• Non ci sono risultati.

Alla base dell’ opinione sopra riferita sta spesso un concetto inespresso : che la finanza degli enti pubblici minori abbia

CASA EDITRICE DOTT. ANTONINO GIUFERÈ - MILANO

2. Alla base dell’ opinione sopra riferita sta spesso un concetto inespresso : che la finanza degli enti pubblici minori abbia

carat-(2) Pubblicata in molti periodici, v. Foro it., 1954, I, 1065; Oiur. it., 1954, I, 1, 1675.

(S) La questione investe infatti, e talora per più specie di proventi, i 7.500 comuni, i 2.000 consorzi di bonifica, le migliaia di altri consorzi, gli enti comunali e provinciali per il turismo, le province, le camere di commercio, oltre cbe quasi tutti gli enti nazionali.

— 6

tere unitario sotto l’aspetto giuridico. A suffragio è stata talora invocata la nozione, di origine economica, di parafiscalità (4) : lo Stato, affidando ad enti nazionali delle funzioni e dei servizi pub­ blici, attribuisce loro insieme potere di prelievo di denaro nei con fronti degli amministrati.

Or chiunque si avvede che questa descrizione del fenomeno è giuridicamente troppo imprecisa, per poter servire a qualificazioni giuridiche. Le attività dalle norme affidate agli enti pubblici sono giuridicamente di specie diversissima. Vi sono degli enti pubblici i quali agiscono tutti e solo nel campo dell’attività industriale e . commerciale, come p. es. delle banche, delle società finanziarie, de­ gli imprenditori minerari, ecc. Altri i quali svolgono attività di duplice natura, e cioè un’attività industriale e commerciale, e un’attivià che, per usare un termine di comodo, possiamo dire non di diritto privato comune : l ’Ufficio italiano cambi fa il cambia­ valute e gestisce un monopolio di Stato, la Banca d’Italia fa la banca e regola la moneta dello Stato; l’ I.M.I. fa la società finan­ ziaria, e cura imprese private per cause di interesse pubblico, ecc. Vi sono poi enti pubblici i quali svolgono attività la cui natura pubblica è evidente, perchè si manifesta atraverso atti ammini­ strativi.

I proventi di questi enti si possono dunque, ad un esame ele­ mentare e di prima approssimazione, raffigurare come corrispettivi in contratti privati, come corrispettivi in rapporti retti da norme speciali, o infine come entrate derivanti da poteri di imposizione.

Ammesso che si possa utilizzare la nozione di parafiscalità, dove se ne fa cadere il discrimine? È evidente che se essa coincide con tutte le entrate dell’ente pubblico, sotto l’aspetto giuridico non serve a nulla. Ma se la si fa coincidere con le entrate a titolo di imposizione, oppure la si porta al limite delle entrate a titolo com­ mutativo, che cosa ci darebbe di più di quel che già si conosce dalla scienza del diritto tributario in ordine ai tributi dello Stato?

Si deve dunque ammettere, e anzi lo si può fissare quale punto di fondo, che le entrate degli enti pubblici minori sono classificabili con gli stessi sistemi ed entro le stesse categorie con cui sono clas­ sificabili le entrate dello Sato. In concreto avremo quindi : imposte,

(4) Morselli, Le finanze degli enti pubblici non territoriali, Padova 1943;

Id., La formula finanziaria, Arch. fin., 1950, 231; Bitscema, Considerazioni sulla parafiscalità e sul suo controllo, Riv. poi. ec., 1956.

tasse, tributi speciali, corrispettivi di prestazioni di diritto speciale, corrispettivi di prestazioni di diritto privato comune.

La finanza degli enti pubblici minori, ammesso e non concesso clie sotto l’aspetto economico possa presentarsi con dei caratteri unitari, sotto quello giuridico è differenziata come quella statale, Occorre quindi caso per caso esaminare i caratteri giuridici di cia­ scuna entrata, ossia regolarsi proprio così come ci si regola in presenza di una qualunque entrata dello Stato.

Riterrei altresì che l’ unità giuridica delle entrate degli enti di cui parliamo non si può costituire neppure in ordine al controllo che sugli enti stessi è esercitato da organi dello Stato. Il principio organizzativo enunciato dall’art. 100, comma, della Costituzione, giusta il quale la Corte dei conti partecipa al controllo sulla ge­ stione finanziaria di alcuni enti, riguarda esclusivamente gli enti sovvenzionati dallo Stato (5). Or non tutti gli enti pubblici minori sono sovvenzionati dallo Stato, mentre, inversamente, sono tali anche enti aventi indiscutibile natura giuridica privata.

Tralasciamo altri aspetti relativi alla portata e all’ambito del principio organizzativo espresso dall’art. 100, perchè non diretta- mente pertinenti al nostro tema ; interessa a noi mostrare che, mal­ grado gli sforzi egregiamente motivati in contrario (6), sarebbe, quanto meno allo stato del nostro diritto positivo, azzardato voler scorgere nell’enunciativa della norma formulata all’art. 100 il fon­ damento del controllo della parafiscalìtà.

