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Domani l’Europa

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 39-56)

GIROLAMOCOTRONEO

Università di Messina

Verso la metà degli anni Trenta – il decennio piú cupo della recente storia europea: in Italia il fascismo era saldo al potere; in Germania il nazismo aveva ormai instaurato il suo “ordine”; l’Unione Sovietica viveva uno dei momenti piú cupi dell’età staliniana; in Spagna la repubblica democra- tica sarebbe di lí a poco caduta per mano delle armate ribelli del generale Francisco Franco, sostenuto dai cosid- detti “volontari” di Hitler e di Mussolini, mentre Inghilterra e Francia assistevano impotenti – verso la metà di questo tra- gico decennio, dunque, uno dei maggiori filosofi europei, Edmund Husserl, nel corso di una conferenza dal titolo La

crisi dell’umanità europea e la filosofia, sosteneva che l’Europa

non è, o non è soltanto, «un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensí: uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spi- rito impegnato in un compito infinito che permea tutta l’u- manità e ne crea nuovi e infiniti ideali».

Con queste parole il filosofo tedesco si proponeva di indicare il fattore che aveva consentito a quel gruppo di “nazioni contigue” di esercitare quasi unitariamente, no- nostante le pur grandi differenze esistenti tra di loro, a cominciare da quelle della lingua, un ruolo straordinario, praticamente unico, nelle vicende del mondo, di essere il

grande protagonista della “storia universale”. Questo fat- tore – retrodatando la nascita dell’Europa dall’età del Rinascimento, dove quasi sempre viene collocata, all’età classica – Husserl lo ritrovava nell’opera di «quel paio di greci stravaganti» che avevano dato «l’avvio a una trasfor- mazione dell’esistenza umana e di tutta la sua vita cul- turale», ‘inventando’, per cosí dire, quel sapere specialis- simo che è la filosofia, destinata a diventare «la forma spirituale dell’Europa», l’elemento caratterizzante della sua cultura. Assegnando inoltre alla filosofia, intesa come «sapere disinteressato», quella che definiva una «funzione arcontica», e indicando nei filosofi i «funzionari dell’uma- nità», Husserl finiva con il rivendicare una sorta di primato spirituale dell’Europa nei confronti delle altre nazioni e degli altri popoli della terra, i quali alla nascita e allo svilup- po di quella forma altissima di sapere che è, appunto, la filosofia, erano rimasti estranei.

Le parole di Husserl, la sua “forte” rivendicazione del primato della cultura europea, affondavano certamente le loro radici nel drammatico momento storico che l’Europa attraversava; e volevano essere soprattutto un appello ai popoli europei affinché, nel ricordo di ciò che aveva fatto dell’Europa – di là delle differenze culturali tra i suoi popoli, della sua divisione in Stati nazionali nemici tra di loro – un’entità “spirituale” unica al mondo, riuscissero a esorcizzare i loro demoni, a superare il momento di disagio morale che attraversavano. Scriveva ancora: «La crisi del- l’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto del- l’Europa nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità dello spirito e nella bar- barie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della

filosofia. [...] Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchez- za. Combattiamo questo pericolo estremo, in quanto “buoni europei”, in quella vigorosa disposizione d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Oc- cidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiri- tualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale».

Può darsi, anzi è certo, che queste parole abbiano un suono piuttosto enfatico, non proprio adatto al momento che l’Europa sta oggi attraversando; e non tanto per quel che riguarda le sue vicende interne, che vedono il maggior sforzo di tutta la sua storia per trasformare la sua “essenza”, la sua unità spirituale e culturale, in fatti e istituzioni poli- tici, quanto invece perché, piaccia o meno, è chiaramente in corso nel mondo un processo di de-europeizzazione, o, in senso piú lato, di de-occidentalizzazione. Avremo modo di vedere presto come una delle caratteristiche fondamen- tali dello “spirito europeo” sia stato il suo espandersi, il suo irradiarsi nel mondo intero: un evento che ha provocato un immenso processo di “deculturazione”, come si usa chia- mare l’invasione di una cultura da parte di un’altra che que- sta invasione subisce senza interiorizzarla, perdendo cosí i propri caratteri originari senza acquisirne di nuovi.

