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come ho già accennato, si può ritenere la legittimità costi­ tuzionale dei giudici speciali che, come le commissioni tributarie,

CASA EDITRICE DOTT. ANTONINO GIUFERÈ - MILANO

L’ESTIMAZIONE SEMPLICE (*)

E, come ho già accennato, si può ritenere la legittimità costi­ tuzionale dei giudici speciali che, come le commissioni tributarie,

esistevano già prima dell’entrata in vigore della Costituzione : in questo senso, infatti, ha ripetutamente deciso la Corte Suprema (42). Per il futuro, poi, si è predisposto addirittura, a fianco del progetto di riforma del contenzioso tributario, un progetto di legge costitu­ zionale onde confermare il giudice speciale della materia tributaria

(e non ce ne sarebbe stato bisogno, come pure ho già detto). La seconda alternativa (per cui la cognizione piena del giudice ordinario nelle materie attribuite alla sua competenza, sarebbe, per l’articolo 113, regola assoluta, insofferente di eccezioni) non sembra sicura.

L’art. 113, e in specie il suo secondo comma (per cui la tutela dei diritti e degli interessi dinanzi agli organi di giurisdizione or­ dinaria amministrativa « non può essere esclusa o limitata a

parti-(42) Cfr., ad esempio, Sez. Un., 17 febbraio 1954, n. 402 e 403, in Okir.

com pì. Cass. c iv ., 1953, VI, 746 ss., con nota di Giannattasio, A n co ra sulla leg ittim ità d elle d ecision i d elle giu risd izion i sp ecia li d opo il 1» gen naio 195S,

ove ampi richiami di dottrina e giurisprudenza; si veda anche, proprio in tema di commissioni tributarie, Sez. Un., 31 ottobre 1955, n. 3572, ancora ine­ dita sul punto.

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colari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti »), può ben essere inteso nel senso che diritti ed interessi debbono rice­ vere sempre, rispetto a tutti gli atti e sotto tutti i profili in cui possono presentarsi, una tutela giurisdizionale : senza che, tuttavia, questa tutela debba provenire necessariamente dall’uno o dall’altro organo di giurisdizione. Sicché, nel caso in cui la cognizione di al­ cuni diritti (quelli relativi alle questioni di estimazione) venga bensì sottratta al giudice ordinario, ma ad un tempo affidata ad un giu­ dice speciale, il comando costituzionale può ritenersi osservato (43). Con ciò non si vuol negare che ogni giudice abbia una sua com­ petenza normale, e che questa s’imponga pertanto come naturale in tutti i casi in cui nulla di diverso risulti dalla legge: si vuol soltanto affermare la legittimità costituzionale della legge ordinaria che stabilisca eccezioni a tale competenza normale, assicurando ugual­ mente una tutela giurisdizionale al cittadino.

Neppure sembra decisivo l’altro rilievo del Miele, per cui, posto che il processo dinanzi al giudice ordinario abbia carattere di gra­ vame rispetto a quello dinanzi alle commissioni, la tutela giurisdi­ zionale dovrebbe mantenersi unitaria, ossia di identica estensione ed intensità in tutto il giudizio ; in specie, non potrebbe essere mi­ nore proprio davanti al magistrato ordinario, che è il giudice na­ turale dei diritti soggettivi.

Senza bisogno di entrare nel merito della questione se, de iure

con d ito, sussista tale rapporto di gravame fra i due processi, si può

obbiettare che la regola di cui sopra non è assoluta, tanto che vi sono moltissimi esempi di giudizi che hanno sicuramente il carat­ tere del gravame nell’ambito di un unico processo, e che tuttavia

(43) Cfr. Guarino, op. cit., col. 112, 11 quale, In tesi generale, ritiene che l’ art. 113 regoli 1 rapporti fra giurisdizione e amministrazione, e non fra giu­ risdizione ordinaria e speciale, e in questo senso ricorda anche Mortati, Le giurisdizioni speciali eco., in Ross, di dir. e tecnica doganale, 1954, p. 9 del­

l ’estratto, e Sandu lli R ., Sui limiti del ricorso in Cassazione, in Foro it.,

1953, I, 60. Sostanzialmente conforme al testo, sembra anche, nonostante un accenno apparentemente diverso, Barile, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, p. 194 ss. L ’ Allorio, Fatto ed estimazione, cit.. col. 422.

in polemica col Cocivera, Sui limiti di competenza, cit., col. 923 ss. e Sui li­ miti di giurisdizione, cit., col. 411 ss., nota che, adottando la tesi per cui la

Costituzione vorrebbe deferite in modo esclusivo al giudice ordinario le con­ troversie relative a diritti soggettivi, si dovrebbe, fra l ’altro, ritenere la so­ pravvenuta incostituzionalità della giurisdizione esclusiva delle giunte pro­ vinciali e del Consiglio di Stato : simile rilievo lascia perplessi, perchè, da un lato il corollario è testualmente resistito dall’ art. 103, 1“ comma della Costi­ tuzione, e, dall’altro, questa norma potrebbe considerarsi come eccezione al principio.

