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Il destino della gioventù sudafricana: Absalom Kumalo e Arthur Jarvis

Nonostante i veri protagonisti del romanzo siano i due padri descritti nel paragrafo precedente, lo sviluppo delle loro coscienze prende avvio inesorabilmente attraverso il tragico destino che si abbatte sui loro figli. Questi rappresentano una nuova generazione che, diversamente dalle precedenti, si trova a convivere in modo più pressante e subdolo con i danni arrecati dal colonialismo alla società e a portarne il pesante fardello. Infatti, mentre i loro padri sono parzialmente ignari delle reali condizioni in cui versa il paese ed in cui si instaurano i rapporti inter-etnici, la nuova generazione si dimostra consapevole dell’entità delle complesse dinamiche sociali ed economiche del Sud Africa. I mezzi a loro disposizione sono, per ovvie ragioni, diversi: Absalom, alla luce del suo status di nativo, non ha la possibilità di controbattere razionalmente le ingiustizie che lo investono. Al contrario, Arthur (e, come lui, John Harris), grazie ai privilegi di cui inevitabilmente gode in virtù del colore della propria pelle, ha modo di usufruire dei giusti strumenti per preparare la strada alla diffusione di ideali liberali e democratici, a sostegno di una società multietnica.

A rappresentare emblematicamente il gravoso peso della discriminazione razziale vigente nel paese è, certamente, il personaggio di Absalom, che, nonostante sia una delle figure centrali per lo sviluppo dell’azione, non compare molto all’interno del testo, profilandosi come un personaggio introverso e, in un certo senso, misterioso. Fin dalle pagine iniziali, il lettore scopre che egli si è recato, come moltissimi altri giovani Zulu, a Johannesburg (dove il padre lo ha inviato a cercare Gertrude), senza

20 Cfr. E

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tuttavia fare più ritorno. Si sarebbe trattenuto in città alla ricerca di un impiego e una vita migliori di quelli offerti dall’ambito rurale: egli scoprirà a proprie spese, però, che neppure l’ambiente urbano offre ai giovani neri opportunità lavorative dignitose e, dopo aver tentato inutilmente di resistere, cede alle “tentazioni” della giungla cittadina e della delinquenza, che lo condurranno ad una tragica fine.

Absalom entra dunque nel circolo vizioso della criminalità, dalla quale non riesce ad uscire: ormai invischiato in una vita fatta di furti e illeciti, sarà prima catturato dalla polizia e poi spedito in un riformatorio, il cui compito sarebbe dovuto essere quello di reindirizzarlo verso una vita onesta. Al di fuori dell’ambiente protetto del riformatorio, però, Absalom perde nuovamente il controllo e finisce per tornare sulla vecchia strada della criminalità: stavolta però, durante un furto in un’abitazione, egli spara e uccide un giovane uomo bianco, Arthur Jarvis, segnando così definitivamente il proprio destino. Nonostante la gravità del gesto, Absalom non è rappresentato da Paton come malvagio o feroce: al contrario, l’autore lo dipinge come un ragazzo ingenuo, confuso e, soprattutto, spaventato. All’interno di Cry, the Beloved Country, quindi, i natives non sono rappresentati come “selvaggi” divorati dall’odio nei confronti del colonizzatore bianco: pur precipitando spesso nella spirale della criminalità e commettendo reati anche gravi, essi hanno come attenuanti delle privazioni a cui la società li ha sottoposti, negando loro ogni forma di gratificazione e possibilità di sviluppo personale.

Nel quattordicesimo capitolo della prima sezione, emerge più chiaramente la figura di Absalom, grazie all’atteso incontro con il padre, quando ormai il giovane è già stato arrestato dalla polizia. Anche se non vede il padre da molto tempo, Absalom non riesce ad esprimere gioia, ma anzi sembra non reagire per niente alla dimostrazione di affetto di Kumalo: “They shake hands, indeed the old man takes his son’s hand in both his own, and hot tears fall fast upon them. The boy stands unhappy, there is no gladness in his eyes.” (p. 87). Il pathos e la commozione che comunque caratterizzano questo episodio sono ben espressi dalle parole di Kumalo, il quale, dopo averlo a lungo cercato, trova finalmente il figlio, che però gli appare inerme ed inespressivo, come svuotato di ogni forza vitale:

– My Child, my child – Yes, my father.

