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Il pensiero spagnolo del Novecento

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 151-167)

ARMANDOSAVIGNANO

Università di Trieste

Che la Spagna sia stata risparmiata dalla tragedia della seconda guerra mondiale anche se ha dovuto piegarsi ad un’altra sciagura – la dittatura franchista – può ingenerare il sospetto, peraltro infondato, che essa sia rimasta, almeno in parte, anche estranea al complesso travaglio spirituale, specialmente a quel disorientamento della ragione che ha caratterizzato la situazione culturale europea nel primo cin- quantennio del Novecento. Ma per smentire tale fallace impressione è sufficiente richiamarsi ai contributi dei pen- satori dell’esilio (1936-1966) e soprattutto alle figure di Miguel De Unamuno, José Ortega y Gasset e Xavier Zubiri, indubbiamente le tre voci piú originali del genio spagnolo contemporaneo.

Quando si parla di disorientamento e addirittura di eclissi della ragione non si allude solo alla sfera politica, ma anche e soprattutto a quella caduta di certezze che avevano caratterizzato la filosofia nel suo duplice versante: metafi- sico e scientifico. Ciò comporta la crisi non solo della meta- fisica – sia quella del soggetto che dell’oggetto, fino a porre il problema di un superamento di essa –, ma anche della stessa scienza, giacché i suoi princípi, finora ritenuti incon- trovertibili, sono messi in discussione. Anche i valori morali e la stessa certezza del diritto, perlomeno nei loro aspetti

tradizionali, sembrano vieppiú entrare in disuso, perdere di vigenza rispetto al compito fondamentale di orientare la vita individuale e storico-sociale.

Di tale situazione furono, ciascuno in modo affatto pecu- liare, lucidamente e profeticamente consapevoli sia Unamu- no che Ortega e Zubiri. Ma nel Rettore di Salamanca la filo- sofia si traduce, alla fine, in un’accettazione – sebbene mai passiva, perché vive di una tensione inappagabile che investe tutta la personalità – del senso tragico della vita e in un’acce- zione del tutto individuale della fede. Al contrario, con Ortega siamo dinanzi ad una rivolta di fronte ai “falsi” della ragione e della storia, rispetto a cui egli si incarica di sugge- rire nuovi orientamenti della ragione e la ricerca di nuovi valori. In Zubiri, infine, l’esame della situazione intellettuale è sin dall’inizio imperniato sul ‘ritorno alle cose stesse’ prima intuizione della ‘riforma della filosofia’ alla ricerca di una nuova ‘logica della realtà’. Egli, pur impregnato di filosofia classica e scolastica, tuttavia maturò ben presto viva consape- volezza della fecondità – ma anche dei limiti – della fenome- nologia di Husserl, che in seguito superò stimolato dall’on- tologia esistenziale di Heidegger (che frequentò negli anni decisivi dal 1928 al ’31), da cui però si distaccò in nome di una rigorosa distinzione tra ontologia e metafisica ed in con- nessione con quella ‘riforma dell’intelligenza’ (già additata fin dagli anni venti dal maestro Ortega), che approderà alla teoria dell’intelligenza senziente.

Se è indubbio che queste tre figure siano in contiguità sto- rica, che può assumere anche i tratti di una certa continuità in connessione ad un comune orizzonte di preoccupazioni e problemi per la circostanza spagnola ed europea, tuttavia non si può non rilevare, alla fine, una sostanziale ‘disconti-

nuità’. Questa è conseguente all’appartenenza a tre genera- zioni diverse, nel senso tecnico che Ortega (e poi J. Marfas) attribuisce a tale categoria basilare della dinamica storico- sociale: Unamuno è considerato, infatti, il padre spirituale della generazione del ’98, Ortega di quella del 1914 e Zubiri della successiva. Si deve rilevare come la filosofia sia per Unamuno essenzialmente una meditatio mortis, incentrata sul sentimento tragico della vita e sulla risoluzione dell’u- nico problema, l’ansia immortale di immortalità, mediante una concezione ‘agonica’ tra la ragione e la fede, respin- gendo ogni scientismo ed intellettualismo senza incorrere però, come solitamente si è indotti a credere, nell’irrazio- nalismo. Per Ortega, invece, la filosofia è meditatio vitae mediante il metodo ed il sistema della ragion vitale e sto- rica. Lungi dal prospettare una frattura tra ragion storica e metafisica, egli sottolinea l’ineludibilità di quest’ultima quale antidoto allo scetticismo, giacché l’uomo non può vivere senza credenza in una ‘visione del mondo’