3. Quasi mai il legislatore si preoccupa però di definire la na- Itura dell’entrata dell’ente pubblico nazionale. Le denominazioni che

esso usa sono generiche : diritti, canoni, più spesso contributi. Tut­ tavia l’uso di quest’ultimo vocabolo ha ingenerato nella pratica un’opinione strana, che dobbiamo subito rimuovere : che le entrate relative siano qualche cosa di diverso dalle entrate dovute al mag­ gior ente pubblico, cioè allo Stato, ovvero agli enti pubblici minori aventi un più antico potere tributario, come gli enti pubblici terri­ toriali.

In realtà il vocabolo « contributo » trova quasi sempre una

ra-(5) Franchini, Natura e limiti del controllo sugli enti sovvenzionati dallo Stato, Riv. trini, dir. puh., 1954, 480; O. Sepe, Il controllo della Corte dei conti sugli enti sovvenzionati, Nuova Rassegna, 1955, 1668.

— 8

gione pratica nella volontà del legislatore di non impegnarsi nella definizione della natura giuridica del provento. A questo è da ag­ giungere una ragione storica. Vi fu un periodo di tempo in cui nella nostra dottrina si propose di chiamar contributi tutti quei proventi aventi carattere incerto, in parte simili alle imposte in parte alle tasse. Non essendo i caratteri di questa categoria esattamente deter­ minati, ne venne che si giunse a denominare contributo ogni pro­ vento di diritto pubblico la cui natura non fosse chiaramente defi­ nita all’origine.

Oggi la categoria dei tributi incerti è scomparsa, ma ha acqui- ' stato fisionomia definita la categoria dei tributi speciali, alla quale molti circoscrivono il vocabolo di contributi : si tratta di prestazioni dovute da coloro che ritraggono un utile economico individuale o individuabile per effetto dell’esplicazione di un’attività amministra­ tiva di carattere generale, sia che tale utile si concreti in un vantaggio al patrimonio del soggetto, sia che si concreti in un vantaggio alla

\ impresa (7).

Vi saranno pertanto entrate di enti minori le quali appartengono alla categoria dei tributi speciali o contributi in senso proprio, ma non già che tutte le entrate di tali enti a detta categoria si ascri­ vano.

1. L’art. 23 Cost. enuncia nella sua forma moderna un antico principio costituzionale : la riserva di legge per le prestazioni reali e personali che i pubblici poteri possono imporre ai cittadini. Ma occorre pur dire che il più preciso contenuto del principio è incerto, nel senso che mentre vi è quel che si potrebbe dire un nucleo centrale della materia investita dal principio su cui tutti sono d’ accordo e cioè quanto riguarda le prestazioni attinenti alla principale categoria di tributi, data dalle imposte, rimangono invece indistinte le zone marginali : da un lato il più preciso concetto di prestazioni, in ispe- cie di prestazioni personali; dall’altro la più precisa figura della ri­ serva di legge.

Vediamo dapprima quest.’ultima. È anch’essa un istituto poco studiato, indipendentemente dalle applicazioni che riceve. È dubbio se essa si possa considerare una garanzia (costituzionale). Comunque,

(7) Con altra enunciazione, questa è però la tesi dominante : A. D. Gian­

— 9 —

descrittivamente, essa può dirsi una specie del genere « riserva di normazione » (8), che si esprime in una norma sulla normazione e sulla produzione normativa la quale vincola il potere di disciplina normativa di una determinata materia all’uso di un solo tipo di atto normativo con esclusione degli atti normativi subordinati, ovvero all’ uso di un solo tipo di norma, con esclusione delle norme di or­ dine ulteriore. La riserva di legge sarebbe così una norma sulla pro­ duzione normativa attinente agli atti aventi forza di legge e alle norme primarie. Sotto l’aspetto oggettivo essa si potrebbe considerare un fatto di legittimazione a legiferare ; sotto quello soggettivo si po­ trebbe profilare come un limite al legislatore in funzione di tutela di particolari posizioni giuridiche fondamentali del cittadino.

