolingie e post carolingie nei confronti delle chiese territoriali. Nella strategia dei re italici verso le chiese locali dell’area si può individuare una condotta abbastanza condivisa sotto il profilo del riconoscimento politico: anche gli episcopati di Concordia e Ceneda vengono assoggettati con un atto di protezione e di generale tutela mediante mundio imperiale. Nello stesso tempo però le concessioni sono essenzialmente volte a garantire la figura del vescovo senza evolvere nel riconoscimento giurisdizionale. In questo senso le medesime fonti non distinguono all’interno della diocesi la presenza di un patrimonio della chiesa diversificato da quello del vescovo. Assai più trasparenti risultano frattanto i riconoscimenti delle giurisdizioni spirituali che assieme alla potestà in spiritualibus comprende i connessi – e non trascurabili - diritti di decima.
Il vero e proprio salto di qualità, ben rappresentato per Concordia dalla donazione ottoniana del 996, si verifica per Ceneda con la fine del Regnum Italiae e l’avvento del più saldo potere degli imperatori sassoni. Questo processo porta Ottone III a riconoscere alcuni circoscritti ambiti patrimoniali a beneficio dei vescovi. Due anni prima della donazione della selva nel Friuli occidentale al vescovo di Concordia, cioè nel 994, si assiste nel Cenedese ad un provvedimento imperiale ispirato ad analoghi principi. Ottone III dona al vescovo Sicardo plebem et terram Opiterginam cum omnibus iurisdictionibus imperii locorum vel terrarum que in isti confinibus continentur, idest de terminatione fluivi Plavis usque in mari cum et dehinc usque in marini set sicut Monteganus fluvius decurrit usque in Plavisellam et ipsa Plavisela usque Liguenciam et Liguencia usque mare et iterum Plavis usque mare314. Si noti come gli estremi della
conterminazione siano molto simili a quella concordiese; in entrambi i casi si tratta di ambiti circoscritti con precisione, e nel complesso abbastanza limitati, su cui il potere episcopale si esplicita chiaramente. L’evoluzione rispetto alle descrizioni operate dai diplomi di epoca carolingia è netta. In questo caso i diritti vescovili sono ben definiti, e non ci sono margini per confonderli con quelli di natura spirituale com’era avvenuto in precedenza.
All’interno di questi confini, i vescovi esprimono il potere sulle pievi come sulle villae, ma parliamo comunque di settori molto circoscritti e tra loro frammentati. Più in generale, dunque, il patrimonio delle chiese episcopali friulane è molto più limitato rispetto a quello che i vescovi
tengono in altre regioni italiane ed europee315. Inoltre i caratteri di questi patrimoni sono sempre
abbastanza limitati, e non riescono ad assumere dimensioni distrettuali, nonostante i vari tentativi di falsificare la natura dei privilegi316. Del resto le stesse concessioni di beni iure proprietario non
trasformavano il vescovo in un membro dell’apparato regio, ma gli consentivano essenzialmente ed in prevalenza forme di sussistenza a vantaggio del suo rango e del suo status317.
