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La questione dell'autenticità delle Egloghe dantesche

Capitolo III. Boccaccio copista ed editore di Dante Introduzione

1. Lo Zibaldone XXIX.8 codex unicus di alcuni testi dantesch

1.1. La questione dell'autenticità delle Egloghe dantesche

La dipendenza della tradizione delle Egloghe dalle copie boccacciane ha indotto Rossi a mettere in dubbio l'autenticità di questi componimenti, fino a considerarli un falso del nostro cultore di Dante38. In una serie di saggi lo studioso ha esposto e sostenuto la sua tesi, affermando con certezza che la corrispondenza fra Dante e Giovanni del Virgilio, l'egloga di quest'ultimo a Mussato e le relative chiose ai componimenti sono frutto di una mistificazione di Boccaccio compiuta fra il 1351 e il 135539. Nello studio da cui prende avvio il suo percorso40, egli va contro la tradizionale interpretazione dei noti versi Pd XXV 1-9, sostenendo che è arbitrario intendere con “cappello” la corona poetica:

“Se mai continga che 'l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m'ha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov' io dormi' agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte

del mio battesmo prenderò 'l cappello”

Jacopo della Lana e l'Ottimo dimostrano di non avere ben compreso il significato del termine “cappello”, dato che danno una spiegazione generica il primo, poco chiara il secondo, proprio loro che essendo i commentatori più vicini ai tempi di Dante dovevano avere grande familiarità con il lessico contemporaneo. Jacopo della Lana spiega il passo come il desiderio espresso dal poeta di ottenere da Firenze “onori e utile” (III 365) e “lo nome […] d'uomo vertudioso e saggio” (III 370); l'Ottimo chiosa il termine in questione come “convento di scienza poetica”, aggiungendo “Quivi s'onorano quando vegnono li Scienziati da Bologna” (III 543)41. L'idea che con “cappello” l'autore significasse l'alloro è derivata da Pietro Alighieri e da Boccaccio, i quali però non forniscono alla loro tesi delle prove, ed è poi stata assorbita acriticamente in tutta l'esegesi dantesca:

“Vaghissimo fu e d'onore e di pompa […]. E perciò, sperando per la poesì allo inusitato e pomposo

38 Lo stemma codicum elaborato da Rossi è differente da quello tracciato da Folena, in quanto fa

derivare dallo Zibaldone XXIX.8 tutta la tradizione del ramo β: da Z sarebbero derivati W e l'antologia bucolica di Santo Spirito, da quest'ultima discenderebbero l, S, P. Si veda A. ROSSI, Un autografo ficiniano delle «Egloghe» alla Nazionale di Parigi, cit., p. 296.

39 Id., Dante, Boccaccio e la laurea poetica, in «Paragone», 150, 1962, pp. 3-41; id., Il carme di

Giovanni del Virgilio a Dante, in «Studi danteschi», 40, 1963, pp. 133-270; id., Boccaccio autore della corrispondenza Dante-Giovanni del Virgilio, in «Miscellanea Storica della Valdelsa», LXIX, 1963, pp. 130-172; id., Dossier di un'attribuzione. Dieci anni dopo, in «Paragone», 216/36, 1968, pp. 61-125.

40 Id., Dante, Boccaccio e la laurea poetica, cit. 41 Ivi, p. 5.

onore della coronazione dell'alloro poter pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la Fortuna graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare; acciò che quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi medesimo per la coronazione prendesse il secondo.” (Trattatello I red. 125-126)

“Poi in Italia tornatosi e in Ravenna riduttosi, [...] fece fine alla sua vita e alle sue fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' Frati Minori sepellito, senza aver preso alcuno titolo o onore di maestrato, sì come colui che 'ntendea di prendere la laurea nella sua città, come esso medesimo testifica nel principio del canto XXV del Paradiso; ma al suo desiderio prevenne la morte” (Esposizioni Accessus 35)

