• Non ci sono risultati.

Omaggio a Gerardo Marotta

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 173-182)

MARC FUMAROLI

de l’Academie française

Signor Ambasciatore, Avvocato Marotta, Signore e Signori, il primo titolo di merito, di non trascurabile importanza, per il quale lei è degno di ricevere la Legione d’Onore, mio caro Avvocato, è la sua convinzione – per non dire la sua fede apostolica – di giacobino napoletano.

In effetti l’onorificenza della Legione d’Onore, che di qui a poco le consegnerò, ha origini in parte giacobine, e si può affermare che questa sera la Repubblica francese, le cui origini giacobine sono indiscutibili, riconosce in lei il piú devoto tra i devoti della Repubblica giacobina napoletana, l’emula eroica ed effimera della sua sorella maggiore fran- cese che la reazione sanfedista soffocò nel sangue nel 1799. La sede dell’Istituto che lei ha fondato e di cui lei è l’anima, il magnifico palazzo napoletano Serra di Cassano, ha il por- tone principale sigillato dal giorno dell’esecuzione somma- ria nel 1799 del suo proprietario di allora, uno dei capi della rivoluzione giacobina contro il trono e l’altare dei Borboni-Sicilia. Non credo di esagerare se affermo che tutta la straordinaria attività su scala mondiale al servizio univer- sale dello spirito svolta per piú di trent’anni da lei e dal suo Istituto – attività di cui mi accingo tra poco a cercare di illu- strare gli aspetti principali – in ultima analisi è stata per lei una sorta di trasfigurazione espiatrice del sangue dei mar- tiri della Rivoluzione napoletana del 1799, una riparazione

d’ordine spirituale che lei ha voluto offrire a Napoli e ai suoi Lumi antichi e moderni per risarcirli della grande umi- liazione e offesa loro inflitte dalla vittoria nel 1799 di un Ancien régime oscurantista, vendicativo e tiranno.

Questa è dunque un’occasione irripetibile per ricordare che la Legione d’Onore di cui lei diventa membro questa sera, fu creata da un ex-giacobino di nome Napoleone Bonaparte, diventato Primo Console nel 1799, per consoli- dare nelle abitudini e nell’ordinamento giuridico la Rivolu- zione del 1789. Gli Ordini cavallereschi riservati all’antica nobiltà – e tra essi anche il piú prestigioso, l’Ordine di Saint-Esprit fondato da Enrico III – erano stati soppressi il 4 agosto 1789. Gli altri Ordini, persino quello di Saint-Louis istituito da Luigi XIV per meriti militari degli ufficiali senza distinzione di lignaggio, furono tutti aboliti anch’essi dal- l’Assemblea nazionale con una legge del 6 agosto 1791, che anticipò la creazione di un’ unica onorificenza nazionale che sarebbe stata accordata “per le virtú, i talenti e i servizi resi allo Stato”. Occorse tuttavia attendere il grande riordi- namento repubblicano dello Stato a opera del Primo Con- sole perché il proposito dell’Assemblea nazionale fosse tra- sformato in realtà. Il 19 maggio 1802 il progetto di legge che prevedeva la creazione e l’organizzazione della Legione d’Onore fu adottato dal Tribunato e dal Corpo legislativo, non senza viva opposizione da parte dei giacobini “puri e duri” che in ciò vedevano una sorta di attentato al principio di eguaglianza e un primo passo verso la restaurazione del- l’aristocrazia.

Nelle intenzioni del Primo Console, affascinato dal mito romano neoclassico, si trattava di procedere a sostituire l’Ancien régime francese monarchico e feudale con una

Roma repubblicana all’antica, nella quale i guerrieri piú valorosi sarebbero stati insigniti del titolo di honorati, i corpi d’élite di quello di legiones, e nella quale le virtú civiche e la dedizione allo Stato sarebbero state incoraggiate dall’aemu-

latio. Ciò nondimeno, Bonaparte aveva desiderato che que-

sta emulazione delle virtú civiche incoraggiate dal conferi- mento di un’onorificenza pubblica fosse estesa tanto ai civili quanto ai militari. Cosí dichiarò infatti al Consiglio di Stato: «Se distinguessimo gli uomini in militari e civili, instaureremmo due ordini, quando invece non vi è che un’unica Nazione. Se invece assegnassimo onorificenze sol- tanto ai militari, sarebbe ancor peggio, perché in quel caso non vi sarebbe piú una Nazione».