(Weltanschauung) al fine di sapere come regolarsi e vivere

meno precariamente. L’avversione al ‘morbo soggettivista’ e la critica alle diverse forme di idealismo e di realismo a partire dalla centrale nozione di ‘essere esecutivo’, per- mette di fondare la realtà radicale della vita umana circo- stanziale. Tutto ciò comporta una disamina critica della genesi e valenza storica della dottrina del conoscere e del- l’essere, la cui idea postula un originario rapporto tecnico- pratico, cioè, vitale, con le cose quali facilità e difficoltà nella mia vita. A livello epistemologico siamo dinanzi all’au- rora della ragion storica, che può rappresentare un valido antidoto per il superamento della crisi del nostro tempo col conseguente rifiuto di ogni attitudine naturalistica sul

piano antropologico ed il definitivo abbandono del ‘terro- rismo dei laboratori’, senza sconfinare, però, in pretese assolutizzanti o utopiche.

In un’epoca che addita il superamento della metafisica, Zubiri la ripropone con rigore ed in modo sistematico richiamandosi alla realtà simpliciter a cui l’intelligenza sen- ziente è strutturalmente aperta. Non meno stimolanti risul- tano le sue vedute antropologiche, secondo cui l’uomo è l’u- nico ‘animale di realtà’ personale, strutturalmente libero, con una dimensione storica ed inconcussamente ‘re-legato’ al ‘potere del reale’. Il mutamento di orizzonte – non piú quello greco, né quello moderno, ma post-moderno – impone all’uomo della nostra èra una riconsiderazione della natura, al fine di ripristinare un adeguato rapporto tra scienza e filosofia; un’attenzione speciale per la storia – senza cadere, però, né nelle avventure storicistiche, né in atteggiamenti poetizzanti (Ortega ed Unamuno rispettiva- mente); infine una ricerca del senso del problema di Dio.

Sia per Unamuno che per Ortega e Zubiri, è la decisiva questione della riforma dell’intelligenza e del ruolo dell’in- tellettuale a far emergere il problema di metodo, statuto e finalità della ragione, che non può essere avulsa dalle impellenze socio-politiche e, in ultima analisi, dalla vita e dalla realtà. In questa prospettiva i temi dell’impegno etico, in favore della pace, di una nuova qualità della vita, l’attitu- dine sulla tragicità o sportività dell’esistenza fino alle piú ardite riflessioni antropologiche e metafisiche non rappre- sentano che altrettante valenze di una rigorosa quanto sovente spregiudicata disamina sul senso e sul ruolo della ‘ragione’ in dinamico e dialettico confronto con la vita nelle sue multilaterali dimensioni.

Alla mentalità utopistica, radical-rivoluzionaria, Ortega oppone la sua complessa visione sociologica e storico-poli- tica con un’indagine che si articola sia in una riforma dell’‘intelligenza’ – consistente nel rifiuto dell’attitudine ‘razionalistica’ ed in un diverso e piú congruo ruolo della missione dell’intellettuale – sia in una piú articolata conce- zione sociologica, che ha nel rapporto minoranze-masse, nella distinzione tra vita inter-individuale e sociale, nella funzione degli usi e credenze, i nuclei affatto originali rispetto alla tradizione sociologica del ‘900.

La ragion storica è l’esatto antidoto di ogni velleitarismo radical-rivoluzionario, dal momento che, in opposizione ai bruschi salti, si richiama alla legge del ‘diritto di conti- nuità’, che è alla base anche del riformismo sociale e libe- ral-democratico. A tal proposito, il filosofo spagnolo adduce ragioni antropologiche ed epistemologiche osservando che l’uomo, a differenza dell’animale, è l’unico essere dotato di memoria – che lo vincola al passato – e di immaginazione, che lo pone in grado, mediante la tecnica, di progettare il futuro senza però rompere la continuità col passato, senza pretendere di voler iniziare sempre, come purtroppo accade all’animale, ab imis, ma inserendosi in una tradi- zione che, tra l’altro, offre il vantaggio di far tesoro degli errori e, perciò, di evitarli [...].

