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L'Accessus e l'epistola a Cangrande

Capitolo IV. Boccaccio commentatore della Commedia Introduzione

2. Le Esposizioni sopra la Comedia di Dante

2.1. L'Accessus e l'epistola a Cangrande

L'Accessus all'opera è rilevante per ciò che Boccaccio esprime su Dante e sul poema. Prima di chiedere aiuto nell'invocazione a Dio (4-5) e dopo avere dichiarato che ogni azione umana giunge a perfetto compimento solo con l'aiuto della grazia divina (1- 2), l'autore usa il topos dell'umiltà nel definire il suo intelletto troppo debole per l'impresa che si appresta a svolgere:

“conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno piccolo e la memoria labile, e spezialmente sottentrando a peso molto maggiore che a' miei omeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso testo, la moltitudine delle storie e la sublimità de' sensi nascosi sotto il poetico velo della Comedìa del nostro Dante, e massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacità, come universalmente solete esser voi, signori fiorentini” (Accessus 3)

quale, sotto il velo di numerose storie, si nascondono significati sublimi degni di “uomini d'alto intendimento”. Essa è l'emblema del concetto di poesia affine alla teologia teorizzato negli ultimi due trattati delle Genealogie secondo cui il compito dei poeti consiste nel proteggere tramite la corteccia letterale verità importanti che, se fossero a immediata disposizione di tutti, verrebbero degradate.

Successivamente, seguendo il modello canonico del medievale accessus ad auctorem, Boccaccio affronta tre aspetti dell'opera: le cause (§ 7-12, 27-41), il titolo (13-26), la filosofia di appartenenza (42). Qui entra in gioco l'epistola a Cangrande, ampiamente utilizzata dagli esegeti della Commedia senza fare riferimento ad una possibile paternità dantesca (tranne Andrea Lancia e Filippo Villani). La questione dell'autenticità è dibattuta ma certamente Boccaccio ne lesse almeno la seconda parte relativa al commento del poema e se ne servì –secondo Padoan– senza sapere che potesse essere di mano dell'Alighieri35. Jenaro-MacLennan e Forni sostengono invece che egli la ritenesse dantesca, il secondo rifacendosi allo studio di Azzetta secondo cui in Firenze, avanti il 1344, l'epistola era nota interamente e veniva attribuita a Dante36. A mio avviso è difficile conciliare questa teoria con il fatto che Boccaccio quando traduce passi dell'epistola non la cita mai come fonte e non le conferisce l'autorevolezza che dovrebbe avere se la ritenesse di mano del medesimo autore della Commedia. Inoltre se l'avesse considerata frutto dell'auto-esegesi di Dante, non avrebbe sostenuto per alcuni argomenti delle opinioni che da essa divergono: nelle prossime righe si vedrà che egli propone come più conforme alla volontà dell'autore un titolo del poema differente da quello che compare nell'epistola, così anche sullo stile ci sono delle divergenze essendo per Boccaccio “ornato e leggiadro e sublime” (nonostante sia in volgare) mentre secondo lo scritto latino è “dimesso ed umile” proprio perché composto nella lingua materna (§ 31)37.

Nell'epistola la Commedia è considerata un'opera polisemica, avente cioè due sensi: uno prodotto dalla lettera, l'altro dai significati che essa sottende. Il primo è definito letterale, il secondo –che può essere di tre tipi (allegorico, morale, anagogico)– è definito generalmente allegorico (20-22). Questa distinzione viene operata anche nel Convivio (II I 2-8), ove il senso letterale è

35 G. PADOAN, Boccaccio, Giovanni, cit., p. 647.

36 L. JENARO-MACLENNAN, The Trecento commentaries on the Divina Commedia and the Epistle to

Cangrande, Clarendon Press, Oxford 1974, pp. 105-123; L. AZZETTA, Le chiose alla “Commedia” di Andrea Lancia, l'epistola a Cangrande e altre questioni dantesche, in «L'Alighieri», 22, 2003, pp. 5-76; G. FORNI, Dante e la struttura del Decameron, in «Studi sul Boccaccio», cit., pp. 64-71.