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– At last I have found you. – Yes, my father.

– And it is too late.

To this the boy makes no answer. (p.

ibidem)

Durante questo incontro, si scopre, insieme a Kumalo, che Absalom ha confessato l’omicidio, ammettendo la propria responsabilità per la morte del giovane Jarvis. Quando il padre gli chiede conto delle sue azioni, però, egli non è in grado di spiegarne le motivazioni: “– Why did you do this terrible thing, my child? […] There is a moisture in the boy’s eyes, he turns his head from side to side, and makes no answer. […] – I do not know, he says” (ibidem). Kumalo allora lo incalza, chiedendogli per quale ragione avesse portato con sé una pistola, e la risposta di Absalom chiarisce ulteriormente il degrado delle township in cui la comunità nera era costretta a vivere: “– For safety, he says. This Johannesburg is a dangerous place. A man never knows when he will be attacked” (p. 88). Il ragazzo prosegue, poi, dichiarando immediatamente le proprie responsabilità, ma, allo stesso tempo, giustificandosi, affermando di aver sparato nel momento in cui è stato preso dal panico: “– I told them I was frightened when the white man came. So I shot him. I did not mean to kill” (ibidem).

La colpa di Absalom è, in primis, quella di essere penetrato in una casa per rubare, cui sarebbe seguito un omicidio non programmato: egli avrebbe sparato poiché impaurito di fronte all’uomo bianco che, avendo sentito del trambusto, era sceso a controllare cosa stesse accadendo. La reazione di Absalom non era stata premeditata, ma dettata dall’istinto e dal panico. La paura, tema centrale in tutto Cry, the Beloved

Country, si impone qui come il fattore scatenante delle azioni di Absalom e

costituisce una sorta di filo conduttore che lega tutti i personaggi (sia neri che bianchi).

Durante la conversazione con Kumalo, il giovane è dipinto come un ragazzino spaventato ed imbarazzato di fronte alle domande postegli dal padre, alle quali non è in grado di dare una vera risposta. La rabbia e l’angoscia dell’uomo di chiesa nel constatare lo stato in cui versa il figlio, del quale sembra ormai rimasto soltanto un

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guscio vuoto, alienato da ogni emozione umana, riportano l’attenzione sul divario generazionale e sulla tragedia derivante dalla rottura dei legami tribali e familiari:

– I have searched in every place for you.

To that also no answer. The old man loosens his hands, and his son’s hand slips from them lifelessly. There is a barrier here, a wall, something that cuts off one from the other. (ibidem)

Quando Absalom ha lasciato Ndotsheni, non ha abbandonato soltanto i costumi e le tradizioni etniche, ma ha anche reciso ogni contatto con la propria famiglia: sono proprio queste relazioni interfamiliari che avrebbero potuto salvarlo, impedendogli di cedere all’abisso di barbarie che, invece, aveva intaccato l’integrità della maggior parte dei neri a Johannesburg. Quindi, anche se colpevole di un crimine orrendo, Absalom è fondamentalmente una vittima del sistema: costretto a vivere (o meglio, a lottare per sopravvivere) in un mondo per lui inadatto e poco ospitale, il ragazzo ha perso il senso della propria umanità. Egli appare, agli occhi del lettore e di Stephen, come invischiato in un’esistenza minata dal caos e dal terrore, che lo spingono a compiere atti insensati, come l’omicidio di Arthur Jarvis. Kumalo non riesce inizialmente a comprendere le motivazioni del figlio e, soprattutto, a spiegarsi la sua apparente mancanza di rimorso:

Kumalo’s voice rose as though some anguish compelled him. – He is a stranger, he said, I cannot touch him, I cannot reach him. I see no shame in him, no pity for those he has hurt. Tears come out of his eyes, but it seems that he weeps only for himself, not for his wickedness, but for his danger. (p. 97)

Con il passare del tempo, però, anche Kumalo riuscirà a rendersi conto del complesso insieme di cause concomitanti che hanno portato alla “distruzione” di quel figlio che lui e la moglie hanno cresciuto al villaggio e, di conseguenza, sarà in grado di perdonarlo21.

