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I commenti danteschi del Trecento

Capitolo IV. Boccaccio commentatore della Commedia Introduzione

1. I commenti danteschi del Trecento

Il successo della Commedia è documentato sia dall'imponente tradizione manoscritta sia dai numerosi commenti composti a partire dalla morte di Dante lungo tutto il XIV secolo (e in numero inferiore durante il XV), anch'essi oggetto di un'ampia diffusione come quello di Jacopo della Lana oggi attestato in un centinaio di codici17. Imprescindibili per chi vuole affrontare l'argomento della prima esegesi del poema sacro sono gli studi di Bellomo dai quali traggo le informazioni generali qui di seguito riportate per contestualizzare il lavoro interpretativo boccacciano18. Tra i commentatori trecenteschi più noti vanno ricordati i figli dell'Alighieri Jacopo e Pietro che scrissero rispettivamente un commento all'Inferno in volgare (1322) e uno all'intero poema in latino redatto in tre redazioni (1340-1364)19, i bolognesi Graziolo Bambaglioli (1324) e Jacopo della Lana (1324-1328), Guido da Pisa (autore di un commento in due redazioni la prima delle quali avanti il 1333), i fiorentini Ottimo (1334) e Andrea Lancia (1341- 1343), il napoletano Guglielmo Maramauro (1369-1373), i pubblici lettori Boccaccio Benvenuto da Imola (1379-1383) e Francesco da Buti (1396), Filippo Villani (1391- 1405). Si tratta di intellettuali, alcuni dei quali poeti e scrittori, che avevano un certo prestigio sociale: Graziolo era cancelliere, Pietro Alighieri giudice, Lancia notaio, Maramauro funzionario regio, Benvenuto professore di grammatica.

La scelta linguistica trova le sue ragioni nella provenienza geografica degli esegeti: nella maggior parte dei casi i toscani composero il loro commento nell'idioma materno, mentre gli altri –che sono la più parte– optarono per il latino. Bellomo evidenzia che la scelta del volgare non ha alcuna connessione con “un livello culturale depresso”

dal XIV al XX secolo, tomo I, cit., pp. 279-283.

17 Indicatori dell'immediato prestigio di Dante sono anche i versi scritti in occasione della morte e gli

aneddoti trecenteschi sulla sua fortuna popolare: questi ultimi non sono certo testimonianze di verità storica ma sono comunque segno della percezione che si aveva del poeta. Si veda G. PAPARELLI, Dante e il Trecento, in Dante nel pensiero e nella esegesi dei secoli XIV e XV, Atti del Congresso nazionale di studi danteschi (Melfi, 27 settembre – 2 ottobre 1970), Leo S. Olschki, Firenze 1975, pp. 31-70.

18 S. BELLOMO, La Commedia attraverso gli occhi dei primi lettori, in Leggere Dante, a cura di L.

Battaglia Ricci, Longo Editore, Ravenna 2003, pp. 73-84; id., L'interpretazione di Dante nel Tre e nel Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XI La critica letteraria dal Due al Novecento, Salerno Editrice, Roma 2003, pp. 131-159; id., Dizionario dei commentatori danteschi. L'esegesi della «Commedia» da Iacopo Alighieri a Nidobeato, cit. Si vedano anche G. PAPARELLI, Dante e il Trecento, cit.; A. VALLONE, Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, tomo I, cit.; P. RIGO, Commenti danteschi, in Dizionario critico della letteratura italiana, vol. II, diretto da V. Branca, Utet, Torino 1986, pp. 6-22.