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sono a cognizione limitata (basta pensare al giudizio di Cassazione) ; se, quindi, la legge espressamente prevede, come nella nostra ma­ teria, dei limiti (senza, d’altronde, violare il principio dell’art. 113 della Costituzione), non v’è che da prestarle osservanza.

Mi sembra, così, di poter concludere che, nel settore in cui, oltre all’azione giudiziaria, è aperta anche la via del ricorso alle commissioni, l’esclusione della competenza del giudice ordinario per le questioni di fatto, ivi comprese quelle di estimazione in senso proprio, è ammissibile, e in specie non contrasta con l’art. 113 della Costituzione (44).

21. L ’ accertam ento « arbitrario » ; il relativo sin dacato, com e g iu ­

dizio di legittim ità e n on di estim a zion e; com petenza del g iu ­ dice ordinario.

Resta da esaminare, in ultimo, una categoria di controversie che sono nella pratica assai frequenti e che tuttavia non mi risulta abbiano avuto una illustrazione adeguata, nè in dottrina, ne in giu­ risprudenza.

Specie in materia di imposte dirette (ricchezza mobile, utili di contingenza) e di imposta sull’entrata, accade talora che la polizia tributaria sia portata, nella non facile opera che essa esplica contro le evasioni fiscali, a segnalare all’amministrazione finanziaria la sus­ sistenza di fatti generatori di imposta, sulla base di generiche in­ formazioni o di presunzioni che essa ritiene di poter desumere in­ direttamente da fatti accertati ma, in realtà, non univoci. Accade altresì che gli uffici finanziari, e a volte le stesse commissioni, pre­ stino fede completa a tali segnalazioni, così che il contribuente può venire a trovarsi nella difficile situazione di dover lottare contro un attacco evanescente, che sfugge alla possibilità di precise contesta­ zioni e prove contrarie.

Lungi da me il proposito di sostenere che sempre, in codesti casi, l’opera della polizia tributaria, degli uffici finanziari, delle com­ missioni, sia sostanzialmente ingiusta. Chi vive la pratica dei rap­ porti fra contribuenti e finanza, sa bene che spesso il senso di insod­ disfazione che si avverte di fronte alle prove raggiunte dalla polizia e dagli uffici riguarda più che altro il lato formale, tutto inducendo

(44) Cfr., specificamente in termini, Giannini a. D.,7i contenzioso trib.

a ritenere che la inadeguatezza delle prove derivi assai più dall’abi­ lità simulatrice dell’evasore, che da un’effettiva inesistenza di red­ dito di entrata, ecc.

Tuttavia, queste situazioni si verificano, e, senza dire che tal­ volta esse contraddicono veramente la giustizia sostanziale, ne sca- t urisce un problema che attiene al nostro argomento : quando, invero, il contribuente si rivolge al giudice ordinario, vede regolarmente opporglisi la eccezione di difetto di giurisdizione perchè, afferma la Finanza, l’esame circa 1’esistenza del cespite (reddito, entrata) at­ tiene all’ estimazione.

Ho sopra sostenuto che, quando v’è possibilità di ricorso alle commissioni, l’autorità giudiziaria non ha competenza in ordine alle questioni di fatto, e in specie all’accertamento dell’esistenza del cespite; non è quindi restringendo l’estimazione alla sola valuta­ zione quantitativa dell’ imponibile, che ritengo si possa contrastare detta tesi della Finanza.

