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Aby Warburg e la sua biblioteca

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 119-135)

JOSEPH B. TRAPP

The Warburg Institute, London

Sono ormai trascorsi vari decenni da quando la Kultur- wissenschaftliche Bibliothek Warburg – la biblioteca war- burghiana per la scienza della cultura – arrivò a Londra. Alla fine del 1933, nel dicembre, due piccoli vapori, prove- nienti da Amburgo, gettarono le ancore nel Tamigi con un carico di circa 60.000 libri e periodici e 80.000 fotografie, oltre a mobili e suppellettili per ufficio e attrezzature foto- grafiche e per la rilegatura dei libri. C’era anche una com- ponente umana di questa migrazione: un pugno d’uomini, non piú di mezza dozzina. Avevano accompagnato la loro biblioteca e portato con sé le ricerche in cui erano impe- gnati. Il loro arrivo era il risultato di un invito formulato da un gruppo di inglesi di buona volontà, un invito che, di fatto, era un pretesto. Menti vigili e sensibili erano già con- sapevoli che l’avvento di Hitler significava che l’Istituto e il tipo di libera ricerca storica che rappresentava non pote- vano sopravvivere in Germania, e che non ci poteva essere ritorno in Germania sotto quel regime.

Per alcuni anni, una decina, la situazione dell’Istituto rimase precaria, anche se intorno ad esso si riunirono subito amici e ammiratori. Uomini e donne inglesi, per tra- dizione gentili verso le persone, ma indifferenti, se non osti- li, verso le idee, furono incoraggiati da Fritz Saxl e dai suoi colleghi a trarre vantaggio da una meravigliosamente fer- vida biblioteca e fototeca, e dai consigli e dalle informazioni

dello staff disponibili in generose quantità. Altri studiosi emigrati vennero a frequentare l’Istituto. Per quel decen- nio le attività dell’Istituto furono sostenute dalla famiglia Warburg, prima dalla Germania, che essa fu costretta a lasciare nel 1938, e poi dagli Stati Uniti. Ci furono munifici mecenati inglesi, come Lord Lee of Fareham e, special- mente, Samuel Courtlaud, fondatori dell’University of London Courtlaud - Institute of Art. Una settennale con- venzione di Samuel Courtlaud rese possibile alloggiare i libri, le fotografie e lo staff dell’Istituto nell’Università di Londra fino al 1943. Nel 1944 lo University Grants Committee, l’organismo che in Inghilterra controlla le finanze dell’Università, provvide all’incorporazione per- manente dell’Istituto nell’Università di Londra.

Oggi, il Warburg è uno dei dieci Senate Institutes di quella Università, una specie che esiste solo nell’Ateneo londinese. Esso trae i propri finanziamenti dall’amministra- zione centrale dell’Università, anche se è indipendente nelle sue decisioni su come utilizzare questi finanziamenti. Fra i Senate Institutes, il Warburg Institute è unico nell’as- sumere come propria sfera di competenza l’insegnamento e la ricerca nella storia culturale e intellettuale interdisci- plinare. La sua attenzione particolare è volta a documen- tare, in casi precisi e con particolari concreti – ricreando sempre di nuovo il contesto, il momento storico – come e perché una cultura sopravvive in un’altra, la influenza o manca d’influenzarla, è influenzata da un’altra cultura o resiste all’essere influenzata. Dal momento che il para- digma piú sorprendente di questo tipo di diffusione della cultura si ritrova nel modo in cui si formò la civiltà di Grecia e di Roma e nei modi in cui pervase la civiltà europea

post-classica, diciamo che la nostra principale cura è la sto- ria della tradizione classica. Dal momento che l’esempio piú notevole di questo tipo di interazione fra culture in ogni campo della vita e del pensiero è il movimento ispirato dall’Italia e noto come Rinascimento, tutti noi ci occu- piamo di quel movimento.

Prima, comunque, permettetemi di parlare di fatti un po’ piú lontani nel tempo rispetto agli anni inglesi del Warburg Institute. Aby Warburg, il nostro fondatore, fu fenomeno raro fra i fondatori: uno studioso appassionato, la cui impresa sorse gradualmente dalle sue stesse preoccu- pazioni intellettuali, – ossessioni non sarebbe termine eccessivo. Egli non fu un fondatore-filantropo, attento a che altri potessero avere l’educazione che egli stesso, forse, non aveva ricevuto. Si avverte sempre la sua presenza fra i libri, ancor oggi.

