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L’Europa e la filosofia

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 67-80)

ALDO MASULLO

Università di Napoli «Federico II»

Edmund Husserl, nei giorni 7 e 10 maggio del 1935, tenne a Vienna una conferenza, intitolata “Die Philosophie in der Krisis der europäischen Menschheit”. Interessa qui notare che “Menschheit” designa un’essenziale tipicità di “uomo”, che si specifica nella forma spirituale dell’Europa, mentre nel titolo del testo, cosí come risulta edito in appen- dice al volume postumo Die Krisis der europäischen Wissen-

schaften, si trova il termine “Menschentum”, piuttosto a

significare un empirico individuo storico, e propriamente quello di cui fan parte gli Europei.

Nella conferenza una domanda essenziale: «Come si caratterizza la forma spirituale dell’Europa?», ovvero, ancor piú incisivamente: «La forma spirituale dell’Europa – di che si tratta?» (Gesammelte Werke, vol. VI, ed. cur. da W. Biemel, Haag 1954, Nijhoff, p. 318-319; tr. it. di E. Filippini, Milano 1961, Il Saggiatore, p. 332).

La risposta è possibile solo se si comincia con il ricono- scere che «l’Europa spirituale ha un luogo di nascita». Questo luogo è la nazione greca antica nel VII e nel VI secolo avanti Cristo. «Vi si sviluppa un nuovo atteggiamento di alcuni verso il mondo circostante» che «i Greci chiama- rono filosofia. Correttamente tradotto, nel significato origi- nario, tale termine non vuol dire altro che scienza universa- le, scienza del mondo nel suo tutto, della unità totale di ciò che esiste» (p. 321; it. p. 334).

Husserl con particolare insistenza volle caratterizzare la forma storica della filosofia come Beruf, “vocazione profes- sionale”, mettendo in gioco in modo trasparente l’elabora- zione che di questa categoria, in chiave sociologica di “razionalizzazione” etica, aveva variamente compiuta Max Weber nei primi decenni del secolo, ma restituendola al suo significato originario di risposta coscienziosa di un esercizio conforme alla disciplina del suo compito.

La singolarità della filosofia, cosí com’essa nasce nella Grecia del VII e VI secolo a. C., sta, secondo l’impianto della conferenza, nel fatto che, per quanto in varie culture si possa «constatare un interesse universale per il mondo circostante», il quale interesse «si manifesta nel modo di un interesse vitale professionale», tuttavia, «soltanto presso i Greci» noi troviamo un interesse vitale universale (“cosmologico”) nella forma essenzialmente nuova di un atteggiamento puramente “teoretico” e si manifesta in una forma comunitaria (pp. 325-326; it. p. 338).

L’«atteggiamento teoretico», non inerente cioè ad alcuno scopo pratico-naturale, particolaristico, anzi «fon- dato sull’epochè volontaria da qualsiasi prassi al servizio della dimensione naturale», è pur sempre un «atteggiamento professionale (Berufeinstellung)». Si tratta di «una prassi di genere nuovo», la quale «mira attraverso la ragione scienti- fica universale ad innalzare l’umanità, a trasformarla in un’umanità radicalmente diversa». «A ciò la teoria (la scienza universale) è chiamata (berufen) e nel vedere teore- tico testimonia la propria vocazione (Beruf )» (p. 328; it., p. 341).

Con la «decisione di dedicare costantemente d’ora in poi la vita, la vita nel senso universale, a costruire gradualmente

la conoscenza teoretica infinita», «sorge una nuova umanità, uomini che, attraverso la filosofia, creano professionalmente una nuova forma culturale». Insomma «sorge una partico- lare umanità ed una particolare professione di vita (ein beson-

derer Lebensberuf), correlativamente alla produzione di nuova

cultura». Peraltro «la diffusione della filosofia» non resta «nei limiti della ricerca scientifica professionale», ma va «al di là della cerchia professionale, assurgendo a movimento di educazione (Bildungsbewegung)».

Di fronte ad una cosí radicale trasformazione della cul- tura e del modo stesso di esistere, inevitabilmente, «coloro che in modo conservatore si tengono nella tradizione entre- ranno in conflitto con la cerchia dei filosofi, e sicuramente la lotta si svolgerà nella sfera politica del potere» (p. 335, it. p. 346).