Da un diverso punto di vista, tuttavia mi sembra che la compe­ tenza del giudice ordinario possa, in dette situazioni, essere affermata. Per introdurre il discorso, osserviamo un fenomeno veramente peculiare : quello per cui i controlli di merito si tramutano in con­ trolli di legittimità, quando i vizi di merito assumono un aspetto grave, e, sopratutto, palese; tale, cioè, da rendersi manifesto senza bisogno che, all’organo chiamato ad eseguire il sindacato, occorra ripetere per conto proprio il giudizio che è contenuto nell’atto sul quale il sindacato stesso si esplica. È questa, in certo senso, una sottigliezza : ma è una sottigliezza che sta alla sommità di un pro­ cesso storico attraverso il quale si è pervenuti, nella legislazione ed ancor più nell’interpretazione giurisprudenziale, a forme sempre più penetranti di controllo dell’attività amministrativa; ed è una sottigliezza che, verosimilmente, costituisce una contromisura ri­ spetto ad altre sottigliezze adoperate dal potere esecutivo. Il quale, per sua stessa natura, è in genere portato a cercar di sottrarsi ai controlli, e specie a quelli degli altri poteri : e quando non potendo procedere apertamente, nasconde la sostanza delle cose sotto una veste che formalmente dovrebbe impedire il sindacato giurisdizio­ nale, anche questo si fà più duttile e sottile, sì da raggiungere il risultato della tutela del cittadino contro le illegalità, pur coperte, dell’amministrazione. La storia dell’eccesso di potere è lo specchio fedele di tale fenomeno.

tutti i vizi degli atti amministrativi sono vizi di illegittimità, o che anche l’ ingiustizia manifesta, il travisamento dei fatti, e via di­ cendo, toccano il merito. La legge, invero, non può prevedere e con­ sentire se non atti in tutto regolari ; e quindi, ogni atto che in qual­ che modo si allontani dal binario segnato, è contrario alla legge. D’altronde, in sè stessa l’ingiustizia manifesta non è diversa da quella non manifesta, ed il travisamento dei fatti non incide, ad esempio, nell’atto in modo difforme da come può operare quello che potrebbe chiamarsi il travisamento ideologico (interpretazione fa­ ziosa dei fatti, in sè fedelmente riportati e tenuti in conto).

Ma il diritto, almeno nel suo stadio attuale e presso di noi (certi fenomeni non sono ovviamente immanenti), coglie in un punto il pas­ saggio dall’empirico al giuridico, dal merito alla legittimità, rispetto al settore che qui interessa : nel carattere palese del vizio (che pur si trovi sul piano del merito).

Ed il motivo di ciò è da ritenere essenzialmente questo : che tale carattere palese consente di svolgere il sindacato dall’esterno, senza uopo di sostituirsi all’amininistrazione per ripercorrere dall’interno l’itinerario che l’ha condotta all’emanazione dell’atto viziato.

Precisando maggiormente, si può osservare che quando il vizio è palese, si rende effettivamente possibile un giudizio di natura di­ versa da quello di merito : si può, infatti, accertare che l’amministra­ zione ha agito irregolarmente (adopero, in questo momento, un ter­ mine volutamente generico), e tuttavia non occuparsi di quale sia la vera situazione di fatto e tanto meno di sostituire un diverso ed autonomo apprezzamento a quello compiuto dall’amministrazione. Ciò non avviene quando il vizio non è scoperto, perchè allora oc­ corre, per valutare se esso esista, addentrarsi nell’accertamento dei fatti e nella loro valutazione: occorre, in una parola, quel che si suol chiamare il giudizio di merito.

Che poi il sindacato in esame sia, oltre che diverso da quello di merito, propriamente qualificabile come sindacato di legittimità, non lo dobbiamo valutare in astratto, sulla base di significati aprio­ risticamente attribuiti alle parole: lo dobbiamo apprezzare con ri­ guardo al diritto positivo. E così la risposta non può essere che affer­ mativa, perchè dall’eccesso di potere in varie sue figure (contraddit­ torietà o inadeguatezza della motivazione dell'atto, illogicità, ingiu­ stizia manifesta), al ricorso in Cassazione per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della contro­ versia (art. 360, n. 5 cod. proc. civ.), al gravame dinanzi

all’auto-— 97 all’auto-—

rità giudiziaria ex art. 29, 3° comma del decreto n. 1639 del 1936 (« per

grave ed eviden te errore di apprezzamento ovvero per mancanza o

insufficienza di calcolo nella determinazione del valore »), è tutta

una gamma di esempi, la cui importanza è inutile sottolineare, dai quali emerge che il nostro diritto positivo considera come giudizi di legittimità quelli nei quali, senza compiere in via autonoma l’ac­ certamento e la valutazione dei fatti, ci si limita a controllare dal­ l’esterno se l’organo che ha proceduto all’apprezzamento di merito lo abbia compiuto correttamente (45).

Ora, se esiste un principio generale per cui è lecito, ed anzi do­ veroso, distinguere fra il giudizio di merito vero e proprio e quello che, pur avendo ad oggetto la materia che attiene al merito, si svolge con un semplice controllo estrinseco, e se questo secondo tipo di giudizio ha, per il nostro diritto positivo, carattere di legittimità, ciò può ben valere anche nel caso dell’accertamento di imposta effet­ tuato dalla Finanza in base ad informazioni generiche ed incontrol­ labili o a presunzioni fondate su elementi equivoci.