37 Di questa epistola si citano il testo e la traduzione della seguente edizione: D. ALIGHIERI, Epistola a

“quello che non si stende più oltre che la lettera delle parole fittizie, sì come sono le favole dei poeti”;

l'allegorico è il significato veicolato ma non espresso direttamente dal testo:

“è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna”;

il morale ha la valenza di insegnamento edificante per il comportamento degli uomini:

“è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti”;

e l'anagogico è il significato spirituale che riguarda la vita eterna:

“è quando spititualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria”.

Nel trattato Dante fa intendere che le Sacre Scritture e la poesia, pur condividendo questo insieme di significati, sono differenti: il senso letterale della prima si basa su verità storiche, quello della seconda è invece fittizio. L'autore nello spiegare le canzoni del Convivio dimostra che i quattro sensi non sono sempre presenti (tranne il letterale), anzi il morale e l'anagogico sono piuttosto rari.

Nell'epistola a Cangrande vengono poi definiti i due significati della Commedia: quello letterale riguarda la situazione delle anime dopo la morte, quello allegorico consiste nei meriti e demeriti che l'uomo acquista dedicandosi alla virtù o al peccato (23-25). Lo scritto passa in rassegna gli aspetti che caratterizzano “ogni opera dottrinale” (18): soggetto, forma, titolo, agente, fine, filosofia. Essi sono tutti trattati da Boccaccio nell'Accessus ove soggetto, forma, agente (autore) e fine sono definiti rispettivamente causa materiale, formale, efficiente, finale. Nella loro descrizione l'autore si rifà completamente all'epistola, fornendo per alcuni luoghi delle vere e proprie traduzioni (evidenziate tramite il corsivo):

“Hiis visis, manifestum est quod duplex oportet esse subiectum circa quod currant alterni sensus. Et ideo videndum est de subiecto huius operis prout ad litteram accipitur; deinde de subiecto prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et

“La materiale [causa] è, nella presente opera, doppia, così come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima cosa: per ciò che altro suggetto è quello del senso litterale e altro quello del senso allegorico [...]. È adunque il suggetto, secondo il senso litterale, lo stato dell'anime dopo la morte de' corpi semplicemente preso, per ciò che di quello, e intorno a quello, tutto il processo della presente opera intende; il suggetto secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio meritando e

puniendi obnoxius est.” (23-25)

“Forma vero est duplex: forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est triplex, secundum triplicem divisionem. Prima divisio est, qua totum opus dividitur in tres canticas. Secunda, qua quelibet cantica dividitur in cantus. Tertia, qua quilibet cantus dividitur in rithimos. Forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus et descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc

diffinitivus, divisivus, probativus,

improbativus, et exemplorum positivus.” (26-27)

“Agens igitur totius et partis est illus qui dictus est” (38)

“dicendum est breviter quod finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis.” (39)

dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire obligato.” (Accessus 7-8)

“La causa formale è similmente doppia, per ciò ch'egli è la forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro: la prima divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione e quella secondo la quale ciascuno canto si divide in rittimi. La forma o vero il modo del trattare è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e transuntivo; e, con questo, difinitivo, divisivo, probativo, reprobativo e positivo d'essempli.” (9-10) “La causa efficiente è esso medesimo autore Dante Alighieri, del quale più distesamente diremo appresso, dove del titolo del libro parleremo.” (11)

“La causa finale della presente opera è: rimuovere quegli, che nella presente vita vivono, dallo stato della miseria allo stato della felicità.” (12)