Warburg nacque ad Amburgo nel 1866, figlio maggiore di una famiglia benestante di banchieri ebrei, il cui nome derivava da quello della piccola città di Warburg in Westfalia, da dove erano emigrati ad Amburgo nel Seicento. Suo fratello Max ha raccontato come, all’età di tredici anni, Aby offrí la quota della banca di famiglia che gli spettava come primogenito al secondogenito, in cambio di una pro- messa. Max descrisse piú tardi il suo consenso giovanile a questo accordo come il piú grande assegno in bianco che avesse mai firmato. Ma quando prese la direzione della banca, alla morte del padre, onorò quella promessa giova- nile «di comprare ad Aby tutti i libri che voleva».

Aby Warburg frequentò l’Università di Bonn dall’au- tunno del 1886. Seguí i corsi di Henry Thode e Carl Justi, fra gli storici dell’arte e – cosa particolarmente importante

in quanto gli offriva un approccio alla civiltà antica attra- verso le idee moderne delle scienze umane (psicologia e antropologia) – seguí anche i corsi di Hermann Usener, che dedicava molte lezioni alla teoria della mitologia, e quelli dello storico della cultura Karl Lamprecht, come pure quelli dell’archeologo classico Reinhard Kekule von Stradonitz. Attratto da un’importante mostra di pittura moderna, Warburg trascorse un periodo estivo a Monaco. Nell’autunno 1889 fu in un gruppo di studenti selezionati che seguirono l’insegnamento di August Schmarow a Firenze – una esperienza che deve aver rafforzato, fra l’al- tro, il suo interesse per i problemi della gesticolazione, del movimento e dell’espressione, e per i legami tra mentalità primitiva ed espressione violenta del corpo. La sua espe- rienza fiorentina fu di fatto decisiva per il resto della sua esi- stenza. Amò la città di Firenze, nel suo presente e nel suo passato. Piú tardi parlò di se stesso come «Ebreo di sangue, di cuore amburghese, d’anima fiorentina». «Qui», scrisse ai genitori agli inizi del 1889, «devo gettare le fondamenta della mia biblioteca e della mia collezione fotografica, che entrambe sono molto costose, ma rappresentano qualcosa che ha valore durevole [...]. Mi ha preso una tale gioia nel mio lavoro che sono io stesso sorpreso di come stanno diventando rapidamente chiare – almeno per me – certe nozioni inizialmente vaghe. Sono sicuro di essere su una strada promettente».

Potrebbe essere stato questo il momento in cui, come sottolinea il prof. Gombrich, Warburg cercò una guida nel primo capitolo del libro di Anton Springer Bilder aus der

Neueren Kunstgeschichte: «Il proseguire dell’influenza del-

precisa delle caratteristiche dell’arte antica, l’idea promossa da Lessing e da Winckelmann e ancora dominante, in quel periodo, nel pensiero tedesco: calma grandezza e nobile sem- plicità. Scorgendo altre qualità nell’arte di certe fasi dell’an- tichità, egli reagí decisamente. Nel semestre estivo, di ritorno da Bonn, consegnò un elaborato intitolato: Verso una critica

del Laocoonte di Lessing in relazione con l’arte fiorentina del Quattrocento. È significativo che egli si fosse anche immerso

nelle librerie, spendendo la somma, allora rilevante, di 500 marchi. Per giustificare la spesa a suo padre, scrisse che adesso aveva «il nucleo di una magnifica biblioteca. Questo è lo strumento indispensabile della mia attività. Può darsi che debba chiedere due o tre volte la stessa cifra prima di poter portare la mia collezione di lavoro fino al punto di poterla aggiornare in forza del mio solo appannaggio annuale».