Questa ipotesi interpretativa accomuna gli episcopati, non però il monastero di Sesto, che, in quanto fondazione dotata di amplissimi beni, già nel periodo longobardo e poi sotto i re italici diviene un soggetto dotato di particolare autonomia, esplicitata nel compattamento di alcune isole di potere fondiario. Ciononostante si ravvisa anche nel caso del monastero una sorta di resistenza verso l’attribuzione di poteri giurisdizionali da parte pubblica, e laddove maturino le condizioni per una attribuzione in tal senso si preferisce agire a favore del patriarca aquileiese che, dal X secolo, diviene dominus sia della chiesa Concordiese come del monastero di Sesto. L’orientamento imperiale intravede insomma nel patriarca di Aquileia, all’inizio del X secolo, il riferimento principale nell’amministrazione dei beni pubblici trasferiti, ma questo ruolo, evidente nei confronti delle chiese episcopali e dei monasteri, stenta complessivamente ad emergere sino a quando il marchese del Friuli continua ad esercitare le potestà amministrative sull’intero territorio della marca. Ancora fino alla seconda metà del IX secolo, il marchese figura infatti come il riferimento del potere pubblico sul territorio, e questo ruolo è confermato dal fatto che al patriarca di Aquileia non siano trasferiti poteri giudiziari sul Friuli, anche se va ricordato che l’esercizio in proprio della giustizia da parte del conte non è documentato318. Sembrerebbe dunque emergere una sorta di
collaborazione tra il delegato pubblico ed il rappresentante della chiesa regionale, evidenziato negli atti ufficiali dalla presenza di entrambi durante le adunanze imperiali. Interrogate in questo senso, le poche concessioni che riguardano il patriarca nel IX secolo, quali ad esempio il trasferimento a suo beneficio dei beni usurpati dal longobardo Alboino nell’843 ad opera di Lotario, consentono sempre di monitorare accanto al primate di Aquileia la solerte presenza del conte – marchese friulano. Everardo, ad esempio, dove non presenzia come testimone compare comunque in qualità di intercessore a beneficio del patriarca319. Tutto questo sta a ribadire l’accordo tra l’imperatore ed il
315 FUMAGALLI, Vescovi e conti nell’Emilia occidentale da Berengario I a Ottone I cit., pp. 137-204.
316 Cfr. per i casi di patrimoni che invece tendono ad assumere forme più ampie e di natura più marcatamente territoriale, A. CASTAGNETTI, I vescovi di Padova e Vicenza dallìetà ottoniana al comune, Verona 1981, pp. 4-13.
317 SERGI, I confini del potere cit., p. 384.
318 Questo fintanto che l’amministrazione della marca è sottoposta agli Unrochingi, mentre con Ottone I e l’unione della marca friulano veronese alla Baviera (954) e poi alla Carinzia (976) il potere di convocare e giudicare in pubbliche assemblee viene fortemente rivendicato dai duchi bavaresi e carinziani (Cfr. I placiti cit., I, n. 170). A questo riguardo è tuttavia indicativa la presenza tra i giudicanti, assieme al duca o ai suoi missi del patriarca ancor prima di vedersi attribuiti i poteri comitali sul Friuli (1077). Cfr infra §2, e per i documenti, I placiti cit., II, n. 218, e II, n. 326.
319 Cfr. MGH, DD L II, n. 17, laddove il conte Everardo intercede presso l’imperatore Ludovico II per il riconoscimento al patriarca dell’autorità sull’Istria.
suo rappresentante locale in tutti gli atti che hanno come destinataria la chiesa di Aquileia. La condivisione di Everardo della strategia imperiale è testimoniata nei successivi atti di Ludovico II, sempre a favore del patriarca, con cui vengono ristabiliti i diritti metropolitici di Aquileia sugli episcopati istriani320, il che lascia supporre che questo secolare processo di stabilizzazione del potere
aquileiese – destinato a concretarsi con la piena investitura del comitato friulano nel 1077 – fosse maturatocon il benestare delle forme periferiche del potere pubblico.
§2.2 Le ingerenze bellunesi sull’oppidum opitergino
La distruzione di Oderzo operata da Grimoaldo nel 667 diventa il presupposto necessario per la nascita del ducato (e poi comitato) di Ceneda in epoca longobarda e franca321. Come si è visto
affrontando il difficoltoso processo di patrimonializzazione del vescovo di Ceneda tra i secoli IX e X, le strategie del Regnum in quest’area non portarono ad una traslazione dell’antico territorio sotto le potestà di un unico soggetto istituzionale, fosse esso una chiesa o un pubblico ufficiale. L’ambito compreso tra i fiumi Piave e Livenza fu piuttosto oggetto di uno smembramento provocato dalle forze centripete esercitate da almeno quattro soggetti, primo fra tutti, per vicinanza e «centralità» della propria sede, il vescovo di Ceneda. Diversi, e di diversa intensità, sono anche gli strumenti politici messi in campo per giungere ad un risultato che, lo anticipiamo, non portò nessuno dei contendenti ad una reale egemonia sull’antico oppidum Opitergii.