Posto che sia appropriato chiamare « arbitrario » l’atto inqui­ nato da contraddizione ed illogicità palesi, o non assistito da un’ade­ guata giustificazione (almeno) apparente, il principio di cui sopra si può brevemente esprimere dicendo : nel nostro ordinamento giu­ ridico l’atto arbitrario è un atto viziato di illegittimità. E sembra che molto bene si adatti la qualifica di « arbitraria » all’ imposizione in esame.

Poiché, d’altronde, sappiamo già che la posizione del cittadino che contesta Van del debito d’imposta è una posizione di diritto sog­ gettivo, la conclusione sgorga immediata : non esistono ostacoli alla cognizione del giudice ordinario, nelle controversie di cui il contri­ buente contesti l’arbitrarietà dell’imposizione, fondata su elementi inidonei a dimostrare la effettiva esistenza del cespite, tutte le volte che questa inidoneità emerga palese dagli atti di causa (dalla moti­ vazione dell’ingiunzione fiscale o dell’avviso di accertamento, dalle

(45) Veramente sintomatiche, a conforto di quanto si osserva nel testo, sono varie decisioni della Commissione Centrale, nelle quali sembra farsi strada l’idea per cui la mancanza di adeguata argomentazione in fatto costituisce vizio di legittimità delle decisioni delle commissioni provinciali : cfr., ad esem­ pio Comm. Centr., 9 giugno 1940, n. 20952; id. Sez. Un., 3 maggio 1945, n. 74152; id. 2 maggio 1946, n. 82032; id. 7 febbraio 1948, n. 95316, tutte menzionate nella Rassegna di giurisprudenza del Bo z z e t t i, in Riv. dir. fin. so. fin., 1952, I, p. 282, 283, 284; vedasi, inoltre, id. 9 ottobre 1951, n. 27900, in Qiur. imp.

dir. reg. neg., 1953, 306.

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informative della polizia tributaria, ecc.), senz’ uopo di compiere in via autonoma la ricerca e la valutazione dei fatti. Non v’è l’ostacolo, per così dire, interno, del difetto di diritto soggettivo; non l’osta­ colo esterno, dell’incompetenza sulle questioni di fatto, perchè il giudice non indaga sul punto se il cespite esista, ma si limita a verificare se l’amministrazione abbia essa raggiunto una prova ade­ guata dell’esistenza del cespite stesso. Diritto soggettivo e carattere di legittimità dell’indagine ben si addicono al giudice ordinario.

F iren ze, U n iversità.

R E C E N S I O N I

Gustavo Del Vecchio, Gapitale e interesse, Torino, Einaudi, 1956, pp. 8 + 504,

Nella presentazione dell’opera l ’illustre economista scrive: «P e r quanto strano possa apparire a primo aspetto, una teoria scientifica, quando è stata formulata In modo perfetto, è pronta per essere superata. Sino a che è esposta in forma vaga e confusa, riesce a comprendere anche fatti, con i quali a rigore poi si dimostra incompatibile e può evitare di essere tratta a conseguenze che non sono accettabili, perchó non corrispondono alle nuove esperienze con le quali la teoria di continuo deve mettersi alla prova. . . . Cosi è avvenuto per il concetto di capitale e per la teoria dell’interesse. Alla fine del primo decennio del secolo, questo capitolo della teoria economica aveva raggiunto una formulazione per la quale poteva essere messa pari con la rendita ricardiana e costituire un altro dei pilastri del grande edificio della scienza economica in costruzione, in quanto si disponeva di una teoria statica dell'interesse da af­ fiancare alla teoria statica della rendita ». I problemi della prima guerra mon­ diale e poi quelli della egualmente imprevista crisi monetaria del 1928-32 — continua il Del Vecchio — determinano un rivolgimento nella mentalità del più acuti osservatori di fatti economici: molti economisti si dedicarono, an­ ziché allo sviluppo della teoria esistente, alla costruzione di ipotesi e collega- menti teorici per interpretare i fatti. La teoria veniva considerata definitiva­ mente acquisita. I fatti che essa non riusciva a spiegare, erano considerati di natura del tutto eccezionale e transitoria : una volta tornati alla pretesa nor­ malità i fatti avrebbero potuto essere interpretati con le teorie raffinate degli economisti seguaci del Bohm Bawerk e del Fisher. Fra la fine della grande crisi e la seconda guerra mondiale, furono tentate strade nuove : particolar­ mente da Keynes.