Warburg lasciò allora Bonn per Strasburgo, dove studiò con Hubert Janitschek, storico dell’arte ed editore dell’Alberti, e con l’archeologo classico Adolf Michaelis. La sua tesi, presentata nel dicembre 1891, riguardava le mito- logie di Botticelli, la Nascita di Venere e la Primavera, e recava il sottotitolo An Investigation of the Image of Antiquity current in

Renaissance Italy (Ricerca sull’immagine dell’antichità dif-

fusa nel Rinascimento italiano). Partendo da un problema stilistico – la predilezione quattrocentesca per il drappeggio ornamentale – si era sforzato di dar conto della rappresen- tazione botticelliana di temi particolari in maniere partico- lari, cioè, in breve, di come Botticelli e i suoi mecenati con- cepivano l’antichità classica. Trovò paralleli nella letteratura del tempo, specialmente in Poliziano. Ciò non vuol dire che egli considerasse ammirevole questa visione dell’antichità. Al contrario, criticava Botticelli per quella che chiamava

«una sconsiderata ripetizione di motivi superficiali di movi- mento intensificato [...] e una mancanza di moderazione artistica», una troppo facile inclinazione per il contesto cul- turale in cui si trovava. Come ebbe a dire piú tardi: «Atene dev’essere sempre di nuovo salvata da Alessandria».

In altri termini, Warburg assunse quella che gli Inglesi chiamano una forte linea morale: le scelte artistiche e quelle etiche erano inestricabilmente legate. Il termine ‘manieri- smo’ aveva per lui la connotazione peggiorativa che ha man- tenuto fino a tempi relativamente recenti. Ciò che rende dif- ficile scorgere questo nella sua opera è la sua avversione per affermazioni esplicitamente teoretiche. Lavorava per esempi piuttosto che per precetti. Seguendo Lamprecht, credeva che la storia dell’arte e della letteratura potesse essere usata come via d’accesso alle idee nelle menti degli uomini e delle donne contemporanei. In ultima analisi era sempre l’ele- mento visivo che reclamava la sua attendibilità. Leonardo potrebbe aver parlato per lui quando disse: «Vi scongiuro di non implicarvi nelle parole a meno che non parliate a un cieco». La sua speranza, nel suo ultimo decennio, fu di incar- nare la sua filosofia della civiltà in un atlante pittorico, inti- tolato Mnemosyne, che sarebbe stato composto di dimostra- zioni visive, pitture, con poche parole di commento. (Il volume di Fritz Saxl e Rudolf Wittkower, British Art and the

Mediterranean, mi è sempre apparso una felice dimostrazione

del suo metodo, in un campo relativamente ristretto e com- parativamente poco ambizioso). Warburg credeva che se si riesce a produrre particolari a sufficienza, si può mettere in campo una massa di documentazione verbale e visiva a par- tire dalla quale si chiarificano insieme il punto in questione e i problemi teoretici.

Per ritornare alla tesi di Warburg, troviamo che egli sostiene – sulla base di una descrizione di un immaginario rilievo del Palazzo di Venere descritto dal Poliziano (che a sua volta era un’elaborazione dell’inno omerico ad Afrodite), e dell’interesse per gli ‘accessori in movimento’ dimostrato dal Poliziano – che fu Poliziano a suggerire il tema della nascita di Venere a Botticelli. L’Alberti, notava, aveva suggerito agli artisti di lasciar modellare alla forma del corpo le chiome al vento e gli abiti. Non è forse vero che Agostino di Duccio era stato allo stesso modo incoraggiato dall’Alberti a usare per i rilievi che eseguiva per il Tempio Malatestiano le immagini di movimento intenso che aveva trovato su antichi sarcofaghi?

È difficile che sia frutto di coincidenza il fatto che tanto l’Alberti quanto il Poliziano proponessero il movimento accentuato e che trovassero giustificazione nell’antichità per la loro predilezione: si dev’essere trattato di parte del- l’immagine quattrocentesca del mondo antico. Poliziano, comunque, parla delle tre horae che aspettano per dare il benvenuto a Venere: Botticelli ne mostra soltanto una, che Warburg vede come dea della primavera, facendo uso di citazioni da Ovidio e dal manuale rinascimentale di mito- grafia di Vincenzo Cartari per sostenere la sua identifica- zione. Quest’immagine di figura femminile con un drap- peggio rosso è spesso segnalata nelle fonti del Quattrocento come ‘ninfa’ – e questa divenne la denominazione di Warburg per questo ‘topos’ visivo: quello che piú tardi chia- merà Pathosformel, formula espressiva.

