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I Sud d’Europa

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 104-115)

SERGIO ZOPPI

Presidente Formez, 1976-1996

Nell’aprire il primo numero di «Nord e Sud», nel dicem- bre del 1954, in un saggio significativamente intitolato

Mezzogiorno dell’Occidente, Ugo La Malfa scriveva: «La parola,

la qualifica “meridionale” ha un senso ben preciso. Essa definisce una maniera di essere di alcuni milioni di italiani: essa presuppone un particolare stadio di civilizzazione umana e, perciò stesso, un confronto e un paragone. Quando oggi noi parliamo, con linguaggio ‘ultramoderno’, di aree depresse o di zone arretrate o sottosviluppate, espri- miamo molto di meno, e di piú generico, di quel che il ter- mine meridionale esprima. Poiché aree depresse o zone di economia arretrata o sotto-sviluppata possono considerarsi l’India o l’Egitto, la Cina o il Messico o non so quanti altri paesi, ma manca a tali vasti territori una condizione che appartiene piú propriamente al Mezzogiorno d’Italia: l’es- sere cioè questa un’area sottosviluppata o di depressione nell’ambito di una civiltà nazionale e internazionale carat- teristica dei paesi dell’Europa occidentale. Noi possiamo parlare dell’India e dell’Egitto, come di paesi al di fuori della storia interna dell’Europa: non possiamo parlare del- la Sicilia o dell’Abruzzo, della Campania o delle Puglie nello stesso modo [...]. Questo elemento caratteristico del Mezzogiorno, questo essere il Mezzogiorno un Occidente decaduto, è stato sempre chiaro e univoco nella coscienza piú avanzata del Mezzogiorno».

Malgrado le tante incertezze e gli egoismi esplosi negli ultimi tempi, credo che questi anni saranno decisivi per l’affermazione del Mezzogiorno come Mezzogiorno d’Europa, pienamente inserito nella comunità degli Stati europei. Una comunità difficile e ancora lontana, ma cui non si può rinunciare.

Per aprirci meglio all’Europa e al mondo ci sarebbe di aiuto, in questa fase, una maggiore coscienza di nazione e, al tempo stesso, la consapevolezza dei rischi provocati da un individualismo esasperato, che inevitabilmente inclina a sfociare nell’edonismo. Ci è richiesto, dai tempi, di avere il coraggio e la capacità di mettere a confronto e di valoriz- zare la polivalenza e la multidimensionale ricchezza del mondo in funzione di una rinascita della cultura, quale fat- tore creativo portatore di senso e di ordine. Invece avver- tiamo una sorta di disagio, la sensazione di un procedere senza meta, che si scarica sul sociale connettendosi all’arre- tratezza del settore pubblico e alle incertezze del sistema economico. I temi all’ordine del giorno sono da anni all’at- tenzione di tutti: il lavoro; la scuola; la sanità; la casa; l’or- dine pubblico; i flussi di comunicazione (dai trasporti ai ser- vizi postali); la giustizia, non solo quella penale ma anche quella civile, ormai frequentemente amministrata da sedi private o semiprivate, dal momento che i processi tra primo e secondo grado possono durare anche lustri. Pur con le gravi difficoltà del momento, non dobbiamo dimenticare che il Sud si presenta oggi con un’offerta di lavoro ancora in forte aumento; con una buona disponibilità di territori da attrezzare e in parte pronti per la localizzazione di nuovi investimenti produttivi, anche se la dotazione di in- frastrutture (strade, ferrovie, acqua per usi civili e indu-

striali) non è ancora paragonabile a quella del Nord. Peraltro i territori meridionali – per la prima volta nella loro storia – presentano risorse di ricerca, d’innovazione e di alta formazione, ancora limitate ma in apprezzabile evo- luzione.

Tutti questi elementi inducono a ritenere che esistano condizioni perché, specie in vista della tormentata costru- zione del Mercato unico europeo, il Sud venga assunto non come momento d’instabilità e precarietà, bensí come occa- sione di crescita della società civile nazionale e d’espan- sione della base produttiva. Tanto piú se si tiene conto che il “non sviluppo” è stato avvertito da un’area fortemente maggioritaria dell’opinione pubblica settentrionale come un costo insopportabile.