Quanto alle obiezioni sollevate dai giacobini “puri e duri” in relazione al principio di eguaglianza, Bonaparte fu altret- tanto categorico: «Vi sfido a indicarmi una sola repubblica, antica o moderna, nella quale non ci siano state onorificenze. Le si chiama sdegnosamente “medaglie”. Ebbene: è con le medaglie che si guidano gli uomini. Dieci anni di rivoluzione non hanno cambiato i francesi: essi sono ciò che erano, Galli fieri e garbati, con un unico senso dell’onore. Occorre ali- mentare tale sentimento. Occorrono onorificenze».

La romanizzazione della Gallia “garbata”, rimasta incom- piuta dai tempi di Giulio Cesare, sarebbe in effetti prose- guita a un ritmo sostenuto. Nel 1804 il Primo Console fu proclamato Imperatore dei francesi. L’11 luglio un decreto imperiale approvava la foggia della decorazione della Legione d’Onore, una stella di smalto bianco cinta da cin- que raggi, e il 30 gennaio 1805 un altro decreto definí la forma dell’onorificenza suprema dell’Ordine, la “grande aquila” d’oro romana al centro della stella.

L’inaugurazione dell’Ordine da parte dell’Imperatore ebbe luogo quello stesso anno, in occasione dell’anniversa- rio del 14 luglio, nel corso di una cerimonia che si svolse nella chiesa di Saint-Louis des Invalides alla presenza del- l’arcivescovo di Parigi. Un mese piú tardi, nell’accampa- mento militare di Boulogne, magnificamente decorato “all’antica”, alla presenza di centomila soldati adunati per invadere l’Inghilterra, l’Imperatore decorò duemila vete- rani delle campagne rivoluzionarie. L’Ordine era partito in pompa magna e neppure la Restaurazione osò pregiudi- carlo.

Caro Gerardo Marotta, ho ascoltato uno dei suoi amici e ammiratori francesi, lo storico della Rivoluzione Michel Vovelle, congratularsi con lei per il suo giacobinismo dichia- randosi egli stesso giacobino irriducibile, pur deplorando al contempo la deriva imperiale introdotta nella Repubblica giacobina dal bonapartismo. Non so se lei condivide questa contraddizione, ma in quanto napoletano lei ha validi motivi per considerare il bonapartismo l’erede legittimo se non del 1793 quanto meno del 1789. Il regno troppo breve di Gioacchino Murat a Napoli vi ha ciò nondimeno lasciato dei buoni ricordi: la promulgazione del codice civile, la creazione di un Politecnico, l’abbellimento della città, uno sprone all’unità e all’indipendenza italiane. L’esecuzione del re Murat voluta da Ferdinando I che il Congresso di Vienna aveva rimesso sul suo trono riecheggia nella vostra memoria tanto crudelmente quanto quella del principe Serra di Cassano.

Insomma, giacobino o bonapartista per memoria storica e fedeltà ai Lumi, lei non si è mai rinchiuso in un’ideologia politica retrospettiva. Avvocato, ma anche filosofo che nella

tradizione dell’hegelismo napoletano del XIX secolo – il cui piú illustre rappresentante, Benedetto Croce, è stato suo maestro e ispiratore – ha voluto ben presto e con l’aiuto della figlia maggiore di Croce, Elena – una delle figure piú affascinanti dell’intellighenzia italiana del dopoguerra – controbilanciare ed emendare la cupa eredità della contro- Rivoluzione e del contro-illuminismo a Napoli per mezzo di una possente offensiva dello spirito, che ha avuto sí luogo nella sua città, ma che ha avuto anche ambizioni e orizzonti universali. In lei arde un fuoco pentecostale secolare, un fuoco di apostolo laico, contagioso ed espansivo, che le ha fatto sacrificare la carriera professionale e gli interessi per- sonali alla grande causa che lei ambiva a legare al nome di Napoli. Lei ha saputo attirare a sé altri discepoli, che restano tuttora i suoi infaticabili ed eruditi collaboratori, e creare insieme a loro, nel 1975, un’istituzione a ben guar- dare assolutamente singolare, il cui quartier generale si trova a Napoli, ma le cui antenne di anno in anno si sono progressivamente e flessibilmente prolungate e diversificate fino a coprire tutta l’Europa e gli Stati Uniti, al pari di un mecenate universale ed enciclopedico da cui hanno tratto beneficio le migliori menti dell’ultimo mezzo secolo, con- sentendo loro di formare delle generazioni di nuovi eccelsi ricercatori. Mi sembra anche, cosa di cui mi rallegro, che di recente in Italia vi siano stati alcuni suoi eccellenti emuli.