Rossi, riprendendo un'ipotesi di Todeschini formulata nel 1872, sostiene che l'augurio espresso dall'Alighieri fosse quello di ottenere “la berretta del dottore in teologia”42, vale a dire la laurea in teologia. Le prove sarebbero le seguenti: nei canti XXIV, XXV, XXVI del Paradiso il pellegrino viene esaminato sulle virtù teologali da Pietro, Giacomo e Giovanni con un metodo simile a quello delle dispute che si svolgevano nelle Università di teologia e, al termine della sua professione di fede, Pietro gira intorno a lui tre volte come segno di approvazione (Pd XXIV 148-154). In Terra il riconoscimento equivalente a quello che ha luogo in Cielo può essere soltanto la laurea in teologia che dovrebbe spettare a Dante in virtù della Commedia dove “ha posto mano e cielo e terra” (Pd XXV 2). Rossi avverte però che questo cappello di dottore in teologia auspicato dall'autore ha un significato allegorico: non deve essere quindi inteso nel suo significato letterale di laurea, ma in quello di giusti riconoscimenti da parte dei concittadini43. A mio avviso le prove offerte dallo studioso non sono affatto convincenti, in quanto per Dante la Commedia era innanzitutto un'opera poetica (anche se definita “sacrato poema” e se con i testi sacri condivide l'insegnamento di verità che provengono direttamente da Dio) e in quanto nei versi in questione mette in evidenza che il ritorno in Firenze avverrà da poeta, non da teologo: “con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta” (vv. 7-8). Non si dimentichi infatti che fin dall'inizio della Commedia l'autore si presenta come poeta e lo ribadisce sia eleggendo come sua guida un altro poeta sia in episodi significativi come gli incontri con i padri letterari della classicità (If IV), con Bonagiunta da Lucca (Pg XXIV), Guinizzelli e Arnaldo Daniello (Pg XXVI), Casella (Pg II), Carlo Martello (Pd VIII). Ritengo dunque erronea la seguente affermazione di Rossi: “Dante si sentiva più teologo che poeta”44.

42 Ivi, p. 24.

43 Sul significato del termine “cappello” nei versi danteschi in questione è tornata recentemente Rigo,

sostenendo che esso rappresenta “l'insegna della riacquistata cittadinanza” fiorentina, per mezzo del poema, non ancora avvenuta ma sperata e di cui potrebbe essere prefigurazione “il ritorno nella patria ultraterrena”, sancito dall'approvazione di San Pietro. Si veda P. RIGO, Memoria classica e memoria biblica in Dante, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1994, pp. 135-163.

Un'altra argomentazione addotta dal critico a sostegno della sua interpretazione è la consapevolezza da parte dell'esule fiorentino di non potere ottenere la laurea poetica sulla base di opere in volgare: argomento, a mio avviso, troppo debole per sostenere che egli non abbia comunque voluto esprimere il proprio desiderio di tornare in patria e venire qui insignito dell'alloro quale riconoscimento dei valori, anche linguistici, e degli insegnamenti di cui è portatrice la Commedia. Questa considerazione serve però a Rossi per andare a parare dove desidera fin dall'inizio: le Egloghe e la loro autenticità. Se Dante nel poema non ha espresso l'ambizione della laurea perché già sapeva che non l'avrebbe ottenuta, non può averlo fatto nemmeno nella corrispondenza con Giovanni del Virgilio. Fu Boccaccio ad avere interpretato erroneamente il passo del Paradiso e ad avere alimentato questa idea sulla scia della laurea petrarchesca e della vicinanza con l'Aretino. Alle posizioni sul volgare e sulla Commedia di quest'ultimo, Boccaccio rispose elaborando il profilo di un Dante capace di poetare anche in latino ma desideroso di mostrare le potenzialità della lingua materna, di un Dante che avrebbe potuto ricevere la laurea se la sorte non gli avesse opposto l'esilio o la morte prematura: è ciò che si legge nel carme Ytalie iam certus honos (Carmina V 21-22), nel Trattatello (I red. 126), nell'epistola a Pizzinga (Epistole XIX 26), nelle Genealogie (XIV VI 5) e

nelle Esposizioni (Accessus 35). Rossi parla di “una serie di slogans da esibire al momento opportuno”45 disseminati nelle proprie opere in risposta e in difesa ai giudizi renitenti espressi da Petrarca. Questi “slogans”, insieme alla laurea poetica di Dante celebrata nell'Amorosa Visione, al leit motiv della corona lungo tutta la cornice del Decameron, all'identificazione di Dante e Petrarca con i due amanti di Lauretta della canzone al termine della III giornata46, dimostrano come tale argomento tormentò Boccaccio: quanto basta per far concludere a Rossi che il nostro cultore di Dante “lesse nel Paradiso un desiderio inesistente e vi fece sopra qualche ingenuo ricamo. Poi la clientela petrarchesca smosse tutto il blocco di immaginazioni che ci siamo sforzati di descrivere partitamente: le egloghe sono un pezzo di quel blocco”47. Tali “immaginazioni” sarebbero dunque state elaborate sull'esempio del modello biografico offerto da Petrarca: come quest'ultimo aveva rifiutato la laurea a Parigi per Roma, così anche Dante rifiuta nelle Egloghe quella offerta da Giovanni del Virgilio a Bologna per il fatto di avere già scelto Firenze. Ad avallare l'ipotesi che sia tutto frutto dell'inventiva

