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L'Elegia di Madonna Fiammetta

Anche l'Elegia di Madonna Fiammetta (1343-'44), narrazione in prosa rispondente al genere dell'elegia che nel Medioevo era definita –usando un'espressione dantesca– “lo stile degli infelici”49, ha dei debiti nei confronti del maestro di Boccaccio. Tra i tanti modelli dell'opera la critica ha individuato la Vita Nova: l'Elegia infatti, oltre a riprenderne alcuni episodi, si rivolge ad un pubblico femminile ed illustra le fasi di una storia d'amore vissuta dall'io narrante. Un antecedente di Fiammetta è riconosciuto in Francesca dell'Inferno dantesco: entrambe sono soggetti, e non più oggetti come voleva la tradizione poetica coeva, dell'esperienza amorosa e della passione che le ha condotte

47 Convivio III XV 11-12: “E però dico che sua biltà, cioè moralitade, piove fiammelle di foco, cioè

appetito diritto, che s'ingenera nel piacere de la morale dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio da li vizii naturali, non che da li altri. E quinci nasce quella felicitade, la quale diffinisce Aristotile nel primo de l'Etica, dicendo che è operazione secondo vertù in vita perfetta”.

48 C. FERRARA, Dante in Boccaccio. Memoria dantesca nell'Amorosa Visione, cit., p. 66.

49 In Dve II IV 6 si legge: “per elegiam stilum intelligimus miserorum”. Nel prologo dell'Elegia di

Madonna Fiammetta l'io narrante annuncia: “a' casi infelici, ond'io con ragione piango, con lagrimevole stilo seguirò com'io posso” (Prologo 5).

ad una situazione di infelicità ed entrambe sono fruitrici della medesima letteratura rappresentata dai “franceschi romanzi” (VIII 7, 1). Un saggio di Delcorno dedicato allo studio dei dantismi nell'Elegia mette in luce come la capacità di Boccaccio di attingere a situazioni e sintagmi delle opere di Dante si sia qui evoluta, rispetto alla produzione precedente, dal “calco all'imitatio”: rielaborando le proprie fonti, l'autore ha reso i debiti nei loro confronti più dissimulati e allusivi50. Le opere da cui provengono i numerosi dantismi della Fiammetta sono la Vita Nova, le Rime (soprattutto le canzoni distese), la Commedia. Nella prima trovano spunto la constatazione d'apertura del prologo sugli effetti che della pietà altrui nei confronti degli infelici che è un riadattamento di Vita Nova 24. 3, alcuni moduli stilistici come i “mi pareva” di III 12 che –come in VN 14. 5- 10– scandiscono i momenti di un sogno, numerose situazioni e stati d'animo: l'incontro e l'innamoramento in chiesa in I 6 (da confrontare con VN 1. 4-10 e 2. 6), l'assistenza da parte delle donne a Fiammetta svenuta in VI 3 (VN 14. 11-15), lo straniamento di quest'ultima dalla realtà in I 12 4 (VN 23. 1), il suo appartarsi in luogo solitario durante una festa di nozze in V 23-24 (VN 7. 1-9). In particolare Delcorno confronta l'episodio dell'incontro tra Fiammetta e Panfilo in chiesa con un passo del Filocolo (I 1, 17-22) che ha come modelli gli stessi brani della Vita Nova (1. 4-10 e 2. 6): mentre nell'opera napoletana la dipendenza dantesca è resa evidente da calchi linguistici posti nelle medesime situazioni, nell'Elegia Boccaccio si è allontanato dalla fonte riprendendo soltanto alcuni spunti a livello tematico ma non lessicale e sintattico. Piuttosto sono mescidate con gli episodi tratti dal libello dantesco delle riprese dalle Rime e dalla Commedia, a dimostrazione del dominio crescente dell'autore di una delle sue fonti preferite e della capacità di rielaborarla evitando calchi meccanici. Analizzando il capitolo V, il critico segnala una differenza fra le riprese dantesche (qui dalle Rime) e quelle degli autori latini, in particolare Ovidio e Seneca: queste ultime consistono spesso nella semplice traduzione mentre le prime, più difficili da individuare, sono disseminate in modo allusivo senza cadere nel semplice calco e spesso sono fatte abilmente interagire con i modelli classici. Un esempio è nel passo V 13, 3, derivante probabilmente dalle Silvae di Stazio, dove Boccaccio inserisce una metafora assente nel modello classico e ripresa dalla canzone dantesca Io sono stato con Amore insieme:

50 C. DELCORNO, Note sui dantismi nell'«Elegia di Madonna Fiammetta», in «Studi sul Boccaccio»,

“Però nel cerchio della sua [d'Amore]

palestra libero albitrio già mai non fu franco”

