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Come già detto in precedenza, il successo di Cry, the Beloved Country fu colossale ed inaspettato, tanto da cambiare per sempre la vita dell’autore e della sua famiglia, sia in termini di notorietà che economici. Certamente, la clamorosa fortuna del romanzo fu in parte dovuta al singolare momento storico fotografato da Paton, il quale riuscì a fornire ai lettori un quadro convincente del Sud Africa pre-apartheid, portando al centro dell’attenzione la dolorosa questione dello spopolamento rurale, dell’annientamento dei costumi tribali, della desolazione presente nelle criminose

township, affette da un degrado economico e, soprattutto, morale.

Senza dubbio, un innegabile punto di forza del romanzo risiede nel suo spirito cristiano e liberale, attraverso il quale l’autore ha potuto dipingere uno scenario di devastazione in cui, però, è ancora presente una possibilità di redenzione. La speranza e la fede in un futuro di uguaglianza sociale, ispirate dal forte credo religioso e dalle personali opinioni politiche di Paton, sono quindi alcune delle caratteristiche distintive dell’opera, elaborate all’interno di una storia realistica ambientata nel periodo immediatamente precedente l’istituzione del regime dell’apartheid.

Vista la sua notorietà, Cry, the Beloved Country fu ben presto selezionato da drammaturghi ed esponenti dell’ambiente cinematografico, i quali proposero diverse trasposizioni della storia originale, in versione sia teatrale, sia per il grande schermo.

20 N

ADINE GORDIMER, “English-Language Literature and Politics in South Africa”, 1976, cit. in

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Il primo adattamento drammatico fu Lost in the Stars, un musical scritto e diretto da Maxwell Anderson, con musiche curate dal noto compositore Kurt Weill21, messo in scena per la prima volta il 30 ottobre 1949. Su richiesta di Anderson, Paton si recò a New York per incontrare il cast e per assistere alle prove finali della rappresentazione, ma ne rimase fortemente deluso: con suo profondo disappunto, infatti, il musical non corrispondeva quasi per niente alla storia originale. La versione teatrale proposta da Anderson e Weill si distaccava dal romanzo in molti aspetti, al punto che Paton non riuscì a riconoscerci le caratteristiche peculiari del proprio lavoro, prima fra tutte la semplicità e la spiritualità dei personaggi principali. In particolare, fu colpito negativamente dal personaggio di Stephen Kumalo, interpretato da un sofisticato cantante, Todd Duncan, il quale non rifletteva assolutamente la personalità dell’umile curato di campagna dipinto nel romanzo.22

Quello che però lo lasciò maggiormente perplesso fu l’interpretazione proposta dal drammaturgo americano, aliena dal taglio religioso. Infatti, le loro visioni del mondo non avrebbero potuto essere più diverse: lo spirito profondamente cristiano infuso nel testo originario lasciò spazio, all’interno del musical, a uno scetticismo pungente, dettato dalla convinzione di Anderson che Dio avesse scelto di abbandonare i suoi fedeli a se stessi, lasciandoli soli a vagare in una wasteland, un mondo dove la speranza non può più esistere. Lo stesso Paton descrisse una simile condizione di amara sospensione in questi termini: “He was not an atheist, and certainly not a militant one. In fact, if Lost in the Stars is to be taken seriously, he believed that there had been a Creator and that he had gone away leaving us lost out here in the stars”23

.

Significativa è dunque la scelta del titolo, estrapolato da una delle canzoni presenti all’interno del musical, la quale esprime una sorta di lamento, un vero e proprio cry24, nei confronti di un Dio che ha abbandonato i suoi figli, dimenticando

21 Kurt Julian Weill (1900-1950) è stato un compositore e musicista tedesco. Nato a Dessau,

inaugurò la propria carriera negli anni ’20 in Germania, ma, essendo ebreo, fu costretto presto ad emigrare, trasferendosi prima a Parigi, poi a Londra ed, infine, a New York. La sua musica, che secondo la sua concezione doveva essere composta per uno scopo socialmente utile, fu molto apprezzata e gli aprì le porte per collaborazioni importanti, come quella con Bertolt Brecht.

22 Cfr. P

ETER.F.ALEXANDER, op. cit., p. 248.

23

ALAN PATON, Journey Continued, 1988, cit. in EDWARD CALLAN, Cry, the Beloved Country. A

Novel of South Africa, cit., p. 102. 24 C

AROL IANNONE, “Alan Paton’s Tragic Liberalism”, American Scholar, vol. 66 (3), 1997, p.

