Capitolo IV. Boccaccio commentatore della Commedia Introduzione
2. Le Esposizioni sopra la Comedia di Dante
2.2. Esposizione letterale e allegorica
Di seguito riassumo i caratteri principali delle Esposizioni (accompagnati da brani esemplificativi), rinvenuti nella lettura dell'opera e riscontrati dalla critica41:
• l'organizzazione e l'ordine con cui Boccaccio spiega il testo. Servendosi della tecnica delle divisioni, il commentatore suddivide ogni canto in nuclei principali scomposti a loro volta in episodi che vengono riassunti nell'esposizione letterale di ogni canto con puntuale riferimento al verso con cui iniziano. Ad esempio il I canto, definito “proemio” dell'opera, è costituito da due parti:
“nella prima discrive l'autore la sua ruina, nella seconda dimostra il soccorso venutogli per sua salute. La seconda comincia quivi: «Mentre ch'io ruvinava in basso loco».
Nella prima fa l'autore tre cose: primieramente, discrive il luogo dove si ritrovò; appresso, mostra donde gli nascesse speranza di potersi partire di quel luogo; ultimamente, pone qual cosa fosse quella che lo 'mpedisse a dovere di quello luogo uscire. La seconda quivi: «Io non so ben ridire»; la terza quivi: «Ed ecco quasi».” (I I 1-2)
“«Mentre ch'io ruvinava in basso loco». Qui dissi cominciava la seconda parte di questo canto, nella quale l'autore dimostra il soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questa parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio, quivi aparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senza nominarsi, per più segni dimostra Virgilio allo autore chi egli è; poi l'autore, estollendo con più titoli Virgilio, s'ingegna di acattare la benivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò, Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa e il disfacimento di lei, consigliandolo della via la quale dee tenere; appresso, l'autore priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente, movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui: poeta»; la sesta quivi: «Allor si mosse».” (I I 45)
41 C. GRABHER, Il culto del Boccaccio per Dante e alcuni aspetti delle sue opere dantesche, in «Studi
danteschi», 30, 1951, pp. 132-147; G. PADOAN, L'ultima opera di Giovanni Boccaccio, cit.; P. G. RICCI, Dante e Boccaccio, in «L'Alighieri», XVI, 1975, pp. 75-84; A. VALLONE, Boccaccio lettore di Dante, in Giovanni Boccaccio editore e interprete di Dante, cit., pp. 91-117; F. BRUNI, Boccaccio. L'invenzione della letteratura mezzana, cit., pp. 465-477; M. DOZON, Poésie et mythologie: les «Esposizioni» de Boccace à la Divine Comédie, in Pour Dante. Dante et l'Apocalypse. Lectures humanistes de Dante, cit., pp. 305-316; S. BELLOMO, Dizionario dei commentatori danteschi, cit., pp. 171-183; C. DELCORNO, Gli scritti danteschi del Boccaccio, in Dante e Boccaccio, cit., pp. 109- 137; S. BELLOMO, Dante letto da Boccaccio, cit., pp. 37-41; C. CALENDA, Giovanni Boccaccio, cit., pp. 241-249.
Queste divisioni presentano delle formule standard, come “appresso mostra” o “primieramente discrive” che viene ripetuta uguale o leggermente variata in altri cinque luoghi del commento (IV I 13, IV I 153, VIII I 78, X 18, XI 76).