Uno studioso francese, Serge Latouche, in un recente volume dal titolo L’occidentalizzazione del mondo, ha scritto che è stata «l’introduzione dei valori occidentali, quella del- la scienza, della tecnica, dell’economia, dello sviluppo, del dominio della natura», a provocare tra i popoli del Terzo

Mondo un vero e proprio processo di “deculturazione”; alla resa dei conti, infatti, l’Europa non avrebbe effettuato alcuno scambio con le altre culture, tentando invece sol- tanto – senza peraltro riuscirvi fino in fondo – di imporre, convinta com’era che fosse l’unico possibile, il proprio modello di “civiltà” alle società presso le quali ha svolto una potente opera di penetrazione culturale ed economica, ottenendo soltanto il risultato di metterle in crisi, appunto, deculturandole. Tuttavia, dice ancora Latouche, se l’Occi- dente, nonostante le premesse da cui il suo viaggio alla conquista del mondo era partito, e delle quali piú avanti avrò occasione di parlare, ha finito con il diventare una «macchina infernale che stritola gli uomini e le culture per fini insensati che nessuno conosce», esso tuttavia non è sol- tanto questo. A prescindere, infatti, «dalla coscienza che può avere un occidentale dei misfatti e dei pericoli dell’Oc- cidente come macchina tecno-economica, gli è impossibile rinunciare a certi valori prodotti dalla civiltà ellenico-giu- deo-cristiana. I diritti dell’uomo e il rispetto della persona umana, come pure il rispetto delle culture e dei diritti dei popoli, fanno parte di questo patrimonio la cui realizza- zione è un obiettivo che non si può abbandonare».

Anche se, come sembra ormai inevitabile, «la post- modernità vede la rinascita di culture diverse», il recupero di antiche culture locali surclassate, ma non mai cancellate dalla cultura europea, queste «non saranno mai piú del tutto come prima», perché in qualche modo alcune idee della cultura occidentale sembrano ormai definitivamente acquisite al patrimonio ideale dell’umanità intera.

Ma di là di tutto questo, rimane il fatto che il sogno della unificazione del mondo sotto un’unica cultura – quella

europea – è ormai definitivamente tramontato. Lo prova non soltanto il mutato rapporto tra l’Europa e i paesi in via di sviluppo; esso trova la sua piú dolorosa conferma nel successo che, ricorda Latouche, incontrano «i movimenti centrati sull’ “identità”», dei quali, ad esempio, il fonda- mentalismo islamico – che individua nell’Occidente il suo nemico storico, il male assoluto – è attualmente «l’illustra- zione piú tipica»; movimenti che compaiono con segni diversi in varie parti del mondo, e, quel che è peggio, si svi- luppano nella stessa Europa, dove «l’ascesa del regionali- smo» e le tendenze centrifughe – si pensi alla disgre- gazione dell’Unione Sovietica, della Cecoslovacchia e soprattutto alla tragedia della ex Jugoslavia; ma anche qui da noi al fenomeno delle “leghe”, o al terrorismo irlandese o basco che mostrano come nemmeno l’Europa per anto- nomasia, quella Occidentale, sia immune da tendenze dis- gregative –; si pensi, dicevo, alle spinte centrifughe che si manifestano in maniera sempre piú vistosa, rendendo quindi attuale non tanto il tema della “identità europea”, quanto invece quello della sua “varietà”. Proprio in rela- zione a questi inattesi fenomeni, Hans-Georg Gadamer, in un volume di qualche anno addietro dal titolo L’eredità del-

l’Europa, ha scritto: «Cadono gli imperi, le vecchie

formazioni statuali vanno in frantumi, ma le forze regionali tornano a nuova vita, scatenando conflitti che appaiono insolubili nel quadro dei vecchi e irrigiditi organismi poli- tici. Con crescente apprensione vediamo il radicale con- trasto con le nuove prospettive dell’integrazione planeta- ria. E d’altra parte, pensando agli aspetti piú oppressivi di questa omologazione, non si può negare che la reazione sia legittima».