A mio avviso, buona parte dei veri ostacoli all’integra- zione del Mezzogiorno nell’Europa unita provengono dal- l’interno stesso delle regioni meridionali. In un’Europa avviata a processi di sempre piú stretta interattività, l’im- portanza relativa di una regione dipende dal peso della sua economia sul totale comunitario o dalla capacità d’iniziativa delle imprese e del sistema bancario – dimensioni e aspetti, certo, di grande rilievo –, ma anche, e sempre piú, da fattori non direttamente economici, quali l’efficacia dell’azione amministrativa, la capacità decisionale delle strutture poli- tico-istituzionali, il grado d’avanzamento della vita civile. Sotto questo profilo, è bene tenere presente che fra istitu- zioni (amministrative, economiche, sindacali) e mercato sus- sistono influssi reciproci. Le istituzioni svolgono un ruolo insostituibile nel promuovere e assistere l’evoluzione del mercato. Approfonditi studi sulla trasformazione economica delle regioni nordorientali e centrali mostrano quanto sia

errato ritenere che le piccole imprese di quelle regioni siano sorte quasi per generazione spontanea grazie agli impulsi degli imprenditori locali. Si è trattato, invece, di uno sforzo coordinato, che si è certamente giovato dello spirito di ini- ziativa della popolazione, ma che è stato sospinto, all’interno di significative provvidenze nazionali, dalle istituzioni di ogni settore: dalle amministrazioni locali alle banche, dalle Camere di commercio alle associazioni di categoria, con la partecipazione attiva dei sindacati e attraverso il raccordo con la scuola, l’università e la consuIenza aziendale.

Quando si parla del ritardo del Mezzogiorno, si pone sovente l’accento sulle carenze di capacità imprenditoriale, quasi che sui destini economici del Mezzogiorno gravasse un fattore culturale negativo, ereditato dalla storia e diffi- cilmente reversibile. Mentre sarebbe erroneo negare il peso che secoli di storia passata esercitano sulla società del Mezzogiorno, non bisogna trascurare il fatto che i tanti che, nel corso di un secolo, sono emigrati dal Sud hanno dato ampia prova di sapersi rapidamente inserire in società piú avanzate, di rispettarne le norme e di riuscire a sviluppare liberamente i propri talenti lavorativi, professionali, imprenditoriali.

Se, quindi, ci poniamo apertamente il problema degli ostacoli allo sviluppo del Mezzogiorno come provenienti dalla carenza di capacità individuali ovvero dall’inadeguato funzionamento delle istituzioni, la risposta dovrà essere attentamente valutata. Ove si dia un peso prevalente ai fat- tori individuali, il ritardo del Mezzogiorno andrebbe attri- buito a elementi di natura storica e culturale (e vengono subito alla mente recentissime, feroci, inaccettabili classifi- cazioni, come dire?, lombardo-svizzere). Ove si riconosca,

invece, l’importanza determinante del secondo ordine di fattori, allora gli elementi chiamati in causa rivestirebbero natura piú chiaramente sociale e politica. Gli enti locali del Mezzogiorno d’Italia, a confronto con quelli del settentrio- ne, appaiono piú esposti a dissesti finanziari e gestionali, a carenze tecniche e funzionali, a instabilità degli esecutivi, a situazioni continue d’emergenza. Senza dimenticare le tre- mende pressioni per l’utilizzazione delle risorse pubbliche a fini diversi da quelli del bene comune: un tarlo – questo – che, nell’ostinato silenzio dei piú, ha finito col corrompere una parte cospicua del tessuto amministrativo nazionale, con effetti devastanti.

In tale contesto, le leggi di riforma dell’ordinamento delle autonomie locali, prima tra tutte la 142 del 1990, non vanno sottovalutate o, peggio, accantonate, in quanto pos- sono dare un potente contributo all’attuazione dello Stato delle autonomie voluto dalla Costituzione, consentendo di governare le questioni di competenza attraverso soluzioni istituzionali e organizzative originali e diversificate. Lo Stato delle autonomie non è qualcosa di astratto. Da anni porto in me la convinzione che per costruire l’Europa occorra anche, all’interno di ciascun paese, rafforzare la vita dei comuni: cellule nelle quali si costruisce e si mette alla prova, giorno dopo giorno, la democrazia. È partendo dalla spesa locale, oggi corrosa nei suoi valori ma ineliminabile, che si possono connettere tra loro interessi generali. Un progetto che faccia leva su amministratori decisi a ben operare – e ce ne sono –- per rafforzare le capacità progettuali organizza- tive è irrinunciabile, soprattutto ora che si può contare sul- l’elezione diretta del sindaco. Da una parte, però, va conte- stata ogni forma d’irresponsabilità rispetto alla spesa