Per quanto riguarda il titolo, Boccaccio riporta che molti credono esso sia “Incomincia la Comedìa di Dante Alighieri fiorentino” (così anche nell'epistola) ma egli giudica conforme alla “'ntenzione dell'autore” quello usato da altri: “Incominciano le cantiche della Comedìa di Dante Alighieri fiorentino” (Accessus 13). Rispetto alla lettera a Cangrande che pone nel titolo l'epiteto riferito a Dante “florentini natione, non moribus” (28), l'autore delle Esposizioni ha inevitabilmente soppresso la seconda parte in quanto poco prima aveva definito i concittadini “d'alto intendimento”. Nonostante – scrive Boccaccio– molti disapprovino questa titolazione per un'opera che ha argomenti e stile ben diversi da quelli di cui si servono i poeti comici, egli la accetta considerando la tipica definizione dei generi medievali secondo cui la commedia ha un inizio triste ed un finale lieto, come si legge nelle Magnae Derivationes di Uguccione da Pisa. Secondo Boccaccio l'Alighieri scelse tale titolo soltanto tenendo presente l'andamento generale della commedia e non i suoi caratteri particolari (24-26). Prima di giungere ad approvare il titolo, il nostro commentatore passa in rassegna gli aspetti per i quali il sacro poema si oppone alla commedia: l'argomento importante (18), lo stile “sublime” (19), il parlare in prima persona (20), le numerose digressioni rispetto al tema principale (21), la storia che è una verità della “catolica fede” consistente nell'assegnazione della dannazione o della gloria eterne rispettivamente a chi muore nel peccato o nella grazia

divina (22). Anche qui vengono riprese alcune definizioni dell'epistola a Cangrande:

“sciendum est quod comedia dicitur a 'comos' villa et 'oda' quod est cantus, unde comedia quasi 'villanus cantus'.” (28)

“ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant.” (31)

“Comedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comediis.” (29) “Et per hoc patet quod Comedia dicitur presens opus. Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et fetida est, quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis et grata, quia Paradisus” (31)

“Dicono adunque primieramente mal convenirsi le cose cantate in questo libro col significato del vocabolo, per ciò che «comedìa» vuole tanto dire quanto «canto di villa», composto da «comos», che in latino viene a dire «villa», e «odòs», che viene a dire «canto»: e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse materie [...]; a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose narrate in alcuna parte della presente opera, ma sono di persone eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e virtuosi, degli effetti della penitenzia, de' costumi degli angeli e della divina essenzia. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e rimesso, acciò che alla materia sia conforme; quello che della presente opera dire non si può, per ciò che, quantunque in volgare scritto sia, nel quale pare che comunichino le feminette, egli è nondimeno ornato e leggiadro e sublime, delle quali cose nulla sente il volgare delle femine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il peso delle parole volgari, ch'egli non fosse più artificioso e più sublime molto, per ciò che molto più d'arte e di gravità ha nel parlare latino che nel materno.” (18-19)

“E così, acciò che fine pognamo agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo libro nome di «comedìa». Né si può dire non essere stato della mente dell'autore che questo libro non si chiamasse «comedìa», […] esso medesimo nel XXI canto di questa prima cantica il chiami Comedìa, dicendo:

Così di ponte in ponte altro parlando, che la mia Comedìa cantar non cura etc. Che adunque diremo alle obiezioni fatte? Credo, con ciò sia cosa che occulatissimo uomo fosse l'autore, lui non avere avuto riguardo alle parti che nelle comedìe si contengono, ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato, figurativamente parlando. Il tutto della comedìa è, per quello che per Plauto e per Terrenzio, che furono poeti comici, si può comprendere, che la comedìa abbia turbulento principio e pieno di romori e di discordie e poi l'ultima parte di quella finisca in pace e in tranquillità. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro presente: per ciò che egli incomincia da' dolori e dalle tribulazioni infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale hanno i beati in vita eterna.” (24-26)