(Rime 104 (CXI) 9-11)

“Fuggi degli occhi alle liete giovani, le quali ora, tenendo i loro amanti in braccio, nelle palestre di Venere essercitandosi, te rifiutano e odiano” (Elegia V 13, 3)

Come visto a p. 23, la medesima immagine erotica compare anche nel Filocolo, ma –commenta Delcorno– mentre in quest'ultima opera era stata recuperata fedelmente insieme al suo significato originario (la sottomissione del libero arbitrio alla forza d'amore), nella Fiammetta “viene utilizzata solo nella sua valenza metaforica”, slegata quindi dal contesto della fonte: secondo il critico è un esempio “dell'evolversi del dantismo boccacciano dalla citazione scoperta verso l'allusione segreta e sottile, secondo una tecnica di sfumature e di variazioni che giungerà alla perfezione proprio in alcune pagine del Decameron” di cui è un esempio Dec. V 8, 15-16 da confrontare con Inferno XIII 111-129 e XXXIII 31-3351. Le riprese dalla Commedia risultano più banali rispetto a quelle dalle Rime, forse perché la terzina comporta nell'assiduo lettore una “memorabilità” che può causare un ricordo meccanico dei versi. Sono state comunque identificate dal critico delle tendenze specifiche e consapevoli nell'utilizzo di passi del poema, come quella di servirsi di tessere dell'Inferno e delle tragedie senechiane per delineare situazioni drammatiche. Un esempio è suggerito dal passo in cui Fiammetta, venuta a conoscenza di un nuovo amore di Panfilo, formula delle minacce piene d'ira nei confronti della donna che ha preso il suo posto (VI 12): oltre a tradurre un brano del Thyestes, Boccaccio inserisce calchi danteschi come “E voi, o Arpie, date segno di futuro danno” (da If XIII 10-12 “Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno”) e “satii gli agognati cani” (da If VI 28 “Qual è quel cane ch'abbaiando agogna”). Non sempre però i prestiti danteschi sono dissimulati e ben inseriti nel tessuto testuale dell'opera, come nel caso di VII 4, 1 che risulta “troppo ostentato, e quasi stonato”52:

“Quasi falcone ch'esce del cappello, move la testa e con l'ali si plaude” (Pd XIX 34-35)

“Finita la oratione, non altramente che falcone uscito di cappello plaudendomi, così a dire cominciai [...]” (Elegia VII 4, 1)

Delcorno ha ravvisato una particolare abilità di Boccaccio nel combinare il modello dantesco con quello offerto dai classici latini, di cui sono esempio i passi II 14, 4 e III 10, 2: nel primo una similitudine virgiliana accoglie un latinismo tratto da una canzone dell'Alighieri, mentre nel secondo un'altra similitudine si nutre di spunti offerti da alcuni versi dell'Inferno e dalla relativa fonte lucanea.

51 Ivi, p. 273. 52 Ivi, p. 282.

“E quale succisa rosa negli aperti campi, infra le verdi frondi, sentendo i solar raggi, cade perdendo il suo colore, cotale semiviva caddi nelle braccia della mia serva” (Elegia II 14, 4)

Qui il semplice fiore purpureo di Eneide IX 435-436 (“purpureus veluti cum flos succisus aratro / languescit moriens”) diviene per mediazione dantesca la “succisa rosa” tratta da Tre donne intorno al cor mi son venute (Rime 13 (CIV) 21: “come succisa rosa”) che a sua volta è immagine tratta dal medesimo passo virgiliano.

“Aronta è quel ch'al ventre li s'atterga, che ne' monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra' bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e 'l mar no li era la veduta tronca.” (If XX 46-52)

“e sentendo già quasi nella mia casa ciascun riposare, sola alcuna volta là, onde la mattina il sole montante avea veduto, me ne saliva; e quale Aronta tra' bianchi marmi de' monti Lucani i corpi celesti e i loro moti speculava, cotale io, la notte lunghissime ore traente, sentendo a' miei sonni le varie sollecitudini essere nemiche, da quella parte il cielo mirava, e i suoi moti più ch'altri veloci meco tardissimi reputava.” (Elegia III 10, 2)

Boccaccio ha saputo abilmente inserire l'immagine dell'indovino stagliato contro il cielo sui “bianchi marmi” delle Apuane in una prosa ritmica costruita su dei cursus tardus, planus, velox e al contempo ha tenuto presente la fonte lucanea di Dante, recuperando quei “moenia Lucae” (i monti di Lucca) interpretati erroneamente nei versi della Commedia come i monti di Luni: “Arruns incoluit desertae moenia Lucae” (Bellum Civile I 586). Un'altra ripresa del sacro poema sapientemente rielaborata si trova in VIII 10, 1-3 dove Fiammetta riflette sulle sventure di Ecuba:

“Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane;

tanto il dolor le fé la mente torta.” (If XXX 16-21) “Trista piangendo, in abito smarrita

e come can nella voce latrare,

Ecuba vidi con poca di vita.” (Am. Vis. IX 13-15) “Ecuba trista puoi vedere appresso

per doglia andar latrando come cane,

morte chiamando, che l’uccida, spesso.” (Am. Vis. XXXIV 61-63)

“Ecuba appresso vegnente nella mia mente, oltre modo mi pare dolorosa, la quale sola rimase a vedere le dolenti reliquie scampate di sì gran regno, di sì mirabile città, di sì fatto marito, di tanti figliuoli, di tante figliuole […]. Ma brieve fu la sua doglia, ché la debole e vecchia mente, non potendo ciò sostenere, in lei smarritasi la rendé pazza, sì come il suo latrare per li campi fe' manifesto.” (Elegia VIII 10, 1-3)

inerte”53; nella Fiammetta invece Boccaccio –riprendendo gli aspetti essenziali come il nome di Ecuba ad apertura di periodo, le parole chiave che scandiscono le fasi della sua tragedia (“doglia”, “mente”, “latrare”), l'aggettivo possessivo riferito ad uno dei personaggi– dimostra sia una comprensione maggiore della drammaticità dell'episodio dantesco sia la capacità di riuscire a riproporla senza cadere nel puro calco.

4. Il Decameron

Il Decameron (1348-'5154) interagisce attivamente con la Commedia attraverso allusioni e riprese: echi verbali, personaggi, situazioni vi provengono, adattati però alla prospettiva delle novelle e della loro cornice. Un esempio è fornito dalla novella IX 8 che –come nota Fido– riprende alcuni personaggi del poema quali Ciacco e Filippo Argenti e i rispettivi caratteri di goloso e di iracondo ma li inserisce in un contesto ben differente rispetto a quello originario di tipo politico e di lotte intestine: nel Decameron essi diventano i protagonisti di una beffa spensierata e costruita su riferimenti al cibo55.

Bettinzoli ha raccolto i dantismi del Decameron in tre saggi dai quali emerge la presenza di riferimenti all'Alighieri in tutti i livelli dell'opera56: il proemio, l'introduzione (la descrizione del degrado fisico e morale in cui versa Firenze durante la pestilenza presenta citazioni dall'Inferno), la cornice (gli ambienti edenici in cui si muove la brigata richiamano il Paradiso terrestre di Pg XXVIII con inserti di altri passi57), gli interventi dei novellatori all'inizio e al termine dei loro racconti (argomenti

53 Ivi, p. 293.

54 È questa la datazione comunemente accettata dalla critica, tuttavia in un saggio del 2009 Veglia la

mette in dubbio e protrae il termine ante quem al 1353-1355: M. VEGLIA, Il Petrarca, le genesi del Decameron e la “teologia poetica” del Boccaccio, in «Humanistica», IV.2, 2009, pp. 61-78.

55 F. FIDO, Dante personaggio mancato del «Decameron», in Boccaccio: secoli di vita, Atti del

Convegno Internazionale: Boccaccio 1975 – Università di California – Los Angeles 17-19 Ottobre 1975, a cura di M. Cottino-Jones e E. F. Tuttle, Longo Editore, Ravenna 1977, pp. 184-185.

56 Per un approfondimento dell'argomento rinvio ai tre saggi in questione: A. BETTINZOLI, Per una

definizione delle presenze dantesche nel «Decameron». I. I registri 'ideologici', lirici, drammatici, in «Studi sul Boccaccio», XIII, 1981-1982, pp. 267-326; id., Per una definizione delle presenze dantesche nel «Decameron». II. Ironizzazione e espressivismo antifrastico-deformativo, in «Studi sul Boccaccio», XIV, 1983-1984, pp. 209-240; id., Occasioni dantesche nel Decameron, in Dante e Boccaccio, cit., pp. 55-85.