Sembrano echeggiare le parole del Simposio platonico: «Ouj ga;r oi\mai sumfevrei toi‘ı a[rcousi fronhvmata megavla ejggivgnesqai tw‘n ajrcomevnwn» («Ai governanti non con-

viene, io credo, che nei governati si generino grandi pen- sieri») (182 c, 1-2).

Ma l’annotazione di Husserl («già con gli inizi della filo- sofia comincia la persecuzione»), seccamente formulata mentre a due anni dalla fine della Repubblica di Weimar la catastrofica rapina nazista in modo sempre piú minaccioso incombe sull’Europa, suona non come un distaccato per quanto amaro commento ad un passato storico, bensí come il drammatico rintocco di un allarme presente.

In relazione al nostro tema, un aspetto della conferenza viennese interessa particolarmente. Husserl da un lato rivendica come essenza della filosofia la “teoreticità”, la quale, come “critica universale”, osservazione disinteressata

del mondo nella sua “totalità”, è indipendente da ogni particolare interesse “naturale”, cioè da ogni coinvolgi- mento nel mondo della vita, all’interno di un globale, ma sempre storicamente determinato e chiuso orizzonte cultu- rale. La filosofia, nella sua costitutiva “sovranazionalità”, ori- ginando un sapere europeo come “forma spirituale dell’Europa”, ha promosso «uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità».

Dall’altro lato, Husserl insiste nell’attribuire alla filosofia quella “professionalità”, che pur egli non cessa di conside- rare come “determinatezza” di una “specializzazione”, “necessaria” ma, per la sua unilateralità”, altrettanto “peri- colosa”.

Max Weber, nel celebre scritto del 1904-5 L’etica prote-

stante e lo spirito del capitalismo, aveva concepito la “pro-

fessionalità” come un effetto di “razionalizzazione”, attra- verso cui l’individuo viene reso perfettamente adeguato come mezzo allo scopo dello sviluppo conservativo del sistema socio-economico. In vari scritti degli anni 1916-17 Weber aveva invece prevalentemente considerato la “pro- fessione” come uno dei tipi di codice di comportamento, in cui l’individuo si rifugia per difendersi dal disorientamento e dalla angosciosa insicurezza, provocati dal “politeismo” delle norme, cioè dalla proliferazione di differenti tavole di valori in una medesima area culturale. Infine, nelle notis- sime pagine del 1919 sul lavoro intellettuale, egli ritiene che, nell’epoca del “disincantamento del mondo”, come esito del “politeismo” ideologico, la scienza, severamente garan- tita dalla “probità intellettuale” e dal coraggio dell’ “indi- pendenza da valori”, sia una professione specializzata”, stretta al suo “compito quotidiano”, lasciando che «solo nel

rapporto da uomo a uomo, nel pianissimo, palpiti l’inde- finibile».

In nessuno di questi significati weberiani di “profes- sione”, neppure nell’ultimo, sembra potersi riconoscere la “professionalità”, attribuita da Husserl alla filosofia come atteggiamento “teoretico”.

Per Husserl la filosofia è idealmente omogenea con il “monoteismo”, e la “teoreticità” è essenzialmente raziona- lità non unilaterale. Agli occhi del filosofo, «nessuna luce conoscitiva, nessuna verità singola deve essere assolutizzata e isolata. Soltanto in questa estrema autocoscienza, che diventa a sua volta una delle componenti del compito infi- nito, la filosofia può esercitare la sua funzione, la funzione di realizzare se stessa e perciò un’autentica umanità». Questo compito della filosofia è «l’essenza stessa della ragione», e «per questa costante riflessività una filosofia è conoscenza universale».

Weber, di fronte al “politeismo” dilagante, si era limitato al rifiuto di qualsiasi positività di senso e di valore e, accet- tando nei termini sociologici e psicologici la conclusione di Nietzsche del ridursi della ragione a operazione di “razio- nalizzazione”, aveva però difeso il potere originario della ragione come continuo trapassare tutti gli inconsistenti simulacri del divino, tensione per assicurare alla intelli- genza di Ulisse la sordità al canto delle Sirene, sforzo per impedire la compromissione della razionalità scientifica con le scelte di vita, vigilanza per mantenere libero al di là d’ingannevoli e fugaci presenze un immutabile spazio di assenza.

L’avvertimento appunto di questa assenza, mai piú che sussurrato a se stessi, un “pianissimo”, esso soltanto sottilis-

simamente separa il relativismo di Weber dal nichilismo di Nietzsche.

