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Etica per l’Europa

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 94-104)

CARLO SINI

Università di Milano

Credo che si possa dire che Husserl frequentava entram- bi gli aspetti, teorici e pratici, della cultura, quando, nella sua ultima opera, oltre a ravvisare in Grecia la nascita del- l’Europa spirituale in quanto legata alla scoperta della «teo- ria», dell’uomo della teoria, cioè della filosofia e della scien- za, scoperta – egli diceva argutamente – dovuta all’inven- zione di «due greci stravaganti», oltre a ricostruire in que- sto modo suggestivo e largamente condivisibile le basi del- l’umanità europea e della sua civilizzazione universale, poneva poi un inquietante problema: che cos’è però questa nostra umanità nata in Grecia, cresciuta a Roma, culminata nell’Illuminismo, ecc.? È un puro dato di fatto antropologi- co, una pura «follia storico-fattuale», qualcosa di contin- gente e di casuale? Si tratta di un fenomeno accidentale fra i tanti fenomeni dell’umanità e delle culture che si sono affermate nel tempo, che sono apparse e disparse? Oppure è qualcosa di sostanziale, di effettivamente universale, un ideale culturale e sociale che di diritto, e non solo di fatto, ha motivo di porsi come modello per ogni umanità presen- te e futura? Husserl ha la lungimiranza e la forza di porre queste domande nel 1935, nel corso della sua celebre con- ferenza a Praga (e anche a Vienna), che sono, come si sa, il germe della Krisis. Da un lato sta la possibilità, o il dubbio, che l’Europa non sia che una varietà antropologica, come l’India o la Cina: qualcosa di «esotico», se guardato con

occhi non europei; dall’altro la possibilità che l’ideale europeo riguardi invece l’essenza dell’uomo in quanto tale, cioè qualcosa che è innato in ogni umanità e di cui la civi- lizzazione europea coglierebbe l’essenziale. Se è cosí, su cosa si basa questa per noi ottimistica convinzione? Quale ne è il fondamento «apodittico» e perciò indubitabile, come diceva Husserl? In realtà dobbiamo chiederci, egli scriveva, «se lo spettacolo della europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto, rientrante nel senso del mondo, o se non rappre- senti invece un non senso storico».

Siamo soliti esaltare le diversità che sono insite nello stes- so mondo europeo: gli albanesi non sono gli spagnoli, i polacchi non sono i francesi e cosí via. Forse ancora piú importante è la varietà esibita dai nostri contrasti di idee: in essi è depositato il vero patrimonio della nostra cultura e la sua inesauribile ricchezza. È in base alla capacità critica messa in luce da quei contrasti che noi abbiamo la possibili- tà di porre domande radicali e di esporre noi stessi ai confi- ni estremi del dubbio e dell’interrogazione, come appunto faceva Husserl. Se non abbiamo questo coraggio della rifles- sione e del pensiero, allora l’idea di Europa diviene una mera retorica dell’universalismo e della razionalità formale: non c’è da meravigliarsi che i giovani non trovino entusia- smante questa maniera di presentare e intendere l’unità europea; di fatto non mi sembra di percepire molta parteci- pazione giovanile ai discorsi politici relativi all’Europa.

In realtà l’idea dell’Europa è un problema ed è anche un dramma, qualcosa che di fatto accompagna in modo inquie- tante tutte le nostre scelte, sia che ce ne rendiamo conto sia che no. Klaus Held ricordava quanto poco l’Unione Euro-

pea fa per la cultura e soprattutto per i giovani. Purtroppo bisogna dire che questo è coerente con quel tipo di civiliz- zazione che noi abbiamo messo in atto e che stiamo diffon- dendo sull’intero pianeta: civilizzazione fondata sul profitto e sulla imposizione di modelli tecnologici uniformanti e mercificanti ogni tipo di attività. Non è naturalmente che io ignori tutti i vantaggi che vengono dalla civilizzazione euro- pea. Anzitutto l’affermazione dei diritti del cittadino, delle sue garanzie giuridiche, della sua libertà di espressione: que- sto patrimonio di idee va difeso e deve restare alla base di ogni assetto futuro. E non è che io ignori il benessere che la scienza e la tecnica occidentali hanno diffuso tra noi del- l’Occidente e vanno diffondendo in tutto il mondo. Non è un caso infatti che anche le altre civiltà e culture aspirino ad assimilarsi al nostro modello di sviluppo, sebbene talvolta con gravi contraddizioni e con minore consapevolezza o capacità di proteggersi dai pericoli che il progresso econo- mico porta inevitabilmente con sé. Riconosciuto questo, bisogna però aggiungere che su queste sole basi non è pos- sibile né fondare l’Europa, né quella civiltà mondiale che Klaus Held con molte buone ragioni auspica. Il fatto è che quelle basi, assieme a rendere possibile la creazione di valo- ri irrinunciabili, comportano anche limiti e contraddizioni: qualcosa di insito in quelle basi e non derivante soltanto da una loro cattiva applicazione.