(“muliercule”), presente tanto nell'epistola quanto nelle Esposizioni e anche nella II egloga di Dante (vv. 52-53): essa stupisce alla luce degli elogi nel Convivio, delle teorie espresse sul volgare illustre nel De vulgari eloquentia e della difesa che Boccaccio ha compiuto per la scelta linguistica della Commedia nel carme Ytalie iam certus honos, nel Trattatello e nell'epistola a Jacopo Pizzinga. Bisogna rilevare però un cambiamento da parte del Certaldese sulla scia dell'influenza petrarchesca, dimostrando (come visto alle pp. 69, 101-102, 174) già nelle Genealogie una riserva sulla lingua utilizzata nel capolavoro dantesco. Nelle Esposizioni viene esplicitato quello che nell'opera erudita era rimasto inespresso: il poema sarebbe stato migliore (“più sublime molto”) se scritto in latino, essendo lingua con “più d'arte e di gravità” rispetto al volgare, cioè più elegante ed autorevole (Accessus 19).

Boccaccio ritorna poi sulla causa efficiente che aveva lasciato in sospeso e fornisce un profilo biografico dell'autore, rifacendosi alle informazioni raccolte nel Trattatello. Egli spiega la necessità, non solo per la Commedia ma per tutte le opere, di conoscere “la vita e' costumi e gli studi” degli autori per capire se i loro scritti siano degni di fede (28). Come nel Trattatello, Boccaccio delinea la vita del poeta trattando la nobile origine, gli studi compiuti in Firenze che lo portarono ad un completo dominio del sapere (arti liberali, filosofia morale e naturale, poesia, storiografia), le distrazioni esercitate dalla passione amorosa e dagli incarichi politici, l'esilio, il soggiorno a Parigi dedicato alla filosofia e alla teologia, la morte sopravvenuta mentre si trovava a Ravenna, la mancata laurea tanto desiderata (29-35). Sui costumi di Dante l'autore sorvola, dicendo che quanto fossero “laudevoli” lo ha già dimostrato in “un trattatello” scritto “in sua laude” (36). Prima di concludere la sezione dedicata alla biografia, Boccaccio prende in esame la stretta correlazione tra il carattere di Dante e il suo nome, secondo il principio medievale del nomina consequentia rerum: il poeta, come dice lo stesso nome che non gli è stato dato a caso ma “per disposizione celeste” (38), tramite la sua opera “con liberale animo dona di quelle cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio” (37). Si noti la seguente affermazione: Dante ha messo a disposizione degli altri “questo suo singulare e caro tesoro”, ossia la Commedia e il suo sapere, “nel quale parimente onesto diletto e salutevole utilità si truova da ciascuno che con caritevole ingegno cercare ne vuole” (37)38. È il medesimo concetto espresso chiaramente nel

38 “diletto” e “utilità” sono gli stessi beni che si possono trarre anche dal Decameron: “cento novelle

[…] delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare” (Proemio 13-14).

Decameron (Conclusione 8-11)e che vedremo sottinteso nel commento all'episodio di Paolo e Francesca: è del lettore la responsabilità di trarre il meglio da ciò che l'opera letteraria può fornire e questo può avvenire solo se egli è mosso da un'onesta predisposizione d'animo. Secondo Boccaccio, l'autore della Commedia fornisce una prova della consapevolezza che il proprio nome derivi “per divina disposizione” facendolo pronunciare da Beatrice e da Adamo. La prima nel verso 55 di Pd XXX si rivolge direttamente al poeta: “Dante, perché Virgilio se ne vada / non pianger anco”. Il commentatore svolge l'interpretazione del passo, anticipando quali sono i significati allegorici da attribuire alle due guide del poema: qui Beatrice, che rappresenta la “sacra teologia” (“dalla quale si dee credere ogni divino misterio essere inteso”), sostiene che Dante può procedere nella comprensione delle cose divine senza l'aiuto di Virgilio, metafora della “ragione delle cose terrene” (40), ossia della ragione umana che senza fede non può giungere alla conoscenza di Dio.