• L'attenzione e l'interesse per la lettera, ben illustrati dalle riflessioni su varianti, figure retoriche, etimologie e sfumature lessicali. In quanto nella sezione dedicata all'impegno boccacciano di copista ed editore della Commedia (p. 160) si sono già visti i casi in cui nelle Esposizioni vengono confrontate lezioni differenti (I I 32-33, I I 126, II I
58, IV I 77), basti qui riportare due esempi che dimostrano come l'interesse per la lettera porti il commentatore a discutere il senso del testo a seconda delle varianti:
“Questa lettera si vuole così ordinare: «Sì che l'ora del tempo e la dolce stagione m'era cagione a sperare bene di quella fiera alla gaetta pelle»; o vero, se la lettera dice «di quella fiera la gaetta pelle», si vuole ordinare così: «m'era cagione a sperare bene la gaetta pelle di quella fiera». Ciascuna di queste due lettere si può sostenere, per ciò che sentenzia quasi non se ne muta. Reassumendo adunque la lettera come giace nel testo, dice: Sì che a bene sperar m'era cagione Di quella fiera, cioè di quella lonza, alla gaetta pelle, cioè leggiadretta, per ciò che pulita molto è la pelle della lonza; o vero, secondo l'altra lettera, «m'era cagione di sperare bene di dovere ottenere la pelle di quella fiera»: la quale esso intendea di prendere, se potuto avesse, con una corda la quale cinta avea, secondo che esso medesimo dice in questo medesimo libro, nel canto XVI, dove scrive:
Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza alla pelle dipinta” (I I 32-33)
“Tu se' il mio maestro: qui con reverirlo vuol muovere Virgilio, chiamandol «maestro», e 'l mio autore. In altra parte si legge «signore», e credo che stia altressì bene, per ciò che qui, umiliandosi, vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore aiutare ” (I I 126)
Come osserva Padoan a proposito di quest'ultimo caso, Boccaccio forza il testo dantesco nel tentativo di fornire una spiegazione alle varianti: è evidente infatti che “signore” è meno convincente di “autore”42.
La figura retorica che cattura maggiormente l'interesse dell'esegeta è l'acirologia la quale consiste in un'improprietà di linguaggio: secondo un “improprio parlare” (I I 43)
vengono attribuiti agli esseri inanimati caratteristiche tipiche dell'uomo, come “sol tace” (If I 60), “loco d'ogne luce muto” (If V 28), “cieco / carcere” (If X 58-59), commentati rispettivamente in Esposizioni I I 43-44 e X I 58.
Tra le numerose etimologie discusse, ricordo “dì” (II I 6), “volto” (III I 56), “scola”
(IV I 136), “lutto” (VIII I 44-45), “angelo” (IX I 54), “fato” (IX I 75), “sepolcro” (IX I
101), “delirare” (XI 53), “rena” (XIV I 7-8).
Sono frequenti i casi in cui di una parola Boccaccio non solo spiega accuratamente il significato ma anche delinea le differenze che intercorrono tra essa e alcuni suoi
sinonimi, come in II I 103-108 dove –a proposito del v. 59 “di cui la fama ancor nel
mondo dura”– vengono elencate le definizioni di “fama”, “onore”, “lauda” e “gloria” affinché non si faccia come coloro che “indifferentemente posero l'un nome per l'altro”, o come in VIII I 43-45 dove il sintagma “con piangere e con lutto” (v. 37) dà il via ad una lunga spiegazione di “piagnere”, “plorare”, “lugere”, “lutto”, “gemere”, “ululare” al fine di dare alle parole dantesche il giusto significato e di correggere chi ritiene che si tratti di una dittologia sinonimica. Quest'ultimo esempio in particolare ci dimostra la puntigliosità e l'interesse del nostro commentatore nel cogliere tutte le sfumature di significato espresse dal testo, non lasciando nulla di inspiegato. Utile a farci capire che Boccaccio non avrebbe titolato la sua opera esegetica “commento” è la distinzione che egli opera tra questo termine e “scritto” a proposito di If IV 144 (“Averoìs che 'l gran comento feo”): il secondo spiega nel dettaglio il testo che compendia, mentre il primo fornisce soltanto un'interpretazione generale:
“Ed è intra lo «scritto» e 'l «comento», che sopra l'opera d'alcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per divisioni e particularmente ogni cosa del testo dichiara, il comento prende solo le conclusioni e, senza alcuna divisione, quelle apre e dilucida.” (IV I 369)