In opposizione agli esasperati nazionalismi che si anda- vano minacciosamente costruendo tra le due grandi guerre Ortega persegue ed incita l’ideale dell’unità europea quale antidoto per la mentalità dell’uomo-massa. Descrivendo la situazione tra gli anni trenta e quaranta, il filosofo spagnolo osserva che: prima si poteva dar aria all’atmosfera chiusa di un paese aprendo le finestre che davano sull’altro paese, ma

ora non serve a niente tale espediente, perché nell’altro paese l’atmosfera è irrespirabile come nel proprio. Di qui la sensazione opprimente di “asfissia”. La super-nazione euro- pea non è un mero ideale, ma è frutto di un «realismo sto- rico che mi ha insegnato a vedere che l’unità dell’Europa come società non è un ideale, ma un fatto di assai vecchia data». Ma è ineludibile precisare che l’unità europea non è una «fantasia, bensí è la realtà stessa, e la fantasia è esatta- mente il contrario: la credenza che Francia, Germania, Italia e Spagna sono realtà sostantive ed indipendenti. Si com- prende tuttavia che non tutti percepiscono con evidenza la realtà dell’Europa, perché l’Europa non è una ‘cosa’, ma un equilibrio. Già nel secolo XVIII lo storico Robertson chiamò l’equilibrio europeo the great Secret of modern Politics. Segreto grande e paradossale, senza dubbio! Perciò l’equilibrio o bilanciamento dei poteri è una realtà consistente essenzial- mente nell’esistenza di una pluralità. Se questa pluralità si perdesse, quell’unità dinamica svanirebbe. Europa è, in effetti, sciame: molte api in un solo volo».

Ma proprio tale equilibrio unitario e dinamico è oggi messo in crisi – nota Ortega – dalla presenza dell’uomo- massa, che è identico «da un capo all’altro dell’Europa»; ad esso si deve il «triste aspetto di asfissiante monotonia che va assumendo la vita di tutto il continente», dal mo- mento che crede di aver solo diritti e nessun obbligo, in una parola è sine nobilitate, snob. Come notava nella celebre conferenza tenuta a Berlino il 7 ottobre 1949, da un’acuta analisi storico-sociale, emerge che la realtà unitaria dell’Europa è un’entità da sempre presente nella storia dell’Occidente e preesiste – quale condizione ineludibile – alle stesse nazionalità, il cui carattere pluralistico non

dev’essere appiattito, in quanto rappresenta l’essenza stessa della super-nazione europea in un organico equili- brio storico-socio-politico. La storia dell’Europa, che è la storia della germinazione, dello sviluppo e della pienezza delle nazioni occidentali, è incomprensibile se non si parte da questo fatto radicale: che l’uomo europeo è vissuto sem- pre, nello stesso tempo, in due spazi storici, in due società, una meno densa, ma piú ampia: l’Europa; un’altra piú densa, ma territorialmente piú ridotta: l’area di ogni nazione e nelle ristrette provincie e regioni che precedet- tero, come forme peculiari di società, le attuali grandi nazioni. Quest’analisi storica può essere espressa in termini sociologici, per cui «la peculiare società che ciascuna delle nostre nazioni è, ha fin da principio due dimensioni. Grazie ad una di esse, vive nella grande società europea costituita dal grande sistema di usi europei che con un’e- spressione per nulla felice sogliamo chiamare la sua ‘civiltà’; grazie all’altra procedura si comporta secondo il repertorio di usi particolari, cioé, specifici».

Sia per la crisi d’identità delle varie nazioni, sia per la presenza di usi, tradizioni, opinione pubblica, diritti eu- ropei, l’unità dell’Europa è un dato ineludibile, in quanto le nazioni europee sono giunte ad un momento in cui si possono salvare solo se riescono a superare se stesse come nazioni, vale a dire se si riesce a rendere vigente l’opinione che «la nazionalità come forma piú perfetta di vita collettiva è un anacronismo, manca di fertilità verso il futuro, è, insomma, storicamente impossibile».