Il “monoteismo” husserliano, invece, consiste nel sapere che ogni verità finita è unilaterale e la ragione come verità non unilaterale, verità dell’essere totale, è infinita, sicché in nessuna delle verità particolari bisogna fermarsi, ma proce- dere, razionalmente, verso la ragione, per mirarne, al di là di tutte le verità unilaterali e al di qua della verità totale, il continuo scaturire, l’originaria potenza, la veritatività. Questa appunto fu la scoperta greca della “teoreticità”, incunabolo della forma spirituale dell’Europa e della ten- denziale europeizzazione del sapere.

«L’uomo assurge a spettatore neutrale (zum unbeteiligten

Zuschauer), osservatore al di sopra del mondo». Contro la

degenerazione naturalisticamente “obiettivistica” della scienza moderna, Husserl ribadisce che «la soggettività, la quale produce la scienza, non può venir conosciuta da nes- suna scienza obiettiva». Non meno contro la conclusione nietzschiana, secondo cui non soltanto le cose del mondo

non sono, ma il soggetto stesso non è, egli precisa che la con-

sapevolezza critica della relatività del relativo è la condi- zione della ricerca dell’unico irrelativo che non può essere contraffatto. «Il mondo, che è per noi, è una nostra forma- zione storica, come noi stessi, nel nostro essere, siamo una formazione storica. Cos’è, in questa relatività, l’irrelativo che ne costituisce il presupposto? La soggettività in quanto trascendentale».

Non si tratta della ingenuamente rinnovata assolutizza- zione di una verità finita, con cui da capo non solo Husserl contraddirebbe se stesso, ma la stessa “forma spirituale dell’Europa” si ridurrebbe ad una arrogante pretesa di dog-

matica superiorità. Si tratta piuttosto del radicale interesse “teoretico”, che Husserl non si stanca di rivendicare come criticità del “trascendentalismo”. Il «concetto generalissimo del trascendentale [...] può essere attinto (solo) attraverso un approfondimento della storia unitaria di tutta l’epoca filosofica moderna: è il concetto del suo compito, che solo cosí può essere provato, e agisce in essa, come forza di pro- pulsione del suo sviluppo, e tende a trasformarsi da vaga

dynamis in energeia» (Krisis, § 26).

La “trascendentalità” della filosofia significa l’intrinseca eticità del suo inesauribile compito, cioè non il pigro acco- modarsi in questa o quella verità oggettivata, ma il suo infa- ticabile risalire alle fonti soggettive di essa e mantenersi cosí nella prossimità dell’orizzonte veritativo. La veritatività è lo stesso compito etico. Il nichilismo di Nietzsche riconosceva che la “razionalizzazione” è possibile solo perché «l’inter- pretazione morale dei fatti» da parte dell’uomo esprime la sua «volontà di verità», la sua «volontà di non ingannare neppure se stesso». Ma già il preventivo anti-nichilismo di Kant aveva proclamato che, nel primato della “ragione”, «il piú alto principio formale della moralità deve essere la veridicità».

La veritatività, come orizzonte costitutivo della nostra umanità e della sua responsabilità verso se stessa, è il telos immanente della “teoresi” filosofica. Nella crisi profonda, attraverso cui “la forma spirituale dell’Europa” gestisce la nascita della scienza moderna, l’interesse non in modo par- ticolaristico interessato alla veritatività, cioè la tensione verso una sicura garanzia della verità, si esprime nella ricerca di un “fondamento inconcusso”, sulla cui base non solo la particolare e soggettiva, ma perfino la totale e inter-

soggettiva verità siano messe al riparo dal destabilizzante sospetto di onirica apparenza. Cartesio espresse con estrema sincerità la angosciosa insicurezza «Dormo o son desto? Come potete esser certi che la vostra vita non è un sogno senza interruzioni e che tutto ciò che voi pensate di apprendere coi vostri sensi non è falso, non meno ora che quando dormite?».

La “forma spirituale dell’Europa”, la filosofia come “teoreticità”, nella epoca in cui da essa (libera dalla garan- zia teologica, visto che Dio stesso non è che un’idea della ragione) si sviluppa la molteplice potenza delle nuove scienze, si costella delle innumerevoli repliche di questa domanda, sul cui sfondo filosofi come Leibniz, Wolff, Kant, Schopenhauer elaborano il loro pensiero critico, e a lungo la letteratura, da Shakespeare e Calderon de la Barca, fino all’anonimo delle Notti di Bonaventura, a von Kleist, a Hoffmannstahl, tesse le sue proteiche fantasie.