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le promesse fatte loro in precedenza25. Niente avrebbe potuto essere più lontano dalla filosofia patoniana, distorta in questo musical da un’interpretazione secolare che sembrava giustificare la dispersione del “gregge”, piuttosto che un’unione comunitaria. Ciò nonostante, Lost in the Stars riscontrò un ampio ed immediato successo fra il pubblico e, soprattutto, fra la critica, la quale lo acclamò come un

musical ben riuscito e addirittura rappresentativo della vera essenza del romanzo. Lost in the Stars fu sicuramente l’adattamento teatrale che ricevette il maggior

apprezzamento da parte del pubblico, ma non fu l’unico; un’altra versione drammaturgica fu quella inglese a firma di Felicia Komai, con la collaborazione e la partecipazione dell’attrice britannica Josephine Douglas. Come si evince dal titolo stesso, Cry, the Beloved Country: A Verse Drama, questa rielaborazione, messa in scena per la prima volta nel febbraio 1954 a Londra, fu molto più fedele alla storia originale, e rese merito alle tematiche universali in essa presenti facendo anche leva sull’interesse del pubblico straniero per le vicende sudafricane.

Cry, the Beloved Country è stato poi scelto per due produzioni cinematografiche.

La prima, risalente al 1951, fu diretta da Zoltan Korda, un giovane attore e regista che, insieme al fratello Alexander, occupava una posizione di spicco nel mondo cinematografico britannico dell’epoca. Il film fu ideato con la collaborazione dello stesso Paton, il quale si recò personalmente a Londra, nell’agosto del 1949, per contribuire alla stesura dello script. I fratelli Korda, emigrati in Inghilterra dall’Ungheria dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, erano noti nell’ambiente cinematografico per i loro numerosi successi, ma anche per i gusti particolarmente “esotici” di Zoltan, il quale amava inserire all’interno dei propri film tematiche legate alla complessità dell’esperienza coloniale26. Paton, che condivideva con il regista alcune convinzioni importanti, fra tutte il rispetto per la libertà dell’individuo e per la legge e un odio profondo per l’autoritarismo, collaborò quindi con Zoltan,

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“But I've been walking through the night, and the day/ Till my eyes get weary and my head turns grey/ And sometimes it seems maybe God's gone away/ Forgetting his promise that we've heard him say/ And we're lost out here in the stars./ Little stars, big stars/ Blowing through the night/ And we're lost out here in the stars” [Lost in the Stars, http://www.kwf.org/pages/ww-lost-in-the-stars.html (consultato in data 21/11/2016)].

26 Cfr. M

ARK BEITTEL, “What Sort of Memorial? Cry, the Beloved Country on Film”, in ISABEL

BALSEIRO e NTONGELA MASILELA (eds), To Change Reels. Film and Film Culture in South Africa, Wayne State University Press, Detroit 2003, pp. 73-74.

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assicurandosi che la pellicola non tradisse la storia e la caratterizzazione originale dei personaggi.

Al film, ambientato e girato quasi integralmente in Sud Africa, prese parte un ampio cast internazionale. I protagonisti non erano però di origini sudafricane: gli attori principali e più noti, come Canada Lee (Stephen Kumalo), Charles Carson (James Jarvis) e Sidney Poitier (Theophilus Msimangu) erano infatti americani o inglesi, mentre alcuni dei ruoli minori furono interpretati da attori come Lionel Ngakane (Absalom Kumalo), di origini africane. All’interno del film, ambientato in un presente virtualmente senza tempo, furono evitati riferimenti diretti al contesto storico, in modo tale da indirizzare il pubblico verso un’interpretazione maggiormente simbolica della storia di Kumalo e Jarvis, enfatizzando il dramma della lotta fra bene e male e la speranza di un futuro migliore.27 Questo scontro viene rappresentato, in sintonia con le traiettorie del romanzo, attraverso le storie dei due personaggi principali, Kumalo e Jarvis, i quali sono contemporaneamente agli antipodi e speculari.

In particolare, l’enfasi viene posta sul percorso di presa di coscienza di Jarvis, il quale, in seguito all’improvvisa morte del figlio, va incontro ad un progressivo ma deciso ravvedimento. Mark Beittel, nel saggio da lui dedicato ai due film basati su

Cry, the Beloved Country, descrive come, con scene e momenti sapientemente

ritagliati ed incastonati all’interno della trama, i due personaggi principali vengano messi a confronto, utilizzando magistralmente l’espediente della stretta di mano fra uomini di etnie diverse. Il film mostra, quindi, come l’evoluzione del personaggio di Jarvis passi attraverso la graduale accettazione ed accoglienza del “diverso” all’interno della propria vita. Inizialmente, in una scena creata appositamente per il film, si vede infatti un Jarvis sconvolto dalla visione di una foto pubblicata sul giornale, in cui il figlio sta stringendo la mano ad un uomo di colore. Questa scena, dove il farmer appare indignato per le frequentazioni poco “raccomandabili” del figlio, si oppone a quelle in cui viene rappresentata la conversione dell’uomo, catalizzata proprio dall’omicidio di Arthur. Solo dopo questo episodio, infatti, il

master bianco riesce riesce finalmente a comprendere gli ideali e gli sforzi di Arthur,

arrivando persino ad abbracciarli lui stesso.