57 Ad esempio l'introduzione alla III giornata combina due luoghi danteschi: “L'aurora già di vermiglia

cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia” (2) richiama Pg II 7-9 “sì che le bianche e le vermiglie guance, / là dov' i' era, de la bella Aurora / per troppa etate divenivan rance”, mentre “per una vietta non troppo usata ma piena di verdi erbette e di fiori, li quali per lo sopravegnente sole tutti s'incominciavano a aprire” (3) richiama If II 127-129 “Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo” (questi ultimi versi furono particolarmente cari a Boccaccio: infatti si rinviene una loro fedele ripresa in Filostrato II 80, 1-3 e Teseida IX 28, 1-3). A studiare le corrispondenze fra le notazioni paesaggistiche delle introduzioni di ogni giornata e passi della Commedia è stato Hollander in R. HOLLANDER, Decameron: the sun rises in Dante, in «Studi sul Boccaccio», XIV, 1983-1984, pp. 241-255.

comuni alla Commedia fanno sì che Boccaccio mostri “una stretta osservanza dantesca, di scelte espressive non meno che di pensiero”58 come le considerazioni sulla fortuna di Pampinea modulate sulla teoria esposta da Virgilio nel cerchio degli avari e dei prodighi59 o le numerose critiche alla vita dissoluta dei chierici disseminate lungo l'intero Decameron), le novelle. La Vita Nova e le Rime sono presenti soprattutto “nelle novelle di intonazione lirica o drammatica”60, come in quella di Cimone (V 1) in cui gli effetti d'amore vengono descritti con allusioni al libello giovanile dantesco o in quella di Andriuola e Gabriotto dove la donna in seguito alla morte dell'amante vuole uccidersi non senza prima seppellire “il corpo, del quale la graziosa anima s'è partita” (IV 6, 23) ricordando i versi “Partissi della sua bella persona / piena di gratia l'anima gentile” (20. 11). Echi dalla Vita Nova sono frequenti nelle descrizioni di figure femminili61 e di visioni come nella novella IV 6 dove il racconto del sogno è scandito da una serie di “mi pareva” e termina con “il mio sonno si ruppe”, anche questo modulo vitanoviano.

Il canto V dell'Inferno è il luogo da cui Boccaccio ha maggiormente tratto sintagmi i quali o sono “neutralizzati”62 ed inseriti nella scrittura senza un rapporto di contiguità tematica con la fonte oppure, in casi più rari, contribuiscono a creare una situazione che mantiene delle similarità con quella originaria, come nella novella del conte di Anguersa (II 8) dove i dantismi delineano una scena che ricorda quella fatale di Francesca:

“soli eravamo e sanza alcun sospetto” (v. 129)

“la bocca mi basciò tutto tremante” (v. 136)

“con lei sopra un letto in una camera tutti soli a sedere” (10)

“quasi piangendo e tutta tremante” (10)

Una tendenza rilevata da Bettinzoli nell'uso dei dantismi è il loro impiego nel sottolineare “i passaggi culminanti delle novelle” o “il violento accendersi delle passioni”63 nei personaggi, come in IV 1, 15 dove il cambiamento tragico nella storia di Ghismonda è anticipato da una ripresa del XXVI canto dell'Inferno (v. 136).

Alcune immagini dantesche piacciono così tanto a Boccaccio che tornano variate più volte nel Decameron, come il v. 25 di If XIII (“Cred' ïo ch'ei credette ch'io credesse”) il quale annovera numerosi echi, anche con una sfumatura caricaturale in

58 A. BETTINZOLI, Per una definizione delle presenze dantesche nel «Decameron». I. I registri

'ideologici', lirici, drammatici, cit., p. 286.

59 Si confrontino Decameron II 3, 4 e If VII 77-90.

60 A. BETTINZOLI, Per una definizione delle presenze dantesche nel «Decameron». I., cit., p. 295. 61 Si veda ad esempio II 8, 37: “Violante, chiamata Giannetta, con la gentil donna in Londra venne

crescendo e in anni e in persona e in bellezza e in tanta grazia e della donna e del marito di lei e di ciascun altro della casa e di chiunque la conoscea, che era a vedere maravigliosa cosa”. I richiami sono a Vita Nova 17. 1-2: “Questa gentilissima donna […] venne in tanta gratia delle genti […]. E altri diceano: «Questa è una maraviglia»”.

62 A. BETTINZOLI, Per una definizione delle presenze dantesche nel «Decameron». I., cit., p. 300. 63 Ivi, p. 310.

bocca a Ciappelletto (I 1, 51). I versi fra i più intensi della Commedia dedicati al canto di Casella sono ricordati in due novelle contigue, la X 6 e la X 7, nella seconda in modo più aderente alla fonte:

“cominciò elli allor sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti

a le sue note [...]” (Pg II 113-119)

“cominciarono a cantare un suono […] con tanta dolcezza e sí piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che tutte le gerarcie degli angeli quivi fossero discese a cantare” (X 6, 22)

“Laonde egli cominciò sí dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n'erano parevano uomini adombrati, sí tutti stavano taciti e sospesi a ascoltare” (X 7, 24)

Un altro tipo di dantismo è la ripresa di simbologie dalla Commedia per dare loro altri significati, come nella novella VI 9 di Cavalcanti nella quale le arche che nella città di Dite sono sepolcro degli epicurei diventano la dimora metaforica degli ignoranti.