Nell’ideazione e nel funzionamento dell’Istituto italiano di Studi Filosofici, di cui lei è l’anima – lo ripeto affinché tutti lo comprendano –, sono tentato di individuare alcune felici contraddizioni con la sua fedeltà giacobina, le sue affi- nità bonapartiste e persino il suo hegelianesimo. Lei ha dato a questo Istituto uno statuto indiscutibilmente privato,

che gli conferisce una libertà d’azione e di scelta assolute, che lo preserva altresí dalle pastoie burocratiche che nelle istituzioni ufficiali di insegnamento e ricerca possono atro- fizzare o perfino rendere sterili i talenti piú creativi. Da que- sto punto di vista lei si colloca al fianco delle iniziative pri- vate, che di preferenza sostiene, e si colloca altresí risolutamente ai margini delle élite statali, come propen- dono naturalmente i giacobini, i bonapartisti e gli hege- liani. Lei si comporta da autentico “liberale”, che sicura- mente non disdegna lo Stato e le sue istituzioni, ma che comincia prima di tutto a fare da sé ciò che sa fare meglio, senza attendere che si mettano in moto i grandi apparati ufficiali.

D’altro canto il disegno “politicamente molto scorretto”, suo e dell’Istituto, di mettere l’accento sul talento, sugli studi e l’istruzione superiore, voltando la schiena al livella- mento della democratizzazione dal basso, dimostra che lei non è affatto intimidito dalle accuse di “elitismo” e che per lei eguaglianza giacobina non vuol dire necessariamente ghigliottinare tutto ciò che le va oltre. Mi pare che queste contraddizioni, quanto meno apparenti, si possano spie- gare con il fatto che per lei la Repubblica e il «bene comune» non saprebbero accontentarsi dell’interpreta- zione politica e giuridica proposte dal giacobinismo e dal bonapartismo.

Al di là della Repubblica in senso politico e giuridico, figlia dei Lumi, lei si comporta da magistrato e cittadino a tempo pieno di quest’altra Repubblica madre dei Lumi, ben anteriore alle Rivoluzioni politiche della fine del XVIII secolo, e che deve continuare a essere il testimone indipen- dente, inventivo e critico dell’evoluzione non sempre rassi-

curante delle società nate da queste Rivoluzioni: intendo ovviamente la Repubblica delle Lettere. Non è un caso se una delle riviste patrocinate e pubblicate dall’Istituto di cui lei è l’anima, ha ripreso il titolo, in francese, di quello della rivista di Pierre Bayle, “Nouvelles de la République des Let- tres”. L’Istituto che lei ha fondato e presiede vuole essere il centro nervoso che anima e alimenta una moderna Repub- blica delle Lettere. La sua lealtà napoletana alla Rivoluzione giacobina del 1799 e il suo attaccamento all’hegelianesimo tradizionale napoletano si esplicitano e realizzano nel servi- zio apostolico e missionario dello spirito universale all’opera nelle vicissitudini della Storia, e il cui piú veritiero interprete non potrebbe essere ai suoi occhi né Napoleone a cavallo né colui che siede nel jumbo jet Air Force One, bensí la comu- nità mondiale dei grandi filosofi, che è importante possano cooperare, dialogare, raccogliere discepoli, e costituirsi in una sorta di potere spirituale avveduto, che possa consigliare ed eventualmente criticare i poteri temporali del momento. Non so se hanno conseguito il risultato voluto tutti gli appelli che lei ha fatto sottoscrivere a numerose e grandi personalità e che ha in seguito indirizzato alle istituzioni internazionali ed europee per incentivare gli studi umani- stici nella scuola, per un ritorno dell’identità europea alle sue origini, ma quanto meno lei avrà aperto la strada a un potere spirituale laico, della cui autorità siamo crudelmente sprovvisti e che un Comte, un Renan, un Valéry invocarono e auspicarono. Solo un apostolo ispirato da un patriottismo universale, quale lei è, può aver cercato di far sentire ai poteri economici, politici e mediatici affascinati dall’ effi- mero e condizionati dai grandi numeri la voce imperitura dei filosofi riuniti intorno a lei e da lei.