Ma, continua ancora il D. V., « l’opera insigne del Keynes, come fu poi ripetutamente dimostrato, non ha rappresentato una nuova soluzione del pro­ blema generale dell’economia, anche se ha fornito due contributi importantis­ simi a questa soluzione: una nuova logica probabilistica della teoria econo­ mica e una teoria particolare del rapporto che passa fra domanda e offerta, correlativa e opposta a quella degli economisti classici ». Il punto di vista assunto in questi saggi del D.V., di cui pure molti risalgono a un quaran­ tennio or sono, si conserva originale, rispetto a questi indirizzi vecchi e nuovi e consente delle spiegazioni teoriche che risultano assai penetranti.

In particolare, questo mi sembra specialmente per la concezione centrale della « teoria dell’interesse » (1915), le cui proposizioni essenziali sono le se­ guenti :

_ il risparmio non è principalmente funzione del saggio dell’interesse; _il calcolo economico non è l’elemento principale del risparmio, nè un suo elemento perturbatore come tendenza assegnabile;

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— l’abitudine è fattore essenziale dell’aecumulaztone, come abitudine al consumo e come abitudine al risparmio;

— il risparmio risulta immediatamente dal conflitto fra il desiderio della ricchezza e il sacrificio della astinenza. Tale conflitto non è capace di una formulazione rigorosa. Lo stesso risulta per il risparmio negativo (ossia l ’in­ debitamento dell’unità di consumo);

— l'abitudine è coefficiente essenziale per la determinazione di questi ele­ menti in conflitto e perciò del comportamento individuale in confronto al ri­ sparmio.

— in una ipotetica economia statica il saggio di interesse si commisure­ rebbe alla produttività marginale del tempo, cioè all’incremento marginale del prodotto corrispondente al prolungamento dei processi produttivi;

— le variazioni concrete dell’interesse si spiegano con variazioni nella produttività del tempo, con vicende monetarie, con progressi nella unificazione dei vari mercati e non con valutazioni psicologico-marginali ;

— le variazioni nella produttività marginale del tempo operano attraverso i fatti chiamati domanda e offerta nel mercato dei prestiti e investimento capitale ;

L’ampia visione della teoria dell’accumulazione del capitale, che cosi il D.V. traccia è suggestivamente separata, per un verso dalla teoria dell’inte­ resse, mentre dall’altro mostra i nessi di dipendenza della seconda dalla prima, attraverso la domanda e offerta di prestiti e l'investimento di capitale. Il D.V. insiste molto sui moventi dell’accumulazione, nel tempo, considerando le sva­ riate ragioni che rendono scarsamente penosa la « astinenza » dal consumo, o molto grande il desiderio della ricchezza, e sui fatti oggettivi che favori­ scono il rapido formarsi o il decadere degli accumuli di capitali. L’incremento del reddito, in un ambiente in cui i bisogni non si sono ancora trasformati, in relazione al nuovo stato, rende quasi automatico il risparmio; l ’entrata in campo dei nuovi ricchi esercita un effetto avverso sull’accumulo di capitali dei vecchi, non solo perchè ne diminuisce la posizione relativa inducendo a mag­ giori spese dimostrative per salvaguardarle, ma pure perchè svaluta quella assoluta, con la concorrenza di domande nuove per consumi di lusso, che ne fanno salire i prezzi ecc.

Questa teoria del D.V. mi sembra molto importante per la teoria degli effetti delle imposte sul risparmio, poiché può condurre a rovesciare ad esempio la tesi tradizionale che i tributi progressivi sul reddito o quelli sui sovrapro- fltti danneggino la formazione del risparmio, riducendone gli incentivi. Se l’accumulo di capitali dipende da fattori diversi dal movente psicologico del livello del tasso di interesse e se su esso gioca il divario fra incrementi di reddito e abitudini di tenore di vita, queste imposte possono esplicare effetti favorevoli sul risparmio, riducendo le spese dimostrative dei ricchi e dei nuovi ricchi, che possono spostare i concetti correnti riguardo al volume e alla qua­ lità dei consumi ritenuti necessari per raggiungere lo standard medio di be­ nessere o uno di quelli superiori, nella graduatoria sociale.

Ma questo è solo uno dei fecondi spunti e delle ampie impostazioni che la lettura delle acute pagine del D.V. offre, anche per la teoria e la politica finanziaria. Un altro motivo di riflessione offerto dalla costruzione teorica del