19 Indizio segnala però che “La questione della paternità di (almeno) tre redazioni oggi note è, anche a

parere di chi scrive, ben lungi da una risoluzione soddisfacente. L'identità d'autore oggi comunemente accolta è semplicemente un'ipotesi, cui sarà ragionevole conformarsi finquando non saranno esperite indagini più approfondite”: G. INDIZIO, Pietro Alighieri autore del «Comentum» e fonte minore per la vita di Dante, in «Studi danteschi», LXXIII, 2008, p. 200.

dell'autore o con l'intento di indirizzare il commento ad un pubblico poco istruito20. Per quanto riguarda i luoghi in cui gli esegeti operarono, in un primo momento fu al di fuori di Firenze poiché gli argomenti politici della Commedia erano ancora sentiti attuali nella città dell'Alighieri. Il primo commento qui composto risale al 1334: fu infatti dagli anni Trenta che la partizione tra Guelfi e Ghibellini venne progressivamente meno. Dalla metà del secolo in poi non ci fu più alcun imbarazzo, tanto che un grande sostenitore di Dante quale Boccaccio muoveva nelle sue opere aspre critiche a Firenze per non avere riconosciuto il valore poetico ed umano dell'esule.

Gli esegeti sopra elencati sono tutti autori di commenti veri e propri. Fra di essi sono quelli di Guido da Pisa e di Boccaccio ad avere la struttura più complessa: il primo per tutti i canti offre una parafrasi in latino del testo a cui fa seguire il commento, il secondo divide la spiegazione di ogni canto in due parti (l'esposizione letterale ed allegorica). Ci sono però anche altre tipologie di esegesi, come le rubriche che nei manoscritti anticipano ogni canto, i capitoli in versi che riassumono il contenuto delle cantiche, le chiose marginali, i proemi strutturati secondo gli accessus ad auctores come l'epistola a Cangrande.

Anche se ogni commentatore ha le proprie peculiarità legate alla formazione e agli interessi culturali, ci sono delle caratteristiche che accomunano i primi lettori della Commedia. Nonostante facessero riferimento all'epistola a Cangrande che ascriveva il poema al campo della dottrina morale, essi consideravano Dante un filosofo e la sua opera una summa enciclopedica depositaria di ogni sapere, non sbagliando in ciò dato che si tratta di un poema didattico in cui è dispiegato “un patrimonio ingente di conoscenze scientifiche”21. Gli esegeti da un lato tesserono le lodi di sapiente dell'Alighieri, dall'altro però furono scettici per quanto riguarda la scelta del genere e del titolo: di qui derivano delle espressioni finalizzate a riqualificare lo stile dell'opera, come “alta Comedìa” coniata dal figlio Jacopo ma ampiamente utilizzata anche da altri22. Il sacro poema divenne oggetto di studio anche nell'ambito delle lezioni universitarie che da un lato sancirono l'auctoritas dantesca ma dall'altro usavano il testo come punto di partenza per affrontare trattazioni di vari argomenti, riducendo quindi l'importanza degli aspetti letterari dell'opera.

La questione dell'improprietà del volgare per un'opera dai contenuti filosofici e morali nacque con Giovanni del Virgilio e proseguì con Petrarca e gli Umanisti.

20 S. BELLOMO, Dizionario dei commentatori danteschi, cit., p. 21. 21 Id., L'interpretazione di Dante nel Tre e nel Quattrocento, cit., p. 133. 22 Id., La Commedia attraverso gli occhi dei primi lettori, cit., p. 75.

Nessuno dei prischi commentatori affrontò la questione: il primo fu Boccaccio (seguito da Benvenuto e Filippo Villani) il quale sin dai tempi della raccolta dei testi danteschi nel suo Zibaldone aveva prestato molta attenzione a quelli in cui si tratta della scelta linguistica del poema. Egli risolse il dissidio, criticato dalla nuova cultura, fra contenuti elevati e volgare paragonando la Commedia alla Bibbia: entrambe le opere potevano essere fruite in modi diversi a seconda della preparazione culturale dei lettori ma in ogni caso fornivano insegnamenti edificanti (Esposizioni I II 22-24).