Tentare una spiegazione di questo fenomeno quale si manifesta all’interno stesso dell’Europa (il rifiuto ad essa opposto dai vari integralismi nelle aree del sottosviluppo ha altre motivazioni, nascendo soprattutto, come ha ancora notato Latouche, dalle frustrazioni generate «dal fallimento della modernizzazione») non è cosa facile. Forse non del tutto infondata è la tesi – avanzata da uno studioso italiano, Maurizio Ferraris – secondo cui «la crisi dello spirito euro- peo non dipende da un fallimento, ma dal fatto che è riuscito troppo bene, estendendosi su scala planetaria, ossia dipartendosi dal suo luogo d’origine, ma precisamente secondando una volontà universalistica che gli era immanente».

Avrò modo piú avanti di sviluppare quest’ultimo punto. Per quel che riguarda il problema del “regionalismo”, que- sto potrebbe allora significare il recupero dello “spirito eu- ropeo” al suo luogo d’origine, alle “piccole patrie” dalle quali ha spiccato il volo verso orizzonti infiniti, disperden- dosi e perdendosi in essi. In ogni modo, la presenza di que- sto fenomeno, per quanto preoccupante, o forse proprio perché preoccupante, non ritengo debba indurre a rite- nere, come ha detto uno dei piú noti filosofi francesi con- temporanei, Jacques Derrida, in apertura del suo libro Oggi

l’Europa, che «il vecchissimo soggetto della identità euro-

pea» avrebbe ormai «la venerabile antichità di un tema esaurito»; e che «la vecchia Europa sembra avere esaurito le possibilità di discorso e di contro-discorso circa la propria identificazione».

Ritengo invece che chiedersi le ragioni del fallimento del progetto di “occidentalizzazione” del mondo sia un pro- blema ineludibile, ove si voglia rilanciare, non il mito, ma la

realtà dell’Europa nel mondo, sia pure senza pretese politi- che o culturali egemoniche. Come ha detto ancora Gada- mer, «domandarsi che cosa sarà l’Europa domani, o che cosa sia oggi, significa anzitutto domandarsi come l’Europa è diventata ciò che è». A monte, come si usa dire, di quelle ragioni, di quel fallimento sta, infatti, l’idea che l’Europa si era fatta di se stessa, e quindi della sua identità culturale: un’idea che l’aveva, appunto, lanciata alla conquista del mondo. Riflettere su quest’idea, conoscerne la genesi e comprenderne le motivazioni non è certo un’operazione inutile; potrebbe anzi in questo momento, se l’Europa non intende rinunciare al suo ruolo nella storia del mondo, rive- larsi assai importante per una nuova e possibile determina- zione di quello stesso ruolo.

A questo punto occorre ritornare indietro, alla tesi di Hus- serl circa l’essenza dell’Europa, da lui individuata, come si ricorderà, nell’essere l’Europa il luogo dove è nata la filoso- fia, la quale rappresenterebbe il fattore unificante, il retro- terra delle varie forme di sapere da essa prodotte. Ma la sto- ria culturale, o, meglio, spirituale dell’Europa, vede un altro, e forse piú importante fattore di unificazione, quello che le ha fornito la sua autentica dignità: la religione cristiana. Non senza ottime ragioni, nel 1977, in un volume dal titolo In

difesa di un’Europa decadente, Raymond Aron ha ricordato che

Arnold Toynbee «ha scritto da qualche parte che l’Occidente non sfuggirà alla decadenza se non si riconcilierà con la Chiesa cattolica, con la fede che gli ha dato la sua anima» e ha concluso sostenendo che se il grande storico inglese «non si sbagliava, l’Europa, se non tutto l’Occidente, continuerà a scivolare sulla china della decadenza», dal momento che il suo spirito religioso sembra dileguare ogni giorno di piú.