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Il momento decisivo che suggella il cambiamento di Jarvis è anch’esso rappresentato nel film con una stretta di mano: al funerale, cui partecipano uomini e donne delle etnie più variegate (a dimostrazione di come le idee illuminate e democratiche professate dal giovane Arthur avessero trovato un seguito), Jarvis stringe la mano anche ai nativi presenti, accettando le loro condoglianze e condividendo il dolore per la perdita del figlio. Da questo momento in poi, il “ravvedimento” sarà completo e l’uomo si metterà all’opera per perseguire gli ideali di Arthur, che solo adesso riesce a comprendere fino in fondo.

All’interno del film l‘“espediente” della stretta di mano permette, quindi, di individuare e sottolineare i punti cruciali e i momenti di riflessione più significativi. Uno di questi momenti si esplica, ad esempio, attraverso le strette di mano fra Stephen Kumalo ed i missionari volontari, sia neri che bianchi, che lo accolgono alla Mission House di Sophiatown: questo momento, oltre a sottolineare l’atmosfera di insolita armonia multietnica all’interno di una township, veicola uno dei parametri etici principali sia del romanzo che del film, cioè la generosità, l’umiltà e la bontà degli uomini di chiesa28.

All’interno del film prodotto dai fratelli Korda è possibile individuare, comunque, anche degli indizi sul messaggio più strettamente politico che i due registi volevano trasmettere: infatti, nonostante questo specifico adattamento proponga un’interpretazione principalmente simbolica, alcuni elementi richiamano la visione ideologico-politica sia di Zoltan che dello stesso Paton. Questo è evidente, ad esempio, nella rappresentazione del personaggio di John Kumalo, fratello di Stephen, il quale nel film viene associato a una degenerata ideologia comunista in modo alquanto esplicito: tutto quello che John rappresenta si profila qui come immorale, ingiusto e corrotto, ponendo questa figura in evidente contrasto con quella di Stephen o del Reverendo Msimangu. Le idee anti-comuniste dei fratelli Korda, pienamente condivise da Paton, trovano espressione nel film, in cui vengono tuttavia messi in luce anche i limiti della filosofia del liberalismo cristiano.

Nonostante segua la storia originale passo per passo, nel finale il film lascia trapelare l’idea di come la scala sociale non possa cambiare nella realtà dei fatti, poiché i bianchi continuano a predominare sui nativi. Emblematico è il momento

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dell’ultimo incontro fra James e Stephen, il quale si sta recando sulla cima della montagna per pregare nel giorno in cui è prevista l’esecuzione del figlio a Johannesburg. In questa occasione, il bianco, personificato da Jarvis, sembra costituire l’unico “garante” della possibilità di una redenzione dell’umanità, mentre Kumalo non può fare altro che accettare stoicamente e dignitosamente le tragedie che affliggono la sua esistenza.

Il film ricevette delle recensioni contrastanti e, nonostante abbia vinto anche svariati premi, non riscosse mai un grande successo fra il pubblico. Lo stesso destino fu condiviso dal secondo film basato su Cry, the Beloved Country, uscito nel 1995 con la collaborazione fra il regista sudafricano Darrel Roodt e il produttore nero Anant Singh. Seguendo un filone anti-apartheid fatto proprio dall’ambiente hollywoodiano, anche il cast della versione del 1995, nonostante fosse voluta e diretta da sudafricani, vide nei ruoli principali la partecipazione di attori americani (come James Earl Jones, per Stephen Kumalo) o inglesi (come Richard Harris, per James Jarvis). Il progetto si presentò fin dall’inizio come estremamente ambizioso, poiché la volontà di Roodt era dichiaratamente quella di mettere in atto una vera e propria riscrittura del film precedente, che il regista considerava troppo concentrato sulla questione coloniale. Mark Beittel riporta come l’intenzione di Roodt fosse, quindi, attribuire alla storia narrata nel film del 1951 una maggiore umanità e complessità, andando oltre le “basilari” dinamiche manicheistiche: il suo obiettivo era cercare di comprendere il passato e reinterpretarlo nel tentativo di raccontare la storia del Sud Africa da una nuova prospettiva29.