45 Ivi, p. 30.

46 Rinvio alle pp. 87-89 dove sono stati esposti i significati allegorici della canzone individuati da Rossi

e da Picone.

boccacciana, Rossi chiama in causa il seguente passo del Trattatello: “quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea pigliare” (I red. 126). Lo studioso rinviene inoltre in alcuni passi delle Egloghe delle parafrasi dei vv. 1-9 di Pd XXV nei quali la fantasia di Boccaccio volle vedere il desiderio della laurea poetica anziché i generici “onori e riconoscimenti”48:

“Nonne triumphales melius pexare capillos et patrio, redeam si quando, abscondere canos fronde sub inserta solitum flavescere Sarno?” (II 42-44)

“Non è forse meglio pettinare per il trionfo i capelli, e, se mai torni in patria sulle rive dell'Arno, lì nasconderli canuti sotto la fronda intrecciata, dove ero solito aver florida chioma?”

Secondo lo studioso, “redeam si quando” sarebbe parafrasi di “Se mai continga”, mentre la seconda parte del v. 43 e il v. 44 di “con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta”. I seguenti versi riecheggerebbero “e in sul fonte / del mio battesmo prenderò 'l cappello”:

“[...] iterum flavescere canos fonte tuo videas” (III 44-45)

“Oh, se un giorno tu veda di nuovo presso il tuo fonte fiorire […] la santa canizie”

Se quanto visto finora è stato il punto di partenza, Rossi prosegue le sue indagini operando un confronto fra il carme di Giovanni del Virgilio (che ha dato il via alle tre egloghe successive) con le opere di quest'ultimo e con quelle boccacciane49. Lo studioso giunge a stabilire che esso sia frutto di un'invenzione del Certaldese in quanto con la sua produzione latina condivide riprese da autori classici, espressioni, vocaboli, concetti. Particolarmente probanti sarebbero delle analogie che il critico ravvisa fra alcuni passi del carme delvirgiliano e alcuni delle opere di Boccaccio dedicate a Dante, fra le quali l'epistola di Ilaro che Rossi dà per scontato essere una sua falsificazione. Ad esempio in

Egloghe I 4 la Commedia viene descritta come l'opera in cui il suo autore illustra il destino ultraterreno delle anime in base ai loro meriti (“pro meritis animarum”). Lo studioso obietta che, dato il riferimento all'intero poema, non si sarebbe dovuto parlare solo di meriti ma anche di demeriti, giungendo a ritenere questa anomalia in linea con il seguente passo del Trattatello che si rifà all'epistola a Cangrande:

“Et si totius operis allegorice sumpti subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem est iustitie premiandi et puniendi obnoxius” (34)

“E se il soggetto di tutta l'opera intesa allegoricamente è l'uomo in quanto acquistando meriti e demeriti per effetto del libero arbitrio è esposto alla giustizia del premio e del castigo”

48 Ivi, p. 24.

“nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversità, la vita degli uomini.” (Trattatello I red. 177)

Boccaccio avrebbe dunque fatto convergere nell'espressione “secondo i meriti” il binomio “merendo et demerendo”, lasciando cadere il parallelismo presente nella lettera con l'altro binomio “premiandi et puniendi” mantenuto nel Trattatello con “mordere e premiare”.

In Egloghe I 5 si dice che le anime dei beati si trovano negli “epyphebia regna”, espressione spiegata nella chiosa relativa dello Zibaldone XXIX.8 come “al di sopra di Febo, che è il Cielo Empireo”. Rossi contesta che se il carme fosse delvirgiliano, a quella data il Paradiso doveva ancora essere pubblicato, pertanto non si poteva avere una conoscenza così dettagliata della collocazione dantesca dei beati ossia nell'Empireo, posto al di sopra del cielo del Sole.

Secondo Rossi il v. 6 (“tanta quid heu semper iactabis seria vulgo”50) non solo è un calco dei vv. 2-3 del carme Ytalie iam certus honos (“hoc suspice gratum / Dantis opus doctis, vulgo mirabile”51) ma richiama anche un luogo dell'epigrafe scritta da Giovanni del Virgilio per la morte di Dante (“vulgo gratissimus auctor”, v. 3), componimento riportato nel Trattatello (I red. 91) che per il critico è frutto di una falsificazione boccacciana.