Nella pre-teoreticità della quotidiana “naturalità”, le nostre “verità” sono le impressioni corporee, le passioni, le immagini, i desideri, i ragionamenti, le parole, gli scontri, le azioni, in breve il mondo storico, fatto appunto, secondo Tucidide, di pathemata e di pragmata. Noi ne veniamo vissuti. Sappiamo quel che vediamo, soffriamo e facciamo, ma non sappiamo quello che siamo. La nostra coscienza è un sogno, talvolta è un incubo. Uscirne, e nella veglia verificarne final- mente la fondatezza, è il senso proprio della ragione, che nell’atteggiamento teoretico esprime la propria infinita ten- sione e si trova responsabile verso se stessa.

Se la “teoreticità” come etica della veritatività è la “forma spirituale dell’Europa”, cosa vuol dire l’“europeizzazione” del sapere? E che cosa la “responsabilità” dell’Europa?

Nella coscienza volgare l’europeizzazione viene identifi- cata non tanto, come un tempo, con la cristianizzazione di popoli extraeuropei, e neppure con la diffusione delle idee di diritti dell’uomo e di democrazia, o con l’espansione del- l’economia di mercato, quanto con il generalizzato imporsi della tecnicizzazione meccanizzante della vita quotidiana. Questo impressionante fenomeno, che sconvolge profonda- mente i costumi della quasi totalità dei popoli del pianeta e con un’inaudita violenza ne livella gli stili, è certamente il piú vistoso risultato della scienza moderna e del suo svi- luppo in forma di tecnologia. Esso sembra dunque il frutto piú maturo del sapere europeo e della forma spirituale che lo ha caratterizzato.

Non è certamente questo il senso, in cui Husserl si pone il problema dell’ “europeizzazione”. Nella conferenza di Vienna, egli riassunse con estrema energia il suo pensiero, impegnato a combattere la confusione tra la “teoreticità” della filosofia, e delle scienze che partecipano alla trascen- dentalità, e gli effetti patologici, che ne costituiscono le per- verse degenerazioni. A partire dal Rinascimento, sedotte dallo straordinario sviluppo delle scienze “naturali”, la filo- sofia e le scienze dello “spirito”, cioè della soggettività, si sono impigliate in una specie di razionalismo ingenuo, e si sono perdute nella “naturalizzazione dello spirito”. Paradossalmente le scienze della soggettività hanno perse- guito 1’ “oggettivismo”. Ne sono state operazioni tipiche l’i- dealizzazione matematica astrattamente infinitizzante, la perdita di un contatto con il mondo circostante della vita, l’estraneazione della razionalità dalla intuizione soggettiva, che la rende possibile, e la sua riduzione a tecnica senza soggettività.

In queste condizioni, la “forma spirituale dell’Europa” non è piú riconoscibile. Alla “teoreticità”, come illimitata tensione veritativa e come vegliante cura del senso nel suo originarsi dalla soggettività vivente, si è sostituita la “pra- tica” delle verità limitate delle tecniche, che modificano quantitativamente lo stile dei nostri gesti quotidiani, ma non li sottraggono alla insensatezza della loro abituale oni- ricità.

Per la filosofia, la quale come “teoreticità” della ragione è l’essenza costitutiva della “forma spirituale dell’Europa”, il pericolo mortale sta nella caduta della tensione. Perciò Husserl avverte che «il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza». È evidente, su queste premesse, che la “euro- peizzazione”, di cui Husserl parla non può consistere nella straripante diffusione dello stile tecnico nella quotidianità e della versione tecnologica del sapere, la qual diffusione è tanto impressionante quanto meccanica, obbediente non allo “spirituale” dovere di verità, ma alla “naturale” volontà di potenza. Di tutto ciò Husserl appare già lucidamente consapevole nel testo del 1935. «Dalla trasformazione del- l’esistenza umana e della comune vita culturale dell’uomo, avviata dalla filosofia, nasce una sovranazionalità di specie completamente nuova», ed è questa appunto la “forma spi- rituale dell’Europa”. Per essa l’Europa «adesso non è piú un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemo- niche, bensí: uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, uno spirito di libertà critica e l’istituzione di norme per un compito infinito, permea l’umanità e crea nuovi infiniti ideali» (p. 336; it. p. 358).