L’interiorizzazione europea del Cristianesimo, una reli- gione venuta dall’Oriente, costituisce certamente il fatto piú rilevante della nostra storia, perché essa ha costituito il vero fattore unificante della nostra cultura. Il solo momento, infatti, in cui l’Europa è apparsa “unita”, si è pre- sentata come una sola entità, è stato quando essa costituiva la Respublica Christiana, sarebbe a dire nell’età medioevale, in quei secoli, cioè, che l’illuminismo settecentesco ha defi- nito, liquidandoli, “oscuri”, e dei quali invece Serge Latou- che ha detto: «Tale periodo presenta ovunque una grande unità culturale per l’Europa, con la cristianità, la lingua latina dei chierici e la doppia figura del papato e dell’im- pero. La politica non è il principio dell’identificazione sociale: questa poggia su basi concrete infinitamente piú ricche e complesse, come le culture popolari, e sull’imma- ginario unificante della religione».

Oserei dire che il nodo di tutto il problema stia proprio qui, nel giudizio, quale che esso sia, sul rapporto tra l’Eu- ropa e la sua religione, in quanto, comunque lo si osservi e valuti, esso spiega le ragioni dell’irradiarsi della cultura europea nel mondo intero, la visione cosmopolita che l’ha sempre accompagnata.

Non intendo certo contestare la tesi di Derrida secondo cui ogni nazione o cultura che mira alla propria espan- sione giustifica i suoi atti sul postulato di rappresentare valori universali, come ha fatto piú volte nella sua storia l’Europa dopo avere interiorizzato il cosmopolitismo – o, meglio, l’universalismo – “cristiano”, dal quale ha tratto l’impulso per partire alla conquista del mondo. Quando il celebre autore di La fine dello spirito europeo, Julien Freund, scrive che «tutta la storia del cristianesimo è segnata dalla

fedeltà al principio originario dell’azione missionaria», e che esso non si è «mai [...] identificato con l’Europa, [...] anche se ha tratto vantaggio dalla conquista dell’Europa per propagarsi nel mondo intero», il quale è stato sempre il suo vero e ultimo orizzonte; quando Freund scrive que- ste parole, dunque, non fa che confermare la tesi che l’e- spansionismo europeo moderno ha la sua ultima radice nell’avere assunto come proprie, identificandosi total- mente e definitivamente con esse, la religione e la cultura cristiana, espansioniste e cosmopolite per vocazione. Da qui, da questa scelta originaria, l’Europa, anche dopo il tra- monto della Respublica Christiana, dopo cioè che la Riforma protestante ruppe l’ultimo legame, quello religioso, che univa tra loro, di là delle ormai consolidate frontiere nazio- nali e barriere linguistiche, i popoli del continente (in spe- cie della sua parte occidentale); da qui, dunque, quella vo- cazione “missionaria” che, nel bene e nel male, ne ha accompagnato la storia, soprattutto nell’età moderna, paradossalmente quando la sua cultura andava sempre piú “laicizzandosi”.

Qui occorre aprire una parentesi. Edgar Morin nel suo

Pensare l’Europa, risalente a pochi anni addietro, ha soste-

nuto la tesi secondo cui proprio a seguito del frantumarsi della Respublica Christiana in piú chiese «sono potute emer- gere quelle realtà originariamente europee che sono gli stati-nazione, l’umanesimo e la scienza, ed è nelle divisioni e negli antagonismi tra gli stati-nazione che si diffonderà e si imporrà la nozione di Europa».

Tutto ciò contiene pure una sua parte di verità, e rende certamente piú difficile “pensare l”Europa”, in quanto è sempre difficile pensare l’unitas multiplex, “l’uno nel molte-

plice, il molteplice nell’uno”; come del resto contiene la sua parte di verità la recente tesi di Gadamer, secondo il quale «l’Europa è sempre stata caratterizzata dalla sua varietà linguistica, che l’ha costretta in ogni tempo alla dura scuola della convivenza. Essa ha cosí conservato la sua molteplicità linguistica e culturale, e la sua tradizione storica è giunta alla propria piena autocoscienza proprio attraverso la ric- chezza dei suoi patrimoni locali».

Tutto ciò, dicevo, contiene delle verità, ma non toglie, a mio parere, che la spinta alla diffusione dei suoi valori, alla conquista del mondo, l’Europa l’abbia trovata nello “spirito del cristianesimo”, anche se, some sto per dire, non in esso soltanto.