Come si è visto alcuni dantismi decameroniani sono sottratti al loro contesto di origine, altri invece conservano un'analogia con la situazione da cui sono prelevati. I dantismi variano da semplici calchi che si amalgamano alla scrittura boccacciana, passando a volte inosservati, a riprese allusive che comportano un confronto e un rapporto dialettico con la fonte. In questo secondo gruppo ne rientrano numerosi che svolgono una parodia dell'opera dantesca. Tale artificio letterario si verifica quando il testo parodiante riprende il testo parodiato per ribaltarne il significato, disattendendo così le aspettative del lettore e creando un effetto di comicità. La parodia può essere esercitata nei confronti della poetica della Vita Nova come nella novella di frate Alberto (IV 2) in cui aspetti pertinenti a Beatrice sono attribuiti a personaggi grotteschi, nei confronti dei custodi infernali che prestano alcuni dei loro caratteri ad una figura comica come quella di Guccio Imbratta64, nei confronti della giustizia divina nella novella della vedova e dello scolare (VIII 7) dove le pene dell'Inferno sono degradate a materia di beffa, nei confronti di singoli sintagmi solenni della Commedia che vengono messi in

64 “Avendo la barba grande e nera e unta” (VI 10, 18) è calco di “la barba unta e atra” (If VI 16); “un suo

farsetto […] con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartareschi o indiani” (23) richiama la descrizione di Gerione: “Con più color, sommesse e sovraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi” (If XVII 16-17). La parodia dantesca è presente anche nelle parole di Guccio il quale, corteggiando la Nuta, si serve di un'espressione tratta da Le dolci rime d'amor ch'io solea (Rime 4 (LXXXII)) che indica la definizione di nobiltà data da Federico II (“Tale imperò che gentilezza volse, / secondo il suo parere, / che fosse antica possession d’avere / con reggimenti belli”, vv. 21-24): “le disse, quasi stato fosse il Siri di Ciastiglione, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese e trarla di quella cattività di star con altrui e senza gran possession d'avere ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai” (VI 10, 23). La parodia nasce dalla degradazione che subiscono le parole di una figura nobile nell'essere messe in bocca con significati opposti ad un personaggio volgare: nella canzone il riferimento è ai costumi cortesi, nella novella alle cose materiali.

bocca a personaggi sciocchi o volgari in situazioni di beffa o di semplice fisicità. Ne è un esempio la battuta di Bruno prima di mettere in atto la beffa ai danni di Calandrino (“Qui si vuole usare un poco d'arte”, VIII 6, 13) che richiama quella di Virgilio a Dante mentre percorrono la strettoia che conduce alla I cornice del Purgatorio: “Qui si conviene usare un poco d'arte” (Pg X 10). Nella novella VII 10, che svolge una parodia delle credenze popolari sull'aldilà, il dialogo fra Meuccio e Tingoccio tornato dal Purgatorio per darne informazioni all'amico (non ammonimenti morali ma incoraggiamenti ai rapporti amorosi con le comari) presenta un gioco parodico nei confronti dell'aggettivo “perduto”, diffuso nell'Inferno come sinonimo di 'dannato' ma qui inteso nel suo significato letterale: “il domandò se egli era perduto. Al quale Tingoccio rispose: «Perdute son le cose che non si ritruovano: e come sare' io in mei chi se io fossi perduto?»” (19-20). La parodia consta nell'utilizzo di espressioni dantesche da parte di personaggi e in contesti del tutto opposti rispetto alla drammaticità e alla solennità dei luoghi della fonte da cui sono attinti.

I casi significativi per la presenza dantesca nel Decameron sui quali voglio soffermarmi sono il sottotitolo, il proemio, l'introduzione alla I giornata, infine le novelle IV 2 e V 8: i primi perché i riferimenti a Dante in luoghi importanti come questi, nei quali viene fornita la chiave di lettura dell'opera e viene espresso l'intento dell'autore, dimostrano il costante punto di riferimento del maestro anche nell'organizzazione stessa del capolavoro, le due novelle perché sono tramate di riferimenti parodici alla Vita Nova e alla Commedia.

Il primo rinvio a Dante è già nel sottotitolo che definisce l'opera “prencipe