Il personaggio di Stephen Kumalo è qui reso maggiormente cosciente della realtà che lo circonda, grazie all’attribuzione alla voce di Jones del ruolo aggiuntivo di narratore onnisciente, che man mano racconta e commenta l’intera vicenda. James Jarvis viene inizialmente dipinto come il tipico “white South African farmer”30, la cui evoluzione non avviene osservando la partecipazione multirazziale al funerale del figlio (come invece succedeva nel film del 1951), ma scaturisce dal primo incontro con Kumalo, oltre che grazie alla lettura degli scritti di Arthur.

Il film, fedele alla storia narrata da Paton quasi cinquanta anni prima, è stato però reso in certi aspetti più sentimentale e paternalistico, in particolare per quanto

29 Cfr. ivi, p. 82. 30 Ivi, p. 83.

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riguarda la figura di Kumalo, rappresentato in lacrime in diversi momenti, soprattutto in occasione delle rare azioni di benevolenza e umanità compiute dai bianchi nei confronti dei nativi. Emblema di questa enfasi è certamente la scena finale, in cui, come nel romanzo e nell’adattamento precedente, Jarvis si offre di finanziare la ricostruzione della chiesa di Ndotsheni; Roodt aggiunge però alcuni particolari, come la richiesta di Jarvis di porre all’interno della chiesa una targa in memoria di Arthur: questo elemento, oltre che veicolare la concezione di storia “monumentale”31 avallata nel film, si erge a simbolo di un’interpretazione che esalta le azioni e lo spirito magnanimo di un uomo bianco, il defunto Arthur.

Come emerge dall’analisi proposta da Mark Beittel, i due film sono comunque entrambi molto fedeli alla trama originale, che non hanno modificato o distorto in modo eclatante. Essi mostrano alcune caratteristiche in comune, prima fra tutte la scelta di utilizzare in apertura la famosa frase dell’incipit patoniano e, allo stesso modo, terminare nel finale con le parole conclusive del romanzo in sovraimpressione sullo schermo. In entrambi i film, inoltre, è stata fatta la scelta, dettata certamente da necessità tecniche di adattamento, di giustapporre l’avvicendarsi delle storie di Kumalo e Jarvis, alternandole fra loro (diversamente dal romanzo, in cui viene tracciata prima la storia del prete nero di campagna, seguita da una contestualizzazione di quella del farmer bianco, per poi farli incontrare nella parte conclusiva)32.

Quello che risalta maggiormente è però il fatto che nessuna delle due versioni abbia scelto di rappresentare la prospettiva del cambiamento della vita rurale e dell’apprendimento di tecniche di allevamento e coltivazione dipinta da Paton nel Libro III del romanzo, eliminando drasticamente la sezione in cui viene mostrato il ritorno dei protagonisti alla vita in campagna e i loro sforzi congiunti per migliorare le condizioni della popolazione. I film hanno scelto di focalizzarsi sul dramma legato alla pericolosità e alle insidie dell’ambiente urbano per gli uomini onesti.

Nonostante le somiglianze fra i due adattamenti, il secondo film non è, come già anticipato, semplicemente una replica del primo: ad esempio, ognuno dei due ha

31 Il concetto di “storia monumentale” rimanda a una visione della storia in cui la continua

reinterpretazione del passato viene operata attraverso l’analisi di una serie di fatti ed eventi centrali (o personaggi cruciali), cui è conferita valenza emblematica. In questo modo, la messa a fuoco del passato è ristretta ad una sorta di “memoriale” sintonizzato su un’interpretazione canonica.

32 Cfr. M

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selezionato episodi diversi per rappresentare i momenti centrali della trama, in base alle necessità scenografiche o alle preferenze dei registi. Inoltre, i due adattamenti si differenziano per la scelta dell’approccio narrativo e, conseguentemente, per il modo in cui interpretano e commentano la vicenda, sicuramente influenzato dalle condizioni del contesto storico in cui sono stati prodotti. Quindi, se nella versione proposta da Zoltan Korda la storia è letta in modo simbolico, evitando precisi riferimenti fattuali, a vantaggio della visione del presente e del futuro, quella di Roodt e Singh imposta fin da subito uno stretto legame con lo scenario storico (proiettando sullo schermo il luogo e la data di svolgimento della narrazione), configurandosi come una interpretazione ed una riflessione sugli effetti che l’impronta indelebile dell’apartheid avrebbe potenziato33.

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CAPITOLO III

L’auspicio di una società multirazziale: bianchi e neri a

confronto in Cry, the Beloved Country

No one is born hating another person because of the colour of his skin, or his background, or his religion. People must learn to hate, and if they can learn to hate, they can be taught to love, for love comes more naturally to the human heart than its opposite.

Nelson Mandela , Long Walk to Freedom