L'esposizione letterale è caratterizzata da una spiegazione dettagliata che avviene parola per parola, verso per verso, senza tralasciare nulla (né il significato delle parole né l'ordine sintattico della frase), aspetto che denota la volontà di una comprensione integrale del testo. Si vedano ad esempio le esaurienti e precise chiose al vocabolo “broda” (VIII 53) e al verso “esta selva selvaggia e aspra e forte” (I 5) per il quale Boccaccio illustra singolarmente ogni qualifica riferita alla selva, facendo ricorso ad un ampio dispiegamento di aggettivi e sostantivi:
“Il proprio significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma qui l'usa l'autore largamente, prendendolo per l'acqua di quella padule mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e per ciò che così son grasse e unte come la broda.” (VIII I 64)
“Dice prima che ell'era «selvaggia», quasi voglia dinotare non avere in questa alcuna umana abitazione e per conseguente essere orribile; dice appresso ch'ella era «aspra», a dimostrare la qualità degli alberi e de' virgulti di quella, li quali doveano essere antichi, con rami lunghi e ravolti, contessuti e intrecciati intra se stessi, e similemente piena di pruni, di tribuli e di stecchi, sanza alcuno ordine cresciuti e in qua e in là distesi: per le quali cose era aspra cosa e malagevole ad andare per quella; e in quanto dice «forte» dichiara lo 'mpedimento già premostrato, vogliendo, per l'aspreza di quella, essa esser forte, cioè difficile a potere per essa andare e fuori uscirne. E questo dice esser tanto, Che nel pensier, cioè nella ramentizione d'esservi stato dentro, rinuova la paura. Umano costume è tante volte da capo rimpaurire, quante l'uom si ricorda de' pericoli ne' quali l'uomo è stato.” (I I 7-8)
Nelle frequenti serie di sinonimi si percepisce una certa ansia di illustrare al meglio il testo. Le lunghe serie di qualifiche che accompagnano la definizione di alcune
categorie di peccatori denotano però –piuttosto che un'insistita spiegazione della lettera– un certo compiacimento nell'uso di un lessico vivace da parte di chi non è solo commentatore ma anche scrittore e fustigatore dei vizi:
“È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui nasce non solamente povertà, ma indigenzia e miseria, nella quale rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene” (VII II 153)
“Questi adunque tutti, ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori, abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e ad udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze, sono vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli ne' pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo de' sobri” (VI II 41)
A volte le spiegazioni risultano eccessive, essendo il testo di immediata comprensione: tra i numerosi casi cito il chiosare “vista” con “veduta” in I I 38 e la
seguente spiegazione relativa ai primi versi del II canto:
“Lo giorno se n'andava, e questo per lo chinare del sole all'occidente; e l'aere bruno, cioè la notte sopravegnente, la qual sempre all'occultar del sole seguita” (II I 3)
Altre volte il tentativo di rinvenire sempre un doppio significato comporta un'interpretazione eccessivamente letterale dove dovrebbe essere per lo più allegorica, come per i vv. 26-27 del I canto (“lo passo / che non lasciò già mai persona viva”) nei quali secondo Boccaccio viene utilizzata un'iperbole, in quanto se la selva non avesse lasciato uscire vivo nessuno, non avrebbe dato scampo nemmeno a Dante (I I 19-21).
Oltre a non avere capito, come nota Padoan, che la selva non lascia “persona viva in sé, non –come egli intende– uscir di sé”43, Boccaccio dà troppa importanza all'interpretazione letterale di un passo che ha un significato allegorico, ossia la dannazione eterna a cui conduce il peccato.
Accade anche che l'eccessivo interesse per la lettera porti il commentatore a fare precisazioni inutili su alcuni particolari senza però rilevare l'importanza generale dell'episodio, come nella trattazione dell'arrivo del messo celeste (canto IX) dove si indugia sui dettagli, come le reazioni dei dannati, la similitudine delle rane, l'espressione dell'angelo, l'uso della “verghetta” quale simbolo del potere divino, anziché rilevare l'atmosfera di sacralità che permea le azioni e la straordinarietà dei fatti narrati che vedono la manifestazione della potenza divina contro il male infernale (IX I 41-59)44.