L'ultimo aspetto da analizzare della Commedia è il tipo di filosofia a cui essa appartiene: anche in questo caso viene tradotto un brano dell'epistola a Cangrande dove l'opera viene completamente assegnata all'ambito della filosofia morale o etica. Boccaccio tiene fede a questo principio nel corso della sua analisi: infatti cifra caratterizzante delle Esposizioni è l'appiattimento del significato allegorico ad un ambito morale, tralasciando altre componenti dell'opera come quella politica, profetica e metaletteraria. Era stato comunque costretto in questa direzione dai motivi ufficiali per i quali venne organizzata la lettura pubblica, ossia rimuovere i vizi e spingere gli uditori alla virtù.

“Genus vero phylosophie sub quo hic in toto et parte proceditur est morale negotium sive ethica, quia non ad speculandum sed ad opus inventum est totum et pars. Nam si in aliquo loco vel passu pertractatur ad modum speculativi negotii, hoc non est gratia speculativi negotii, sed gratia operis” (40-41)

“La terza cosa principale […] è a qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale, secondo il mio giudicio, è sottoposto alla parte morale, o vero etica: per ciò che, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo, non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagione dell'opera, la quale quivi ha quel modo richesto di trattare.” (42)

Dopo la presentazione generale dell'opera e dell'autore, Boccaccio dedica ampio spazio alla descrizione della struttura dell'Inferno facendo ricorso a numerose fonti: le Sacre Scritture, Omero, Virgilio, Stazio, Seneca, Pomponio Mela, Fulgenzio, Uguccione da Pisa (44-73). Si allontana così dal testo dantesco per fornire un resoconto dettagliato di tutto ciò che egli sa sull'argomento, da come è considerato il regno infernale nei testi

sacri a come è stato descritto dai poeti classici, dando anche interpretazioni allegorico- morali ai testi di questi ultimi39. L'autore fornisce qui un'anteprima del metodo d'indagine che caratterizza tutte le Esposizioni: numerosi argomenti e personaggi danno il via alla stesura di ampi compendi –benché non necessari all'esegesi della Commedia– basati su fonti bibliche e classiche, sia per un gusto per l'enciclopedismo sia forse per ricostruire quali furono le letture dantesche.

Le ultime righe dell'Accessus sono dedicate ad una questione sulla quale Boccaccio meditava da anni: la lingua del sacro poema. Premettendo che molti “litterati uomini” si chiedono il motivo per cui un poeta tanto dotto si sia servito del volgare per un'opera così “laudevole” alla quale meglio si addiceva il latino, il commentatore risponde che non ci sono dubbi su due caratteristiche dell'Alighieri: la sua erudizione, soprattutto in fatto di poesia, e il desiderio di fama. Proprio per questo iniziò a scrivere la Commedia in latino, ma successivamente si rese conto che gli uomini potenti a cui essa era diretta non conoscevano la lingua dei classici in quanto da tempo avevano abbandonato gli studi “liberali” e “filosofici”. Non volendo che la sua poesia finisse soltanto nelle mani di “uomini plebei e di bassa condizione” (come è successo a quella virgiliana che è ignorata da “eccellenti uomini” perché non più compresa) e che venisse fatta tradurre dai principi40, Dante decise di adottare il volgare (74-77):

“Di che gli parve dovere il suo poema fare conforme, almeno nella corteccia di fuori, agl'ingegni de' presenti signori, de' quali se alcuno n'è che alcuno libro voglia vedere e esso sia in latino, tantosto il fanno trasformare in volgare; donde prese argomento che, se vulgare fosse il suo poema, egli piacerebbe, dove in latino sarebbe schifato.” (77)

La posizione qui assunta da Boccaccio è lontana da quella del carme Ytalie iam certus honos e della I redazione del Trattatello che, come si vedrà, dedica una parte all'argomento. Il progetto dantesco di mostrare il valore e la bellezza della lingua

39 Si vedano ad esempio le interpretazioni di Cerbero e Minosse: “E di questo inferno sentono i poeti co'

santi, fingendo questo inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione, dicono a