Questo riallacciarsi con l’antica Repubblica delle Lettere spiega i tratti singolari della sua infaticabile azione e di quella dell’Istituto. Ciò che colpisce maggiormente è il suo rifiuto ad ammettere l’esistenza di un dissidio tra le “due culture” avanzato da C.P.Snow a Oxford in una fin troppo celebre conferenza. L’antica Repubblica delle Lettere sapeva che senza i filologi che avevano decifrato gli enigmi dei mano- scritti di Euclide e di Diofanto, divenuti essi stessi geometri e matematici, era impensabile “il mondo scritto in linguaggio matematico” di Galileo, figlio di un teorico della musica greca ed egli stesso brillante scrittore e critico letterario.

L’Istituto e lei per primo credete per principio che non vi sia incompatibilità alcuna, bensí una complementarità imprescindibile, tra la coscienza che il soggetto umano desume tramite la filosofia, la filologia, la storia, la lettera- tura, insomma da una o l’altra branca degli studi umani- stici, e la conoscenza che le scienze derivano dai loro diffe- renti oggetti di studio. A prima vista, la vasta e capillare serie di incontri e di pubblicazioni – l’iniziativa delle quali lei ha preso in numerosi paesi del mondo da trent’anni a questa parte – può sembrare confusa e sconcertante, tanto essa abbraccia cosí numerosi ambiti del sapere, tanto fa dia- logare intelletti assai diversi tra loro quanto un premio Nobel di biologia, una Medaglia Field di matematica, filo- logi del calibro di un Pugliese Carratelli o di un Kristeller, filosofi della levatura di un Gadamer o di un Ricoeur, storici dell’arte di qualità quali un Irving Lavin: osservando tutto ciò in prospettiva, si comprende l’ambizioso disegno di abbattere le barriere tra saperi troppo specialistici, creando un forum in cui torni a instaurarsi il dialogo tra gli Antichi e i Moderni, tra l’uomo che si interroga su se stesso e

l’uomo alla ricerca delle leggi della materia inerte e della vita.

La missione che lei si è scelto, un cui primo bilancio fatto in occasione del trentennale dell’Istituto è semplicemente prodigioso, sarebbe già di per sé sufficiente a giustificare ampiamente il suo ingresso nella Legione d’Onore con il titolo di Cavaliere. Il suo patriottismo napoletano è un patriottismo universale: lei ha per motto quello dei cittadini della Repubblica delle Lettere: “Il mio paese è il mondo”, e non ha pertanto certo lesinato la sua generosità e il suo patrocinio verso i francesi rispetto a quelli profusi in tante altre nazioni. La sua azione vigile e costante a favore di un’Europa dello spirito include anche la Francia, senza tut- tavia privilegiarla. Le testimonianze di riconoscimento, i dottorati honoris causa a lei conferiti da numerose università di svariati paesi confermano infatti che lei non ha privile- giato né dimenticato nessuno.

Nonostante tutto, lei si è dedicato particolarmente a noi, allacciando rapporti in Francia e a Napoli con numerosi amici e ammiratori, che in molteplici occasioni l’hanno rin- graziata e festeggiata con un calore eccezionale. Consideri dunque questa festa odierna, e accolga questa croce di Cavaliere che le è consegnata, come il punto culminante e piú solenne della gratitudine che la Repubblica francese nutre nei suoi confronti.

Traduzione di Anna Bissanti.

Discorso tenuto il 7 dicembre 2004 a Roma in Palazzo Farnese in occasione del conferimento all’avvocato Gerardo Marotta della Legion d’Onore da parte della Repubblica francese.

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 173-182)