La meticolosità di Boccaccio nelle spiegazioni del testo lo induce a volte a
43 Si veda la nota al testo nell'edizione di riferimento. 44 Si veda la nota al testo nell'edizione di riferimento.
correggere alcune scelte lessicali dell'autore. A proposito delle parole poste sopra la porta infernale “Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro” (III 7-8), egli afferma che l'aggettivo “eterno” viene qui impiegato per “licenzia poetica” in quanto il termine corretto in questo contesto dovrebbe essere “perpetuo”:
“E in quanto l'autore dice qui «eterne», favella di licenzia poetica impropiamente, come assai spesso si fa: per ciò che l'essere eterno a cosa alcuna non s'apartiene se non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è solo Idio; gli angioli e le nostre anime e certe altre creature da Dio imediatamente create, quantunque mai fine aver non debbano, per ciò che ebber principio, non si deono, propiamente parlando, dire «eterne», ma «perpetue»” (III I 6)
Nell'esposizione del medesimo canto Boccaccio appunta che l'Acheronte viene definito in due modi distinti: al v. 71 “fiume”, al v. 98 “palude”. Il primo termine è corretto, mentre il secondo è utilizzato per “licenza poetica, per la quale spessissimamente si pone un nome per un altro, sì veramente che quel cotal nome abbia alcuna convenienza con la cosa nominata” (III I 70). Un altro esempio si rinviene in IV I
20 dove a proposito di “aura eterna” (v. 27) il commentatore sostiene che Dante intendesse “aere”, in quanto
“«aura» è un soave movimento d'aere: per questa cagione non credo voglia dire il testo «aura», per ciò che alcuna soavità non ha in inferno, anzi v'è ogni moto impetuoso e noioso: e quinci credo voglia dire «aere eterno»”
Così in VIII I 98 si puntualizza che la voragine infernale non può essere definita “erta” come fa Dante che “spesse volte […] usa un vocabolo per un altro” ma dev'essere appellata “china”, in quanto il primo termine denota un luogo da risalire, il secondo un luogo da attraversare scendendo.
Non è raro che Boccaccio spieghi il motivo per cui l'autore si sia servito di una parola piuttosto di un'altra, come per If I 73 (“Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d'Anchise”) dove viene usato “cantai” e non “composi” perché, come era stato dimostrato nell'Accessus (14-16), le opere in versi dei poeti sono definite canti analogamente a quelle dei musici:
“Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi»; e la ragione in parte si dimostrò dove di sopra si disse perchè «cantiche» si chiamano l'opere de' poeti. Alla quale si puote aggiugnere una usanza antica de' Greci, dalla qual credo non meno esser mossa la ragione per che «cantare» si dicono i versi poetici, che da quella che già è detta: e l'usanza era questa, che' nobili giovani greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e questi loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano li loro canti di cose vane, come il più delle canzoni odierne sono, anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli operazioni da valenti uomini adoperate <si trattava>, sì come noi possiam vedere nella fine del primo dello Eneida di Virgilio, dove, dopo la notabile cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli errori del sole e della luna e la prima generazione degli uomini e degli altri animali e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco e altre simili cose: dal quale atto potè nascere il dirsi che i poetici versi si cantino.” (I I 113-114).
L'esempio appena citato mostra come l'esegeta, preso dallo spiegare in modo capillare la lettera e le scelte operate dal poeta, si allontani dal testo della Commedia con il rischio di far perdere all'uditore / lettore il filo del discorso. Un altro caso evidente in cui Boccaccio divaga per offrire spiegazioni inutili ai fini esegetici del poema è in VII I
33-34 dove, a proposito del sintagma “guerci […] de la mente” (VII 40-41), fa una distinzione fra chi nasce cieco e chi lo diventa “per accidente”: non in riferimento ai peccatori, come nel testo dantesco, ma ai non vedenti sensoriali.