Per esempio, non è affatto pacifica, né pacificamente esportabile, la nostra idea della sovranità della legge. Dob- biamo infatti aggiungere che cosa intendiamo per «legge»: l’intellettualismo greco e lo spirito giuridico romano sono davvero gli unici modi di intendere la legalità? Sono cosí universali, come noi pretendiamo, o non sono, come si

chiedeva Husserl, una mera varietà antropologica, un fatto legato alla nostra storia, al nostro carattere, alla nostra tra- dizione? Si tratta dell’idea di uomo o di un tipo di uomo sol- tanto? Se pensiamo che questo ideale giuridico debba esse- re accolto da ogni umanità del pianeta, su che cosa fondia- mo questa convinzione, qual è il criterio della sua legittimi- tà? E d’altra parte, come possiamo promuovere la euro- peizzazione di tutte le culture in base all’ideale tecnologico, imponendo ovunque un solo modello di produzione, facendolo passare per il destino, il telos diceva Husserl, del- l’umanità come tale? Il prof. Alessandro Fontana, con gran- de sensibilità e acume, osservava che, una volta che la nostra civiltà tecnica sarà assorbita dai popoli del Mediterraneo, noi dovremo accettare che i loro prodotti risultino, come è probabile, meno costosi dei nostri e magari, perché no, anche meglio fatti: sono problemi concreti che ci attendo- no nel futuro. Ma oltre a ciò c’è un’ulteriore domanda, che il prof. Fontana conosce bene: è poi vero che il nostro modello tecnologico è l’unico modello pensabile per il futuro? Ce lo potremo davvero permettere? Da molte parti gli esperti di queste cose lo negano: non possiamo immagi- nare che tutto il mondo si assimili al modello di vita di Chi- cago, che tutto il mondo replichi le condizioni di vita degli Stati Uniti, con l’aria condizionata in ogni locale e cosí via. Le risorse del pianeta terra non sembrano adatte a soppor- tare questo modello di sviluppo, e del resto questo modello non è forse neppure auspicabile in assoluto: perché dovremmo diventare tutti americani, o tutti europei, incar- nanti un’unica “way of life” ?

C’è molta astrazione nelle nostre tecnologie, cosí come c’è molta astrazione nei nostri princípi giuridici. Siamo con-

sapevoli che il carattere formale della legge è uno scudo efficace contro le tentazioni dell’autoritarismo, della sopraf- fazione politica e sociale, della pura violenza; però, come diceva Arduino Agnelli, queste argomentazioni si limitano a pensare «contro» qualcosa. In un senso propositivo, per- ché la legge non dovrebbe fondarsi piuttosto – che so – sulla tradizione religiosa o sulla profezia? o sulla tradizione mitica orale, invece di fondarsi, come da noi, sulla registra- zione mediante l’alfabeto di patti e di norme? Analoga- mente, perché la produzione delle cose deve necessaria- mente obbedire ai nostri criteri quantitativi, cioè alla tra- scrizione matematica, come già diceva Galileo, e non a cri- teri di tipo qualitativo e simili?

Questi interrogativi inquietanti stanno alla base, secondo me, di ogni discussione produttiva che assuma l’idea di Europa come suo oggetto di riflessione. Se interrogativi di questa portata non vengono sollevati, se non si ha la capa- cità e il coraggio di porseli, allora l’idea di Europa viene gio- cata a tre livelli che sono la palese contraddizione di quel- l’universalimo che pure si invoca e di cui ci si vanta: il livel- lo dell’economicismo, del burocratismo e della retorica. Parlare dell’Europa diviene solo una occasione di sfoggio retorico, atto a coprire interessi soltanto economici che si traducono fatalmente in organismi e strumenti burocratici. Che questo sia un rischio consistente credo che lo vediamo tutti. Ed è ciò per cui, pur essendo tutti a questo tavolo sim- patizzanti per l’idea dell’Europa, consapevoli che essa è la vera e grande occasione aperta al futuro che si offre al patri- monio della nostra tradizione culturale e morale, nonché il contributo prezioso che si offre alla vita spirituale e mate- riale di tutti i popoli della terra, nondimeno siamo anche

costantemente delusi, disillusi e disincantati di fronte alle manifeste difficoltà di tradurre questo ideale in qualcosa di convincente e di sostanziale.