Si tratta di una “sovranazionalità” dell’Europa che, se mai una volta si è realizzata, ora è ancora da avvenire. Essa costituisce il nostro compito comune – di tutti noi che, in quanto uomini già trasformati nel nostro essere storico dalla filosofia, ne avvertiamo l’appello per la restituzione dell’Europa alla sua “forma spirituale”, passaggio neces- sario per la trasformazione del mondo umano mediante la sua europeizzazione spirituale.

La stessa angoscia nichilistica che ha invaso il pensiero novecentesco attesta, come Johan Goudsblom osserva nel suo Nichilismo e cultura, la profonda dipendenza dello spi- rito occidentale dall’ “imperativo di verità”, in quanto appare come l’effetto di estrema frustrazione della impos- sibilità di adempierlo. Ma è evidente che la ragione, la quale nella filosofia è pervenuta all’ “atteggiamento teore- tico”, né può negarsi nel nichilismo, né può autocontrad- dittoriamente fronteggiarlo con una regressiva rinuncia alla sua costitutiva criticità. Essa piuttosto, in quanto con- sapevolezza che la verità è un ideale infinito, pone ogni volta la cultura al riparo dall’autoinganno dommatico e dall’inevitabile conseguenza della demoralizzante frustra- zione.

Se la “forma spirituale dell’Europa” è la filosofia, allora l’Europa nella sua intima essenza reca il rimedio per la sua malattia, la salvezza dalla demoralizzazione nichilistica. Essa è responsabile verso tutte le altre culture, dal momento che in sé medesima reca e la malattia e il potere di guarirla, ed è perciò innanzitutto responsabile verso il suo proprio essere che è l’essere non di un determinato ente, ma dell’infinita ricerca.

I recenti pensieri della decostruzione e della differenza contestano la pretesa di un’“identità” europea. Jacques Derrida, ad esempio, osservando che «il proprio di una cul- tura è di non essere identica a se stessa», cioè «non di non avere identità, ma di non potersi identificare» e di «poter prendere la forma del soggetto solo nella differenza con sé» (L’autre cap, Paris 1991, Minuit; ed. it. Oggi l’Europa, Milano 1991, Garzanti, p. 14), considera «ogni discorso europeo sull’Europa» come «un discorso dell’anamnesi, per il sapore di fine se non di morte che gli perviene», quasi un semplice «programma archeo-teleologico» (ib., p. 24). Per Massimo Cacciari invece lo “spirito europeo” è «l’intelligenza dell’Arcipelago che divide e separa», vale a dire il logos che, «in quanto scelta, connessione, rapporto, presuppone la verità del molteplice» (L’Arcipelago, Milano 1997, Adelphi, p. 9). L’uno contesta all’idea dell’identità europea la pretesa integralistica di assolutezza e l’arro- ganza dommatica di superiorità, l’altro diffida i contempo- ranei dall’utopia di un’Europa come stabile supremazia di un’identità antica riduttivamente unitaria. Ma non espri- mono forse questi rilievi proprio lo spirito della filosofia, dell’“atteggiamento teoretico”, la cui essenza consiste appunto nella criticità, ossia nella consapevolezza della non-unilateralità del vero, della sua non-isolabilità e non- assolutizzabilità, della sua ideale infinità?

Attraverso la filosofia si origina nella cultura europea la sua piú propria differenza, che è il suo sapersi differente da sé, non assoluta nella sua identità, ma bisognosa di rap- portarsi, storicisticamente, alle sue stesse molteplici iden- tità passate e, democraticamente, alle altrui molteplici identità presenti.

Se la filosofia, la quale nacque nella Grecia antica, costi- tuisce come Husserl sostiene, la “forma spirituale dell’Eu- ropa”, allora essere davvero Europei – Europei finalmente adulti – significa non essere eurocentrici.

Dal volume L’Europa oltre l’Europa, a cura di G. Biscaglia, C. M. Risimini e F. Scaringi, che raccoglie gli atti del convegno organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall’Associazione «Basilicata 1799» con il patrocinio del Consiglio Regionale della Basilicata, svoltosi a Potenza dal 27 al 29 novembre 1997.

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 67-80)