pubblica – che è stata la linea di comportamento di larga parte del ceto politico – e va evitato qualsiasi spreco delle risorse, fonte di clientelismo e di sfiducia. Dall’altra occorre impedire che la prevedibile imposizione fiscale affidata ai comuni scavi un abisso incolmabile con le amministrazioni del Centro-Nord. Lo si potrà fare con un piano di risana- mento finanziario e con un grande progetto di riorganizza- zione di quelle amministrazioni che tenga ben presente che l’8,6% dei comuni del Sud è dissestato, rispetto allo 0,6 del Nord ed al 2,7 del Centro, con punte del 10 per cento per la Campania, del 12 per la Puglia e del 22 per la Calabria; e con province del Mezzogiorno che sfiorano o raggiungono il 30 per cento.

A questo punto mi pare opportuno aggiungere che non mancano nel Sud istituzioni pubbliche su base locale che ben funzionano, (esempi significativi, tra i tanti, possono essere costituiti dal Centro cardiochirurgico di Teramo, dal- l’Azienda municipalizzata di elettricità e trasporti di Trani, dal servizio per la pubblica istruzione del comune di Rende). Per tornare al rapporto Mezzogiorno-Europa, sono anch’io convinto che la questione meridionale sia un intreccio di fattori socio-economici e di fattori politico-isti- tuzionali ed etico-civili. Come è stato piú volte osservato, il Mezzogiorno è un’area di antica civilizzazione in cui è carente quella che usiamo chiamare “società civile”. In altri termini, si tratta di un luogo autonomo di produzione eco- nomica e sociale in cui famiglie, gruppi sociali, corpi pro- fessionali, imprese e organizzazioni vivono secondo proprie regole, con una propria specifica forza e autonomia.

Le politiche per il Mezzogiorno hanno troppo a lungo trascurato queste tematiche, che ancora oggi stentano a tro-

vare quel riconoscimento culturale e pratico-politico che le circostanze richiederebbero.

Per compiere un autentico salto in avanti, occorrerebbe andare a vedere che cosa ci sia veramente, oggi, nel Mezzogiorno: quali figure di attori stiano avanzando sul pia- no della modernità, su quali forze si possa contare per alleanze di natura politica e culturale, ma soprattutto per la promozione del mercato, degli scambi, dei processi d’inte- grazione pratico-operativa. Penso a quanto di positivo è emerso nel corso degli ultimi anni: figure di imprenditori, i cui nomi sono ormai noti a tutti; buoni, a volte ottimi isti- tuti culturali, universitari e non; strutture di ricerca all’a- vanguardia anche a livello internazionale; editori di qualità, con quotidiani ben fatti e riviste di risalto nazionale; figure di donne affermatesi nel campo della managerialità mal- grado gli ostacoli ambientali.

Potrei proseguire nell’elencazione, ma quello che intendo dire è questo: esistono nel Mezzogiorno le condi- zioni, a volte solo “di base” (uomini, capitali, capacità tec- nico-organizzative, cultura d’impresa, strutture di ricerca, formazione e servizi, fattori ambientali e territoriali, orga- nizzazioni di categoria), per attivare quella sequenza “svi- luppo economico – mutamento sociale – avanzamento civile”, che è la garanzia per sentire il Mezzogiorno piena- mente inserito nella comune vicenda nazionale ed europea. Accettare questa direzione di movimento comporta uno Stato forte ed efficiente e, nello stesso tempo, una sempre maggiore affermazione d’autonomia e di responsabilità da parte del Mezzogiorno. Ma anche e, direi, in primo luogo un diverso atteggiamento dell’opinione pubblica nei con- fronti del Sud e dei meridionali. Ridurre il Mezzogiorno a

criminalità non è solo un errore e una menzogna, è pure la rinunzia dell’Italia a dare compimento al proprio destino storico e alla propria collocazione europea. Il nodo cruciale di un “progetto civile” di questo genere sta in una crescita della società legata non soltanto all’evoluzione dei rapporti economici di mercato e alla composizione equilibrata degli interessi sociali, ma anche a uno stato di cose nel quale pre- valgano una corretta amministrazione del diritto e una energica regolamentazione delle forze in campo, sia al cen- tro che alla periferia; in una tale prospettiva il Sud verrebbe a ricollocarsi nel cuore dello Stato e, in parallelo, il senso dello Stato si porrebbe al centro della coscienza sociale del Mezzogiorno. Rendendo, cosí, giustizia piena al sacrificio di Falcone e di Borsellino e degli altri martiri che hanno, in questi anni, bagnato col loro sangue la Sicilia e altre terre del Sud.