Perché questa traduzione si rivela cosí difficile, sempre rinviata, mortificata in piccole decisioni strumentali, unica- mente dettate da mediazioni di interessi contingenti e infi- ne molto egoistici? Credo che ciò non vada messo sul conto della cattiva volontà dei popoli, degli individui e dei gover- ni; credo che si tratti invece di difficoltà e di contraddizioni reali che si trovano nelle cose e nei princípi medesimi. C’è indubbiamente una prevalente volontà politica ed econo- mica che mira all’unità, ispirata da bisogni immediati e ben comprensibili; questa stessa volontà pratica tende però a sottovalutare i problemi di fondazione e di legittimità, tende a cancellarli e a risolvere le contraddizioni e i para- dossi con vacue affermazioni retoriche.

Si parla molto di unità, ma giustamente si teme l’unifor- mità, che per esempio consegue da una sorta di dittatura tecnologica. La varietà è una ricchezza irrinunciabile del- l’Europa, si dice. Di ciò sono per esempio testimonianza eloquente proprio la Germania e l’Italia, le quali, non aven- do costruito già da secoli un forte Stato unitario, hanno conservato una varietà anche positiva di localismi e diffe- renze interne. Hitler voleva invece uniformare tutta l’Euro- pa al nazismo; Stalin, se avesse potuto, avrebbe fatto altret- tanto. Meno male che non ce l’hanno fatta, diciamo noi. Però assistiamo impotenti a questo tipo di uniformità della produzione, della informazione e del costume che è conse- guenza delle nostre tecnologie avanzate: vediamo crescere il conformismo degli abiti e delle idee, cui va di pari passo lo svuotamento ideale della politica. Come ci misuriamo

con questi problemi? Che cosa possiamo fare perché non accada che l’unica diversità che viene salvata sia quella turi- stica? In questo senso salvare Venezia dalla degenerazione, salvare il sud dell’Italia dalla devastazione sono davvero pro- blemi europei, cioè problemi emblematici per tutta la comunità e la civiltà dei popoli europei. Vi ricordo che pro- prio Hitler, quando programmava il ruolo dell’Italia dentro la «sua» Europa, immaginava l’Italia futura come «il giardi- no degli aranci», il «paradiso delle vacanze» (cosa che non garbava affatto a Mussolini, dati i suoi sogni di potenza imperiale «romana» e «mediterranea»: non ultima ragione della sua decisione di entrare nel conflitto mondiale perché l’Italia vi recitasse un ruolo di «grande potenza», con l’esito tragico che ne è sortito, legato alla tragedia di tutto il popo- lo tedesco, del suo patrimonio civile, culturale, monumen- tale e morale). Certo ciò che chiamiamo, sbrigativamente, la tecnica non presenta pericoli cosí terribili, come quelli che sono derivati dai sogni di Hitler e di Mussolini; però in certi casi essa sembra promuovere esiti stranamente simili, sebbene per vie diverse: vie molto meno violente, e che pro- prio perciò sfuggono alla coscienza critica collettiva, con l’appoggio, tra l’altro, di strumenti atti a creare un consen- so psicologicamente manipolato e programmato.

Se questo è almeno in parte vero, potremmo allora esse- re indotti a pensare che i totalitarismi, il fascismo, il nazi- smo, il marxismo russo, con tutte le loro tragiche vicende, sono qualcosa di piú di un errore, di una deviazione o di una degenerazione dai sani e buoni principi della civilizza- zione europea. Forse bisogna avere il coraggio morale e intellettuale (e questo sembra a me il compito essenziale per il filosofo) di dire che quelle degenerazioni, sebbene

dovute a molteplici ragioni contingenti, a limiti ed errori umani, ad agguati e sventure del destino, erano però in qualche misura anche conseguenza dei limiti dei nostri «universali» princípi. Fascismo, nazismo, marxismo sono anche una delle possibilità iscritte nei nostri princípi e fon- damenti. Naturalmente in quei princípi stanno possibilità migliori e per queste appunto ci battiamo. Ma non è per esempio sufficiente ritenere che il solo affermarsi delle nostre democrazie sia di per sé una soluzione e uno scudo contro i pericoli totalitari. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la nostra democrazia si sta sempre piú risol- vendo in rissosa e cinica demagogia. Niente mi sembra oggi suonare piú sinistro di quella celebre battuta che dice: la democrazia è il peggiore dei governi nei quali si possa desi- derare di vivere, però non ce n’è di migliori.