Nel tentativo di fornire un commento esaustivo, l'autore tiene conto anche delle opinioni di altri esegeti che differiscono dalla propria interpretazione, come in IV I 17 a proposito dei vv. 19-21 e in XIII I 24 a proposito del v. 33 (quest'ultimo caso mostra ancora una volta l'eccessivo rigore che induce Boccaccio ad esaminare dettagli poco significativi):
“E 'l tronco suo, cioè quel pruno, donde colto avea, o ver troncato, il ramucello, o, secondo che spongono altri, il tronco suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; gridò: perchè mi schiante? E queste parole paiono assai dimostrare la parte schiantata essere quella che parlò, e non quella donde fu schiantata, come che appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno” (XIII I 24)
Nonostante alcuni errori e le divagazioni, vengono allegate chiose acute che dimostrano una lettura attenta e meditata dell'opera. Un esempio è l'interpretazione delle parole di Beatrice a Virgilio “fidandomi del tuo parlare onesto, / ch'onora te e quei ch'udito l'hanno” (If II 113-114), dove il commentatore intende il verbo udire non nel suo significato letterale ma come messa in pratica di quanto è stato appreso dallo studio delle opere virgiliane:
“Qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo il suo parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si può dire; Che onora te, Virgilio; e non solamente te, ma quegli ancora che udito l'hanno, e servato nella mente; per ciò che l'avere udito senza averlo servato, e poi ad essecuzione in alcuno laudevole atto non messo, non può avere onorato l'autore.” (II I 130)
Come nota Padoan, Boccaccio –a differenza di altri commentatori trecenteschi che vedevano in Beatrice soltanto un'allegoria– è riuscito a cogliere l'aspetto umano della donna. Il riferimento è alle considerazioni che seguono il passo appena citato45:
“Poscia che m'ebbe, cioè Beatrice, ragionato questo, che detto t'ho, Gli occhi lucenti lagrimosi volse, per avventura verso il cielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione a Virgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora più d'affezione si dimostra, dimostrandosi ancora uno atto d'amante, e massimamente di donna, le quali, com'hanno pregato d'alcuna cosa la quale disiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere ardentissimo.” (II I 131)
All'inizio dell'esposizione del II canto vengono fornite anche delle notizie
biografiche di Beatrice, sottolineando come Dante “non sempre di lei allegoricamente favelli” (II I 82-85).
Il commento boccacciano è ricco di spiegazioni efficaci, come quelle relative alla pena delle anime che risiedono nel Limbo e nel IV cerchio: delle prime rileva al meglio sia in che cosa consiste la loro sofferenza sia le motivazioni per le quali gli spiriti magni hanno una collocazione differente, delle seconde fornisce un'interpretazione interessante sul significato simbolico dei “crin mozzi” (If VII 57):
“E ciò avvenia, cioè questo sospirare, da duol senza martìri. Non eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice.” (IV I 21)
“Per tai difetti, cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Idio; e non per altro rio, cioè per avere contro alle morali o naturali leggi commesso; Semo perduti, cioè dannati a non dovere in perpetuo vedere Idio; e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio, il quale disio non è altro che di vedere Idio, nel quale consiste la gloria de' beati. E quantunque molto faticosa cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile l'ardentemente disiderare e non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò, quantunque prima facie paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo ch'ella sia gravissima; e ancora più se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna intermessione” (IV I 32-33)
“E quegli, cioè Virgilio, disse a me: l'onrata, cioè l'onorata, nominanza; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; Che di lor suona su nella tua vita, nella quale questi cotali, sì nelle scritture degli antichi e sì ancora ne'ragionamenti de' moderni, racordati sono; Grazia, singulare, acquista nel ciel, da Dio, che sì gli avanza, oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo. Intorno alla quale risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: per ciò che questi, de' quali l'autor domanda, sono genti, le quali tutte virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al