Se è l’intellettuale, o almeno un certo tipo di intellet- tuale, ad essere «sempre dietro le quinte rivoluzionarie», perché è lui in fin dei conti il «professionista della ragion

pura e compie il suo dovere trovandosi sulla breccia anti- tradizionalista», urge un esame del suo ruolo e della sua missione. La quale è, sia di natura “profetica” – nel senso che a lui spetta il compito di anticipare, prevedere, intuire ideali e credenze da proporre alle masse, all’opinione pub- blica ed allo stesso politico –; sia quella di forgiare e pla- smare nuovi valori ed usi da sostituire gradualmente con quelli che inesorabilmente cadono in disuso in una deter- minata epoca storico-sociale. Per realizzare tale duplice fun- zione, l’intellettuale deve praticare l’ascesi, distinguendosi cosí dal politico, uomo d’azione, impegnato nella quotidia- nità impellente di problemi da risolvere. L’intellettuale però non deve separarsi dal politico e dalla società, anzi è la collaborazione tra queste due figure a dar vita a società organiche ed all’altezza dei tempi. Allorché, invece, l’intel- lettuale si identifica o intende sostituire il politico si pro- duce l’imperialismo della ragion pura, che progetta solo costruzioni utopiche e radicalismi rivoluzionari. L’intellet- tuale, progettando utopie e ucronie, intende far felici gli uomini; ma ciò è esattamente l’opposto del suo ruolo, che è quello di stimolare e forgiare l’ethos collettivo. Il piacere che si ricava dalla creazione di mere idee astratte è tale che si dimentica che la missione dell’idea è di riflettere precisa- mente la realtà. La ragion pura allora commette il suo grande peccato: vuole comandare il mondo e disegnarlo a sua immagine e somiglianza. «L’intellighentia non è riuscita a far felici gli uomini e, in cambio, ha perduto nell’impresa il suo potere di ispirazione. Quando si desidera comandare è forzoso violentare il proprio pensiero e adattarlo alla moltitudine. A poco a poco, le idee perdono vigore e traspa- renza, si impregnano di pathos. Nulla causa maggior danno

ad un’ideologia che il desiderio di convertire ad essa le masse. In quest’opera di apostolato il pensiero si allontana dalla sua dottrina iniziale, e alla fine si trova tra le mani una caricatura di questo. Impiegata l’intelligenza in tale com- pito, tanto in contrasto col suo destino cosmico, ha trala- sciato di compiere la sua autentica funzione: forgiare le nuove norme che potrebbero sorgere all’orizzonte nel momento in cui quelle antiche tramontano. Di qui la grave crisi del presente, che si caratterizza non tanto perché non si obbedisce a princípi supremi, ma quanto perché questi ultimi mancano».

È ineludibile, per Ortega, una «ritirata strategica del- l’intellettuale» per svolgere, in solitudine, distaccato dalle quotidiane impellenze, ma non avulso dai problemi socio- politici del suo tempo, la sua preziosa funzione profetica e coagulatrice di nuove norme e credenze che appaiono nel- l’orizzonte storico-sociale. «L’intelligenza è intervenuta su troppe cose perché possa improvvisamente disertare. Ma la nuova traiettoria non presenta dubbi. È necessario tendere a che le minoranze intellettuali espellano dalla loro sfera ogni

pathos politico e umanitario e rinuncino ad essere prese sul

serio – la serietà è la grande patetica – dalle masse sociali. Detto in altri termini: conviene che l’intelligenza cessi di essere una questione politica e torni ad essere un esercizio privato, di cui si occupino persone spontaneamente affini».

Alla proposta di questa «ritirata dell’intelligenza» non sono estranee ragioni di ordine antropologico ed episte- mologico. «L’intelligenza umana è un rischio: non è nelle nostre mani. Ha un carattere di ispirazione, di ispirazione causale e discontinua. Non sappiamo mai se in una certa situazione saremo intelligenti, né se il problema che vo-

gliamo risolvere sarà effettivamente risolvibile per mezzo dell’intelligenza. Non è quindi un habitus nel senso ari- stotelico, qualcosa che si è in un certo modo: essa appare piú come qualcosa che sopravviene, un epifenomeno. In tali condizioni non si deve chiedere che la umanità giochi il suo destino su una carta cosí rischiosa».