Dopo la laurea, Warburg si recò a Berlino, dove inco- minciò a studiare psicologia per prepararsi a una laurea in medicina. Ciò non sorprende: nei suoi quaderni di appunti

sul Quattrocento fiorentino ritorna piú volte su problemi piú ampi che non l’arte di Botticelli e gli scritti del Poliziano. Quali sono, si chiede di continuo, i meccanismi della psiche umana che spiegano la genesi e lo sviluppo della religione, dell’arte e della scienza? Aveva letto Mito e

scienza di Tito Vignoli nel 1886 e ne era stato incoraggiato

a investigare la complessità della mente umana. Probabil- mente, come suggerisce Gombrich, era rincuorato dalla visione di Vignoli dell’evoluzione umana come vittoria della razionalità sulle paure irrazionali. Un altro evoluzio- nista gli era particolarmente caro. In Expression of the

Emotions in Men and Animals di Charles Darwin aveva tro-

vato la teoria del gesto residuale, la nozione che il gesto espressivo è il residuo simbolico di un atto un tempo bio- logicamente utile. Da Friedrich Theodor Vischer aveva imparato a vedere l’immagine simbolica come sostituto della parola razionale.

Il tentativo medico-psicologico di Warburg abortí, ma le preoccupazioni circa il simbolo rimasero, e lo spinsero a un’esperienza che avrebbe influenzato il suo pensiero per il resto della sua vita. Nel 1895 accompagnò la sua famiglia in America per il matrimonio di suo fratello Paul. La vita sociale che trovò sulla East Coast lo colpí – come disse piú tardi – come vuota e futile. Preso da una sorta di disgusto per se stesso, fuggí a Washington e alla Smithsonian Institution, col progetto di visitare il Pueblo Indians del Nuovo Messico. Era anche alla ricerca di se stesso, del tipo di storico dell’arte che voleva essere: «Aveva acquisito – scrive – un onesto disgusto per la storia artistica della varietà estetizzante. Un approccio formale all’immagine, privo della comprensione della sua necessità biologica come pro-

dotto fra la religione e l’arte [...] mi sembrava non portare ad altro che a una sterile verbosità».

Cosí divenne una specie di antropologo, per ricercare il potere di ciò che è pensato e dipinto. Il fulmine, sapeva, era rappresentato simbolicamente nella storia dei Pueblos come un serpente. Ma perché, e come era stata coniata una tale forma simbolica? La sua lettura di Vischer lo aiutò a raggiungere la nozione che questo era un modo per con- trollare il terrore primordiale verso l’incontrollabile: il ser- pente, piú familiare, poteva essere dominato, mentre il ful- mine no. Ancor piú importante era la questione di quale sia la capacità di un simbolo di sopravvivere in un contesto cul- turale diverso da quello in cui è nato. Per saggiare questo, fece un esperimento. Chiese a un insegnante di lingua inglese di Kean’s Canyon di raccontare ai suoi piccoli allievi una storia in cui capitasse una tempesta. I bambini dove- vano illustrare questa storia e la domanda era se sarebbe capitato che qualcuno di questi bambini indiani america- nizzati rappresentasse il fulmine col simbolo del serpente. Come c’era da aspettarsi, la maggior parte dei disegni mostravano il fulmine rappresentato nella sua forma euro- pea moderna schematizzata; ma due dei quattordici bam- bini disegnarono l’indistruttibile simbolo del serpente con la testa a forma di freccia, come i loro antenati usavano rap- presentarlo nelle loro pitture di sabbia.

Ritornato ad Amburgo, Warburg provò di nuovo un senso di perplessità e tentò di tirarsi su con una visita a Parigi, in connessione col suo studio degli Arazzi Valois agli Uffizi, e con un breve soggiorno in Inghilterra. Nell’ottobre del 1897 si sposò e si stabilí a Firenze, dove tenne casa per sette anni, e dove tornò di continuo piú tardi. Ho già detto

dell’amore di Warburg per la città e della sua convinzione dell’importanza di questa. Negli anni ’20 Gertrud Bing ricordava di aver suggerito timidamente che la sua prima visita in Italia sarebbe stata resa piú interessante da un paio di giorni lontano dalla città, a Siena. Warburg rispose che se si fosse allontanata da Firenze per un solo giorno avrebbe potuto lasciare il suo impiego!