Se cosí stanno le cose, c’è motivo di pensare che i prin- cípi che hanno fatto la grandezza dell’Europa mostrino oggi il limite della loro contingenza; per esempio che anche l’idea formale e astratta dell’universale è un’idea particola- re (sebbene si tratti, come diceva Marx, di quel tipo di astra- zioni che poi si realizzano e divengono concrete, o si sosti- tuiscono al concreto). Ciò concerne l’universalità della ragione tecnologica, della ragione giuridica e della ragione politica. La nostra democrazia è ormai un pessimo modo di vita politica: dire che il totalitarismo è peggio non la assol- ve, è solo indice di inerzia morale e di pregiudizio ideologi- co, che gabella tautologie per argomentazioni.

Quali sono i fondamenti del nostro preteso universali- smo? Cosí si chiedeva Husserl e cosí dobbiamo continuare a chiederci. Sono forse una mera varietà antropologica? Se è cosí, hanno inevitabilmente il loro limite e il loro male

interno, come ogni realtà contingente e di fatto. Senza una coraggiosa autocritica non potremo né pretendere né otte- nere che la nostra tradizione divenga patrimonio di tutti, cioè dell’uomo planetario che di fatto si viene costruendo. E dovremo in ogni caso accettare che i nostri princípi si modi- fichino al contatto delle altre culture, come immancabil- mente è sempre avvenuto e ancora, io credo, avverrà. Ma l’Europa deve andare a questo appuntamento con uno spiri- to radicalmente critico e autocritico. Se non ne sarà capace, resterà preda dei tre fantasmi che prima evocavo: l’economi- cismo, la burocrazia e la retorica. E questa sí sarebbe davvero la fine dell’Europa, l’eclissi della sua tradizione spirituale.

Ancora un paio di considerazioni. Se prendiamo sul serio l’idea che l’Europa sia una varietà antropologica, come diceva Husserl, ciò comporta però che anche le altre civiltà e culture lo sono. Noi non abbiamo alcun privilegio «ideale» o «apodittico», ma nemmeno gli altri lo hanno. Non c’è motivo di esagerare l’importanza dell’«estraneo». Qui sarebbe importante un confronto a fondo con le acute e generose tesi di Bernhard Waldenfels. Noi non siamo detentori di una verità assoluta, ma neanche l’estraneo lo è, se per estraneo si intende le altre culture. Per parte nostra, abbiamo determinato la nascita, come diceva Husserl, di un uomo della teoria. Personalmente preferirei dire: un uomo della trascrizione alfabetica e poi matematica della parola e della verità. Ciò ha comportato la nascita di quell’uomo cri- tico e desacralizzato di cui già parlava Max Weber. Non si tratta allora di esportare questo uomo critico, universale e «laico» come una cosa pacifica e pregiudizialmente salvifica per tutti. Non è però nemmeno il caso di assimilarsi all’uo- mo dell’oralità, del mito, della profezia, della religione rive-

lata e cosí via. In generale anzi si deve riconoscere, io credo, che dalla scrittura alfabetica e matematica è ben difficile tornare indietro, per molte ragioni che qui non è possibile toccare. Già Aristotele diceva: dalla filosofia non si torna indietro; o bisogna filosofare o non bisogna filosofare, ma, una volta posta l’antitesi, non si può non filosofare anche solo per deciderla. Credo che invece si debba dire: ci è necessario un uomo capace di tollerare tutto questo, cioè un uomo che, senza dover o poter rinunciare alla teoria, sappia però abitarla altrimenti. L’universalità è una partico- larità, però funziona proprio come un universale realizzato (questa era la definizione della merce in Marx). Quindi non si tratta di immaginare una fondazione teorica della teoria (l’ultimo Husserl se ne era appunto reso conto); si tratta di instaurare un abito, cioè un’etica, della cultura teo- rica che noi di fatto siamo. In verità questo che siamo e siamo diventati attraverso la nostra tradizione è, io direi, propriamente e profondamente l’estraneo, il nostro estra- neo: noi siamo estraniati a noi stessi a partire dalla nostra tradizione, e anzitutto dalla tradizione delle nostre pratiche teoriche, a cui siamo soggetti (e non di cui saremmo sog- getti). Dobbiamo portare il nostro pensiero all’altezza delle pratiche teoriche che ci costituiscono e che continuamente esercitiamo senza porre su di esse una reale domanda criti- ca. In termini semplificati si potrebbe dire che noi non siamo ancora capaci di pensare e di realizzare quella etica che il fare tecnologico ci impone.

Dal volume: La fenomenologia e l’Europa, a cura di R. Cristin e M. Rug- genini, Atti del convegno promosso dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Trieste dal 22 al 25 novembre 1995 (Vivarium, Napoli, 1999).

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 94-104)