All’intellettuale, lasciato in solitudine, ma non avulso dai problemi del proprio tempo, a poco a poco si schiuderà un’importante impresa: il suo ruolo, lungi dall’essere tota- lizzante ed onnicomprensivo, è circoscritto, ma efficace; anzi, ciò che sembra pura contemplazione, si rivelerà con caratteri estremamente pratici. «Ma quando l’uomo resta solo, scopre che la sua intelligenza inizia a funzionare per lui, al servizio della sua vita solitaria, che è una vita senza interessi esterni, ma piena sino all’orlo di interessi intimi. Allora si avverte che la ‘pura contemplazione’, l’uso disin- teressato dell’intelligenza era un’illusione ottica; che la pura intelligenza è anche pratica e tecnica – tecnica della e per la vita autentica, che è la ‘solitudine sonora’ della vita, come diceva san Giovanni della Croce». Come si vede Ortega è ben lungi – pur avendone forse accarezzata la sug- gestione – dal condividere la celebre affermazione plato- nica secondo cui o i filosofi diventano re o i re diventano filosofi, pur assegnando una missione fondamentale all’in- tellettuale. L’intellighentia, dunque, non deve aspirare a «comandare, né a salvare gli uomini. Non è questa la forma in cui può essere utile nel pianeta. Non è ponendosi al primo rango nella società al modo del politico, del guer- riero, del sacerdote, che compirà meglio la sua missione, bensí, al contrario, celandosi, oscurandosi, ritirandosi su linee sociali piú modeste».

A differenza dall’altro grande vate della Spagna, Miguel De Unamuno, ci sembra di poter affermare che l’attitudine di Ortega dinanzi alla guerra civile, nelle condizioni difficili in cui fu costretto ed anche scelse di vivere, manifestano un profondo travaglio, ma anche feconde intuizioni in sintonia con le sue peculiari vedute sulla ragion vitale e storica. Infatti, la sua diagnosi del fenomeno della massificazione, il rifiuto delle velleità rivoluzionarie che rompono il diritto alla continuità, le critiche al politicismo integrale, la riforma dell’intelligenza ed il conseguente ruolo dell’intel- lettuale nei fatti politici e sociali, l’ideale dell’Europa unita, ci sembra costituiscano ancora oggi altrettanti contributi e stimoli alla stessa sociologia e filosofia politica, sebbene lo sguardo di Ortega non fosse distolto anche dalla tragica cir- costanza del suo paese. Pur tra errori, esitazioni e dubbi, forse il significato ultimo dell’attitudine orteghiana ci sem- bra da ricercarsi proprio in uno sforzo per trascendere le tragiche situazioni in cui gli toccò di vivere per elevarsi ad elaborazioni in qualche modo piú generali e, perciò stesso, ancora oggi, forse, attuali e stimolanti, tanto piú che certe sue prospettive costituiscono tutt’ora un impegno ed un compito per la stessa generazione del nostro tempo, con speciale riferimento al suggestivo tema dell’unità europea.

Dal volume: Armando Savignano, Radici del pensiero spagnolo del

Novecento, pubblicato nella collana “Il pensiero e la storia” dell’Istituto

Italiano per gli Studi Filosofici presso le edizioni La Città del Sole, Napoli, 1999.

Fra i primi a cogliere lo spirito che anima l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici fu il professor Yvon Belaval della Sorbona, che nel 1982 scriveva: «A Napoli accade qualcosa di veramente nuovo. Nell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici credevo di trovare un istituto come gli altri. Invece no: ho trovato un “istituto libero”. Un istituto libero? Sí, e disinteressato. Non si viene all’Istituto per fare carriera. Studenti selezionati, mossi da una sincera inclinazione per la filosofia, decidono di seguirne le conferenze e le lezioni, messa da parte ogni preoccupazione interessata, o vanità mondana. I pro- grammi dell’Istituto spaziano dall’antichità ai giorni nostri, e non c’è problema troppo arduo che si trascuri, purché degno d’essere affrontato».

Belaval proseguiva la sua analisi rilevando lo spazio dato dal- l’Istituto all’espressione nelle varie lingue europee: «L’Istituto Ita- liano per gli Studi Filosofici è libero e disinteressato: persegue la ricerca del vero, perciò merita di denominarsi “per gli Studi Filoso- fici”, è filosofico anche se si considera l’aspetto della comunicazione. La lingua degli scienziati è ormai l’inglese, e non c’è di che scan- dalizzarsi: il latino e il francese hanno avuto i loro giorni di gloria, quando vigeva - potremmo aggiungere - una vera civiltà letteraria. Ai nostri giorni l’uso dell’inglese s’impone non solo per la superio- rità economica o politica di un paese del mondo, ma perché l’ inglese è la lingua della tecnologia, che prevale sulle discipline umanisti-

Nel documento Trent'anni di presenza nel mondo (pagine 151-167)