Ai vv. 25-29 vengono suggeriti dei fatti storici che potrebbero essere i soggetti adatti ad un poema epico in latino. Essi hanno tutti come protagoniste delle figure legate alla vita dell'esule, alle sue posizioni politiche o alle sue speranze di ritornare a Firenze: Arrigo VII che scese in Italia per riportarla sotto l'insegna imperiale52, Uguccione della Faggiuola che sconfisse i guelfi a Montecatini nel 131553, Cangrande della Scala vittorioso su Padova54, il re guelfo Roberto d'Angiò sconfitto dai Genovesi. Boccaccio, che cercò di ricostruire i fatti ed i personaggi che avevano animato e dato vita alla Commedia, comprese l'importanza di queste vicende politiche nella vita di Dante: infatti nel Trattatello sono presenti la maggior parte di questi uomini di potere, da Enrico VII

50 “perché getterai sempre innanzi al volgo argomenti sì gravi”. 51 “accogli quest'opera di Dante, grata ai dotti, al volgo mirabile”.

52 Il v. 26 recita “dic age quo petiit Iovis armiger astra volatu” (“narra con che volo l'armigero di Giove

salì agli astri”). Le medesime espressioni si trovano in alcuni scritti boccacciani: “in astra volatus” (Buccolicum carmen XI 100), “Jovis armiger” (Genealogie XI Proemio).

53 Il v. 27 “dic age quos flores, que lilia fregit arator” (“narra quali fiori, quali gigli troncò l'aratore”)

richiama –secondo Rossi– Buccolicum carmen V 9-10 “Quid lilia falce / secta loquar, floresque malo iam sole reflexos?”.

54 Il verso riguardante Cangrande “dic Frigios damas laceratos dente molosso” (“parla dei daini frigi

straziati dal dente del molosso”) presentano il verbo 'lacerare' il cui uso è ampiamente diffuso nelle opere latine e non di Boccaccio. Inoltre in Buccolicum carmen XV 71 si rinviene l'espressione “dente molosus”.

sul quale l'Alighieri “prese speranza […] di potere in Fiorenza tornare” (I red. 76), a Uguccione a cui si riferisce essere stata dedicata la prima cantica (I 193) e presso il quale Dante venne ospitato (I 74), a Cangrande che secondo alcuni è il vero dedicatario della Commedia (I 194) e al quale l'autore inviava il Paradiso a puntate (I 183). Rossi mette in evidenza come i quattro fatti storici, tutti presenti nel capitolo IX della Nuova cronica di Villani, potessero bene adattarsi agli interessi del Dante ghibellino ritratto nel Trattatello.

Un altro verso che il critico considera probante per la sua tesi è il 38 “inclita Peneis redolentem tempora sertis” (“con le illustri tempie profumate dai serti d'alloro”), dove con Peneus si intende Dafne, figlia del dio Peneo e trasformata in lauro. Lo studioso rileva che anche in molti passi boccacciani la ninfa è menzionata con il patronimico, comparendo nel Filocolo, nella Comedia delle ninfe, nelle chiose al Teseida, nell'Amorosa Visione, nel Buccolicum carmen, nelle Genealogie.

La glossa dello Zibaldone XXIX.8 che, nel componimento al Mussato, informa sulla ricezione postuma dell'ultima egloga a Giovanni del Virgilio mediante il figlio di Dante, secondo il critico propone il medesimo espediente di quello inventato nel Trattatello (I 186-189) per quanto riguarda il ritrovamento dei canti finali del Paradiso tramite un'apparizione notturna dell'Alighieri defunto al figlio.

Un'altra prova per Rossi, questa volta non basata su somiglianze fra testi ma sul contesto storico e culturale in cui le Egloghe dovettero essere composte se autentiche, riguarda il fatto che nel Trecento le incoronazioni poetiche venivano insignite da chi aveva una certa autorità politica, come re Roberto con Petrarca e re Carlo IV di Boemia con Zanobi da Strada. Giovanni del Virgilio non poteva arrogarsi dunque tale diritto, non aveva né le conoscenze né i mezzi per potere proporre una laurea a Dante.

Lo studioso inoltre non accetta lo stemma codicum elaborato dai colleghi che hanno svolto studi sulla tradizione delle Egloghe e sostiene che non è possibile parlare di un archetipo basandosi su un errore presente in tutti i manoscritti: a I 39 i testimoni riportano “praefectus equo”, mentre per senso e per la reminiscenza ad un passo di Virgilio la forma corretta doveva certamente essere “prevectus equo”. Per Rossi non è corretto sostenere l'esistenza di un archetipo perché innanzi tutto questo I carme non era raccolto nella presunta antologia bucolica di Santo Spirito, in secondo luogo perché “praefectus” non è certo che fosse l'errore di uno scriba: “esaminando la tradizione di altre opere boccaccesche di cui ci rimane l'autografo, è possibile rinvenire negli

autografi errori recidivi passati nella tradizione”55.