Questo mutamento potrà realizzarsi soltanto se lo svi- luppo avverrà nella solidarietà, come hanno affermato piú volte i vescovi italiani e, con grande efficacia, lo stesso Gio- vanni Paolo II. La solidarietà, a sua volta, presuppone una forte, coraggiosa, indispensabile assunzione di responsabi- lità individuale e collettiva e la mobilitazione delle coscien- ze, anche per restituire senso e funzione alla politica. Quel ruolo di servizio dell’agire politico, che è necessario ad ogni società per svilupparsi nella libertà e nella giustizia e per affermare la capacità dell’individuo di essere il soggetto della propria vita. Tuttavia non mi sembrerebbe di aver esaurito il senso di questa mia comunicazione se non accen- nassi ad un argomento, che il recente esaurimento dell’in- tervento straordinario pare aver emarginato, ma che, a mio parere, resta invece di straordinaria importanza.

L’assunzione da parte del Mezzogiorno del ruolo di Mezzogiorno d’Europa, ossia la sua presenza attiva fra le regioni che rappresentano il Sud all’interno dell’Unione Europea, non è un fatto unicamente economico, sociale, amministrativo. È anche (e, forse, soprattutto) un fatto sto- rico-culturale che richiede l’unità e l’integrazione del tes- suto culturale meridionale.

Nei decenni scorsi il Formez ha assolto ad una funzione di aggregazione di risorse, che ha contribuito a mantenere l’unitarietà (malgrado tutto) dell’immagine del Mezzogior- no: la sua identità storica e sociale, la sua individualità cul- turale. La cultura non è mai stata, per il Mezzogiorno, un mero fenomeno sovrastrutturale: è stata al contrario, la sua connotazione centrale, il suo modo d’essere rispetto non solo al mondo esterno, ma al suo stesso corpo sociale. Negli anni dell’intervento straordinario sono emersi nel Sud un nuovo e piú articolato sistema universitario, una rete di cen- tri di ricerca e di formazione, alcune istituzioni e pro- grammi di notevole rilievo intellettuale (bastino, per tutti, i casi del Progetto Napoli e del Centro universitario europeo per i beni culturali di Ravello). Ebbene, nei prossimi anni, occorrerà un grande sforzo organizzativo perché queste energie non si disperdano e, anzi, possano ulteriormente accrescersi e cooperare tra loro, cosí da esprimere appieno la vocazione europea della cultura meridionale e legitti- mare la funzione storica che il Mezzogiorno d’Italia ha assolto e deve continuare ad assolvere nei confronti del bacino del Mediterraneo.

Un’ultima considerazione. Il Nord del nostro paese – da Torino a Milano, da Como a Brescia, da Verona a Trento, da Padova a Venezia – è il Sud dell’Europa non solo per chi

risiede a Parigi e a Berlino (per non parlare di Stoccolma e di Oslo) ma anche per chi vive e lavora a Lione o a Monaco. Un grande italiano, Niccolò Tommaseo, 160 anni fa, dal suo volontario esilio parigino, scriveva: «nazione una e provin- cie confederate, questioni secondarie», mettendo in evi- denza come le condizioni della vera libertà e dell’avanza- mento dei popoli siano – allora come oggi – il sentire comune, il garantire a tutti la possibilità di esprimere i pro- pri convincimenti, l’assicurare a ciascuno i mezzi per potersi affermare. Valori, questi, sui quali costruire un pro- getto politico nel quale ci si possa riconoscere in tanti a van- taggio della collettività.

Solo se noi tutti avremo avuto l’orgoglio di sentirci ita- liani e ci saremo cimentati nella responsabilità di essere europei, l’Italia sarà veramente una, com’è indispensabile per affrontare un domani ricco di prospettive, ma non esente da insidie. È, credo, quel che si attende da noi pure la comunità internazionale, ancora convinta, malgrado tutto, che un’Italia capace di connettere buon senso e rigore, con fantasia e creatività, allontanando da sé sia facili esaltazioni sia mortificanti autoflagellazioni, costituisca un’entità alla quale guardare con considerazione e fiducia: un elemento essenziale per l’equilibrato assetto del vecchio continente.

Relazione al Convegno sul tema “Europa”, svoltosi a Napoli, in Palazzo Serra di Cassano, dal 4 al 10 settembre 1993, per iniziativa dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in onore del Presidente del Parlamento europeo, Egon Alfred Klepsch.

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 104-115)