Una delle tendenze più diffuse nella critica trecentesca alla Commedia fu la ricerca delle allegorie spesso eccessiva, in quanto vi era il pericolo che lettori poco istruiti in letteratura e nel suo linguaggio figurato potessero prendere alla lettera il viaggio dantesco e quindi considerarlo realmente avvenuto. Di qui deriva la frequenza con cui si definisce il percorso attraverso i regni ultraterreni una fictio letteraria, anche per giustificare i passi che non rispondevano all'ortodossia23. I commenti sono accomunati in particolare dall'interpretazione allegorica di Virgilio e Beatrice intesi rispettivamente come la ragione e la teologia. La trattazione delle allegorie, che diviene ancora più insistita alla fine del secolo in concomitanza alla diffusione della nuova cultura umanistica, aveva anche un altro fine: a fronte delle critiche sulla lingua, si voleva sia riabilitare l'opera insistendo sui significati reconditi non a tutti accessibili sia ridurre i suoi destinatari “a un pubblico selezionato di iniziati”24.

Oltre che filosofo, Dante veniva fregiato dei titoli di teologo (conoscitore delle Sacre Scritture e “portatore di verità”25) e poeta, i quali costituiscono un binomio inscindibile alla luce della difesa della poesia operata dai nuovi Umanisti, a partire da Albertino Mussato, contro i suoi detrattori. Il punto di forza dell'argomentazione dell'intellettuale padovano era l'uguaglianza fra la poesia e le Sacre Scritture, entrambe depositarie di verità nascoste sotto il velo di un linguaggio figurato. La Commedia, che con i suoi contenuti morali poteva essere un emblema perfetto di questo assunto, non rientrava però nel concetto di alta poesia elaborato dal nascente Umanesimo perché

23 Secondo Rigo, il porre insistentemente l'attenzione sul viaggio dantesco quale “allegoria della vita di

ogni uomo in ogni tempo” insieme alla difesa dell'ortodossia religiosa e ai limitati riferimenti alla situazione politica invece molto presente nella Commedia, dimostrano il tentativo da parte dei primi commentatori di favorire “una circolazione meno avversata” dell'opera: P. RIGO, Commenti danteschi, cit., p. 21. Non bisogna infatti dimenticare che la diffusione e l'apprezzamento per il poema dantesco furono accompagnati anche da opposizioni, soprattutto di tipo politico: esso era imbevuto di attualità, condannava posizioni politiche e persone molto conosciute. La Monarchia, portatrice delle medesime idee politiche che animano la Commedia, era stata condannata al rogo nel 1329 da Bertrando del Poggetto.

24 S. BELLOMO, La Commedia attraverso gli occhi dei primi lettori, cit., p. 78. 25 Ivi, p. 79.

scritta in volgare. Di qui i fedeli di Dante come Boccaccio, Benvenuto e Filippo Villani, per immettere la sua opera nel solco della nuova cultura, lo definirono poeta cristiano e si impegnarono a trovare spiegazioni convincenti che giustificassero la scelta della lingua materna. È importante sottolineare che nessuno fra i primi esegeti ha mai considerato Dante un profeta e la Commedia un'opera rivelata da Dio, posizioni delle quali si credette erroneamente fosse sostenitore Guido da Pisa.

Bellomo mette in evidenza come ai primi studiosi non sfuggì l'aspetto metaletterario della Commedia in cui vengono ripercorse le esperienze poetiche dell'autore: Jacopo della Lana interpreta in alcuni luoghi il viaggio dantesco come letterario, così l'Anonimo fiorentino spiega la stanchezza del protagonista che in If XXIV 43-45 cammina lungo la salita che collega la VI e la VII bolgia come la fatica intellettuale impiegata per la composizione dell'opera. Al riconoscimento del carattere metaletterario del poema va anche ricondotta la confusione di alcuni esegeti (fra i quali lo stesso Boccaccio) che fanno coincidere il tempo della visione con quello della scrittura: l'errore apparentemente ingenuo è motivato dal considerare il viaggio nell'aldilà come viaggio poetico, entrambi svoltisi sotto la guida dell'amore per Beatrice.