Infine sintetizzo i motivi che, secondo il propugnatore della paternità boccacciana delle Egloghe, avrebbero spinto l'autore alla falsificazione di questi e altri componimenti. Il rimprovero che del Virgilio muove a Dante, scrivere in volgare di argomenti elevati, ha delle analogie con il dibattito intercorso fra Petrarca e Boccaccio sulla Commedia: il primo critica la scelta linguistica, il secondo risponde dunque – mediante l'invenzione della corrispondenza bucolica– che l'autore del poema avrebbe potuto avere la corona d'alloro ovunque se non avesse scelto Firenze (idea che gli deriva dalla cattiva interpretazione di Pd XXV 1-9). Per Rossi l'interlocutore e l'ispiratore del dantismo boccacciano è Petrarca al quale il Certaldese voleva dimostrare che la sua prima “fax” avrebbe potuto comporre in latino e che sarebbe riuscita a ricevere l'alloro se non fosse stato per l'esilio e per la morte prematura che serrarono per sempre fuori la patria l'eminente cittadino. Per svolgere questa dimostrazione egli ordì una serie di opere, a partire dalla lettera di Ilaro tramandata solo dal suo Zibaldone, alla corrispondenza eglogistica con relative chiose, all'epitafio di Giovanni del Virgilio per la morte di Dante che viene riportato nel Trattatello, all'egloga del maestro bolognese al Mussato. Convinto che l'autore della Commedia morì senza avere raggiunto il suo principale desiderio (essere incoronato poeta in Firenze grazie al sacro poema), Boccaccio ha voluto “consegnare alla storia un Dante conforme ai suoi ideali di umanista devoto al Petrarca”56.

Tutte le argomentazioni di Rossi non sono per niente decisive: basate su somiglianze fra testi, sono labili indizi che provano piuttosto un'attenta lettura da parte di Boccaccio delle Egloghe. Inoltre la tesi di falsificazione compiuta fra il 1351 e il 1355 viene a cadere alla luce degli ultimi studi sulla cronologia della stratificazione degli Zibaldoni Laurenziani che collocano, come visto precedentemente, la trascrizione dei componimenti bucolici tra il 1341 e il 1344, quando ancora non era iniziato il dialogo con Petrarca sulla Commedia e sul volgare, dialogo considerato da Rossi il motivo scatenante della serie di falsificazioni boccacciane.

La critica ha unanimemente rifiutato l'attribuzione formulata da Rossi: in particolare Cecchini e Padoan hanno dimostrato come numerosi aspetti di questi componimenti smontino l'ipotesi della falsificazione57. Cecchini oppone ragioni di tipo metrico e

55 A. ROSSI, Dossier di un'attribuzione. Dieci anni dopo, cit., p. 110. 56 Id., Il carme di Giovanni del Virgilio a Dante, cit., pp. 244-245.

57 Anche Billanovich è intervenuto nella questione sostenendo, quali prove dell'autenticità, l'errore che

accomuna tutti i codici della tradizione (“prefectus” invece di “prevectus” in I 39), gli errori presenti nel testo dello Zibaldone XXIX.8, i fraintendimenti dimostrati da alcune glosse apposte nel medesimo

lessicale, dimostrando come vi siano dei divari tra le Egloghe e i carmi latini del Certaldese58. Oltre a queste prove, ve n'è un'altra fornita dalle annotazioni marginali che si trovano nello Zibaldone le quali a volte tacciono punti oscuri del testo59 o mal interpretano alcune parole60. Lo studioso si interroga dunque: “se il Boccaccio glossava testi suoi, perché fingeva di non capirli?”61. In particolare si esaminino i vv. 48-50 della II egloga e la chiosa relativa:

“[…] Cum mundi circumflua corpora cantu astricoleque meo, velut infera regna,

patebunt, devincire caput hedere lauroque iuvabit”

“Quando i corpi rotanti intorno all'universo e gli abitatori del cielo saranno, come i regni inferi, palesi nel mio canto, mi piacerà cingermi il capo d'edera e d'alloro”

Il significato di questi versi è il desiderio espresso da Dante di ricevere l'alloro poetico una volta completato anche il Paradiso, indicato con “mundi circumflua corpora