Dai suoi anni di università, Warburg aveva meticolosa- mente annotato i suoi acquisti di libri. Nel 1903 acquistò 516 volumi, e annotò nel suo taccuino una «idea di fondare un luogo di osservazione della storia culturale ad Amburgo». Incominciò anche a fare progetti alternativi per l’insediamento stabile della sua biblioteca a Firenze. Nel 1911, quando Fritz Saxl venne ad Amburgo come suo assi- stente, aveva accumulato nella sua casa di quella città una collezione di lavoro di 15.000 volumi; alla sua morte nel 1929 erano diventati all’incirca 50.000.

Fritz Saxl ha dimostrato come a Warburg sia nata negli anni di Strasburgo l’idea della forma che avrebbe dovuto prendere la sua biblioteca. Lí, ai tempi di Warburg, l’edifi- cio dei seminari ospitava diverse biblioteche specializzate per studenti di letteratura, di religione, di filosofia, di storia e di arte. Nessuna di queste era molto frequentata, se pure lo era, da studenti di un’altra disciplina – ad eccezione di Warburg, il quale passava dall’una all’altra perseguendo i suoi argomenti di ricerca. Il punto importante è che questo gli era possibile: le biblioteche del seminario erano aperte a tutti gli studenti ed erano vicine le une alle altre – anche se non cosí vicine come egli avrebbe voluto.

Nel periodo in cui Warburg stava seriamente pensando a metter su la sua biblioteca come istituzione pubblica e per-

manente – cosa per la quale la sua famiglia dava un gene- roso sostegno – l’organizzazione bibliotecaria era in muta- mento. Ci si liberava di sistemi piú antichi in favore di qual- cosa che riflettesse piú chiaramente le idee moderne di sistematizzazione del sapere. Melvil Dewey stava elaborando la sua classificazione decimale universale, con le sue parole d’ordine semplificate e le sue improbabili collocazioni: una sorta di corsa ad ostacoli. Le biblioteche maggiori mante- nevano sistemi di ordinamento ancora piú primitivi: la British Library ancora archivia secondo il formato del libro e la sua data di acquisizione. La biblioteconomia stava diventando un mistero, una professione. All’ordine del giorno venivano ordinamenti standardizzati, alfabetici e aritmetici. L’accesso diretto agli scaffali era una rarità e lo sfogliar libri era scoraggiato.

Warburg voleva che la sua biblioteca fosse diversa. Egli ne sarebbe stato il patriarca: avrebbe scelto i libri e anche le loro rilegature, li avrebbe collocati e ricollocati in un ordine che avrebbe riflettuto le sue preoccupazioni e le sue vedute circa la connessione fra libro e libro, argomento e argo- mento, avrebbe continuamente preso appunti e li avrebbe ordinati in raccoglitori d’archivio. Ci sono ancora circa ottanta di questi raccoglitori. I libri che sceglieva e che cosí registrava, comunque, sarebbero stati insieme sotto lo stesso tetto, liberamente e facilmente disponibili per chiunque volesse usarli, e disposti in un ordine che sarebbe stato piú provocatorio che semplice.

È questa concezione di una biblioteca viva, attiva, in cui il lettore sia attivamente guidato agli scaffali e a una visione piú ampia del suo argomento, quella che distingueva, e spero distingua ancora, la biblioteca Warburg da ogni altra.

Egli stesso formulò il principio del “buon vicino”. Ogni stu- dioso sa che ha meno da temere da ciò che sa di non sapere che da ciò che non sa di non sapere. Abbastanza spesso il libro che gli è noto non è il libro di cui ha bisogno. Il vicino sconosciuto sullo scaffale, che può essere un libro o un estratto, è quello che contiene l’informazione vitale, per quanto molto o poco questo sia tradito dal titolo.

L’idea dominante di Warburg era, come dice Saxl, che lo studente debba «essere guidato a percepire le forze essen- ziali della mente umana e della sua storia. I libri erano per Warburg piú che strumenti di ricerca. Messi insieme e rag- gruppati, essi esprimevano il pensiero dell’umanità nella sua costanza e nei suoi mutamenti».

La biblioteca, comunque, sarebbe morta col suo creatore

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 119-135)