Una caratteristica comune ai commentatori trecenteschi è la scarsità di interesse nei confronti degli aspetti formali e stilistici del poema. Altro limite che accomuna alcuni di loro (Jacopo Alighieri, Jacopo della Lana, l'Ottimo) è avere considerato i personaggi che sfilano lungo la Commedia delle semplici rappresentazioni concrete di vizi e virtù, non comprendendo il loro carattere di “exempla […] inseriti nella realtà storica”26.

Uno studio condotto da Barański sull'esegesi medievale del poema sottolinea come essa sia caratterizzata dalla ridondanza e dal tentativo di classificare l'opera secondo categorie letterarie tradizionali, ignorandone così gli aspetti innovativi. I commenti presentano sempre un accessus che inquadra la Commedia entro criteri ermeneutici prestabiliti (titolo, genere, autore, finalità, che sono gli stessi passati in rassegna nell'epistola a Cangrande), dedicano ampio spazio alle questioni morali e dottrinali, hanno un carattere enciclopedico e “un altissimo tasso di convenzionalità”27. Un esempio fornito dal critico è il passo relativo all'incontro di Dante con il Minotauro: gli esegeti dispiegano in abbondanza materiale mitologico ma non evidenziano la trasformazione che il personaggio subisce nel poema, divenendo una sorta di “mostro

26 Id., L'interpretazione di Dante nel Tre e nel Quattrocento, cit., p. 135.

27 Z. G. BARAŃSKI, «Chiosar con altro testo». Leggere Dante nel Trecento, Cadmo, Firenze 2001, p.

comico” che ha perso tutta la sua potenza nell'obbedire al sistema di giustizia divina28. Barański riconosce però che, nonostante la convenzionalità, ogni commentatore ha la propria cultura e i propri intenti esegetici che lo contraddistinguono dagli altri. Ad esempio Boccaccio raccolse con solerzia informazioni sulla mitologia per tre motivi: per stabilire la conoscenza dantesca dei poeti classici, per proprio interesse erudito e “per il piacere della narrazione breve”29.

Un'altra tendenza diffusa fra i primi commentatori fu, secondo Barański, quella di neutralizzare le questioni problematiche dell'opera per fornire un testo critico “non controverso” e per non mettere in dubbio la coerenza e le conoscenze dell'Alighieri. È il caso di If XI ove Virgilio spiega l'ordinamento del primo regno e il modo di operare della giustizia divina. I commentatori sorvolano sulla contraddizione nell'uso del termine “malizia”: nel v. 22 indica in generale una cattiva azione ed è riferito tanto ai violenti che ai fraudolenti con un rinvio al De officiis ciceroniano, mentre nel v. 82 –con riferimento esplicito all'autorità di Aristotele– è sinonimo di frode. La maggior parte dei commentatori risolve l'aporia o discutendo il significato della parola soltanto in una delle due occorrenze, o come Guido da Pisa occupandosi di entrambe ma come se si riferissero allo stesso tipo di peccato, o come l'Ottimo e Benvenuto che considerano la malizia un concetto generico comprendente ogni male. Anche Boccaccio è in linea con questi atteggiamenti: in riferimento al v. 22 spiega la parola come “perversità di pensiero e di desidèro che nelle nostre anime sia” (XI I 18) e per il v. 82 propone una

definizione molto generica, quasi ignorando l'importanza del passo supportato dall'autorità aristotelica: “intende l'autore questa malizia esser gravissimo vizio e opposto alla bontà divina” (I I 56). Nessuno inoltre se non Pietro Alighieri nella III

redazione del suo lavoro esegetico fa cenno ai rinvii ciceroniani sottesi ai vv. 22-24, perché ciò avrebbe alluso all'incapacità di Dante nel mettere d'accordo due fonti diverse (Aristotele e Cicerone) in una materia così importante quale l'organizzazione della giustizia divina.