I primi protagonisti della “migrazione” della cultura europea sono stati infatti i missionari e gli esploratori, due figure praticamente sconosciute alle altre civiltà. Le moti- vazioni dei primi – la diffusione della “vera” religione – sono del tutto chiare, come è chiaro che essi hanno incon- trato i maggiori successi là dove esistevano culture “deboli”, ad esempio nei paesi africani, I secondi – gli esploratori – nascono da un atteggiamento mentale tipico della nostra cultura, cioè la curiosità intellettuale, il desiderio di cono- scenza (gli stessi elementi che hanno consentito agli euro- pei di “inventare” la filosofia e le scienze della natura). Un atteggiamento che ha radici antiche, quindi, e che trova il suo paradigma nell’Ulisse dantesco, che prima di iniziare il “folle volo” oltre le colonne d’Ercole, di là dei confini del mondo, ai suoi compagni esitanti non promette ricchezze ed onori, esortandoli invece con questo famoso quanto meraviglioso argomento: Fatti non foste a viver come bruti / ma

Di questo carattere congenito della filosofia occidentale, dal quale è stata spinta ad espandersi, si sono fatti interpreti i grandi filosofi del Sette e dell’Ottocento, dai quali è venuto un forte impulso all’eurocentrismo, come nel caso di Kant e di Hegel. Quest’ultimo, che ha fatto dell’Europa – in particolare della cultura cristiano-germanica – il ter-

minus ad quem della storia universale, ha scritto una volta

che lo “spirito europeo” è dominato da una «infinita sete di sapere, che è estranea alle altre stirpi. All’Europeo interessa il mondo, egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’al- tro che gli sta di fronte, vuole porre in luce nelle particola- rità del mondo in genere, la legge, l’universale, il pensiero, l’interna razionalità».

Ma forse ancora piú importante nella storia, ricca di luci ma anche di molte ombre, dell’eurocentrismo, mi sembra una considerazione di Immanuel Kant, che nel 1784, in uno scritto dal titolo Idea di una storia universale da un punto

di vista cosmopolitico, ha espresso un concetto che potrebbe

venire assunto come l’atto di nascita dell’eurocentrismo, il quale, come è noto, si è manifestato soprattutto nel secolo scorso, culminando nell’impresa coloniale. Ha scritto, dun- que, Kant che se si osserva lo sviluppo della storia universale dai Greci fino ad oggi, se si segue il processo di formazione delle strutture statali europee, «si scoprirà un regolare pro- gresso nella costituzione politica del nostro continente (che verosimilmente detterà un giorno leggi a tutti gli altri)».

L’espressione “dettare leggi” non deve essere intesa come l’esercizio di un potere assoluto, l’auspicio, o la pro- fezia, di un dominio politico dell’Europa sugli altri conti- nenti: la convinzione di Kant era che lo jus publicum euro-

coincideva, anzi era esso stesso, il “diritto universale”, del quale prima o poi il mondo intero avrebbe partecipato, dal quale sarebbe stato “unificato”.

La conseguenza di questa convinzione era che l’Europa aveva il compito – il famoso “fardello dell’uomo bianco” – di civilizzare il mondo; impresa alla quale essa si accinse nel secolo diciannovesimo e che, a prescindere dall’esito, si potrebbe dire abbia portato a termine.

Che le cose stiano cosí, che il mondo si sia “largamente occidentalizzato”, assumendo e spesso interiorizzando i fon- damenti dello jus publicum europaeum, lo dimostrano, ha scritto Serge Latouche – che peraltro è un critico assai severo, forse troppo, della società occidentale – «l’esistenza di una Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del- l’Organizzazione delle Nazioni Unite e di un diritto inter- nazionale pubblico e privato i cui ispiratori sono Grozio e Pufendorf».

Sarebbe pura ipocrisia sostenere che il “successo” dello spirito espansionistico occidentale sia dovuto soltanto alla forza di seduzione del suo messaggio etico; ma non può

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 39-56)