Detto ciò, non è tuttavia che si è completato il quadro della ri­ serva di legge. La riserva di legge infatti, in sede teorica e in sede positiva (e il nostro diritto positivo appunto ne è una riprova), si può porre con forza diversa. Esistono cioè più specie del genere riser­ va di legge, diiferenziate tra loro a seconda dell’ampiezza dell’azio­ ne riservata al legislatore primario. In proposito la dottrina ritiene di poter già individuare due specie di riserve (9). Nella prima la ma­ teria riservata può esser disciplinata solo da norme primarie, onde è esclusa, e sarebbe illegittima, la disciplina mediante norme seconda­ rie (regolamenti) (l’illegittimità di una disciplina mediante atti am­ ministrativi deriva, nel nostro caso, non tanto dall’art. 23, ma dal principio di legalità degli atti amministrativi). Nella seconda, la ma­ teria riservata è meno ampia : non si richiedono sempre e comunque norme primarie, ma è sufficiente un atto normativo primario che contenga la disciplina generale della materia stessa. Sicché in essa la garanzia impropria viene strumentata mediante diverso congegno : la presenza e l’ esistenza dell’atto normativo primario segnano un limite di contenimento delle possibili norme secondarie, le quali non

(8) Esistono però anche altre riserve. In sede dogmatica ogni attività giu­ ridicamente rilevante può formare oggetto di riserva, e quindi anche la giu­ risdizione, l ’amministrazione e le attività atipiche.

(9) Pur non esistendo monografie di specie, la distinzione è comunemente accettata; sulla riserva, la preferenza di legge e le figure finitime v. comun­ que Esposito, La validità della legge, Padova 1934, 146; Bodda, I regolamenti degli enti autarchici, Torino 1932, 158 ; Balladore-Pallieri, Diritto costitu­ zionale, Milano 1953, 312; G. Ferrari, Oli organi ausiliari, Milano 1956, 158;

specificamente per la materia tributaria, G. Treves, op. cit., 14; Forte, op. cit., 276.

potranno mai contrastare con il disposto delle norme primarie, ma d’altro lato è accresciuto il margine libero del legislatore primario, il quale può lasciare lo sviluppo della materia alla più semplice e più facile disciplina regolamentare, così come può attribuire in ordine ad essa poteri sostanziali all’autorità amministrativa.

Talché, in concreto, la differenza tra quella che si potrebbe dire riserva di norma primaria e quella che si potrebbe dire riserva di atto normativo primario (oppure solo di legge in senso proprio?) viene ad essere tutt’altro che lieve. Nella prima solo il legislatore primario ha il potere di regolare la materia, e ciò che non è da esso regolato resta libero ; nella seconda invece il legislatore primario, allorché ha provveduto, ha assolto al suo compito, e, sempre che la norma da lui dettata si tenga nell’ambito della legittimità costituzio­ nale, ciò che esso non regola può essere regolato da altre autorità alle quali sia stato attribuito uno specifico potere.

Che l’art. 23 Cost. accolga il secondo tipo di riserva di legge, si direbbe pacifico. Tanto la scrittura del testo (« in base alla legge »), quanto la tradizione dottrinale in cui il principio si è inquadrato, quanto infine il sistema nel quale l’enunciativa del principio soprav­ veniva e del quale era rivolta ad eliminare gli inconvenienti, mo­ strano che si tratta di riserva di atto normativo primario, e non già di riserva di norma primaria (o, come si dice anche, riserva della i legge e non già riserva di legge) (10).

Alla stregua del principio costituzionale, la legge in materia • tributaria, così come ogni altra legge in materia di prestazioni perso­

nali o reali (11) è legittima ogni qualvolta la prestazione (nella spe­ cie la prestazione tributaria) sia configurata dalle norme della legge*

t con sufficiente d eterm in a tezza , o, per converso, non sia attribuita ad! autorità amministrative una discrezionalità di portata talmente am­ pia da permettere alle medesime di alterarne, in sede applicativa, la natura (12).

Rendere concreto il discrimine della sufficiente determinatezza : (10) È del resto noto che la dizione « in base alla legge » fu introdotta in luogo di quella «per legge», di cui al progetto, dall’Assemblea costituente (15 aprile 1947, Disc. 2866).

(11) Salvo che esse non formino oggetto di particolare riserva di nonna primaria.

(12) Un esempio di legge in materia di prestazioni personali incostitu­ zionale per indeterminatezza si sarebbe avuto nel noto progetto sulla difesa civile.

— 11 —

ecco il tema da studiare. Che la legge tributaria debba determinare la natura giuridica del tributo e la sua struttura fondamentale è ovvio ; che debba rigorosamente indicare i soggetti passivi e i sog­ getti ausiliari dell’obbligazione è altresì ovvio ; in ordine ai pre­ supposti, la legge tributaria dovrebbe quantomeno disciplinare di­ rettamente i presupposti necessari ; maggior latitudine si direbbe in­ vece sussista relativamente all’oggetto del tributo, alle aliquote, agli atti dei procedimenti di accertamento e di imposizione, nonché alla riscossione. Tuttavia anche nella maggior latitudine che può lasciare alTamministrazione nella determinazione degli elementi rimasti in­ determinati, il legislatore primario dovrebbe sempre indicare dei criteri, anche in modo implicito, che segnino dei limiti all’uso della discrezionalità deH’ainministrazione : altrimenti la norma da lui posta è viziata perchè apre l’adito a prestazioni che dell’ « esser fon­ date sulla legge » hanno l ’apparenza ma non la sostanza.

5. Abbiamo così fissato le proposizioni che formano la base di