21 Sul perdono di Kumalo nei confronti di Absalom inciderà la scelta del ragazzo di sposare la sua

giovane compagna, accettando quindi anche le proprie responsabilità di uomo e, soprattutto, di futuro padre. La cerimonia viene organizzata da Stephen subito dopo il processo e i due giovani si uniscono in matrimonio, nonostante Absalom sia recluso in prigione in attesa dell’esecuzione (egli è stato, infatti, condannato a morte).

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Absalom Kumalo non è però, all’interno di Cry, the Beloved Country, l’unica vittima di una società impregnata di odio razziale: anche Arthur Jarvis, infatti, paga il fio delle ingiustizie di un sistema che soffoca la libertà di pensiero e azione. Egli viene, innanzitutto, colpito e neutralizzato fisicamente, ucciso da un colpo di pistola sparato da Absalom. Paradossalmente, però, il danno maggiore che subisce è quello di tipo morale: Arthur stava infatti portando avanti una lotta intelligente a un sistema bianco fondato sull’odio e sulla discriminazione razziale, finché non è stato sacrificato accidentalmente proprio da uno dei tanti giovani neri che cercava di sostenere.

Nonostante egli non compaia mai realmente sulla scena, Arthur è uno dei personaggi intorno a cui si accumulano più informazioni, attraverso gli occhi e le considerazioni del padre, James Jarvis. Esse derivano, come anticipato precedentemente, dagli scritti e dai testi che il farmer rinviene nello studio del figlio: è principalmente tramite questi importanti documenti che il personaggio di James riesce a incamminarsi in una conversione spirituale e morale, mentre Paton ha modo di esprimere le sue più profonde convinzioni politiche e religiose. Potremmo affermare, in un certo senso, che Arthur Jarvis sia una sorta di alter ego dell’autore, poiché è attraverso di lui che Paton espone in modo più diretto le proprie idee liberali. In particolare, Jarvis legge tre frammenti dei testi scritti dal figlio, i quali lo aiutano ad aprire gli occhi sui problemi della comunità sudafricana.

Innanzitutto, Jarvis si imbatte nelle numerose lettere che trova sulla scrivania dello studio, con cui il giovane veniva invitato a presenziare a conferenze o eventi importanti, a testimonianza della stima da lui ricevuta. James trova poi un primo frammento di un articolo, scritto da Arthur, a proposito di tematiche relative alla giustizia sociale e alla legittimità della colonizzazione bianca. In questo articolo, Arthur esprime le proprie idee affrontando direttamente la questione della rottura dell’organismo tribale, indicandola come causa principale di una reazione a catena che avrebbe inciso sulle criticità del periodo. Focalizzandosi sugli stadi dell’arrivo dei colonizzatori bianchi e del processo di conquista, Arthur denuncia lo sfruttamento a cui i nativi sono stati sottoposti nel corso degli anni, distinguendo fra ciò che, in una fase iniziale della colonizzazione, risultava “accettabile” e ciò che invece, dopo lunghi anni di dominazione europea, non sarebbe stato più

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“ammissibile”, moralmente lecito: “What we did when we came to South Africa was permissible. It was permissible to develop our great resources with the aid of what labour we could find. It was permissible to use unskilled men for unskilled work. But it is not permissible to keep men unskilled for the sake of unskilled work”(p. 126).

Arthur sottolinea come il successo della colonizzazione bianca sia stato, evidentemente, l’esito di un duro sfruttamento politico-economico del territorio e dei suoi abitanti. Questo processo si è inoltre sviluppato a spese del tradizionale sistema tribale, il cui deterioramento avrebbe avuto gravi conseguenze su tutta la comunità sudafricana. Secondo Arthur, il prezzo indegno delle politiche coloniali era ormai evidente ed insostenibile:

Such development has only one true name, and that is exploitation. It might have been permissible in the early days of our country, before we became aware of its cost, in the disintegration of native community life, in the deterioration of native family life, in poverty, slums and crime. But now that the cost is known, it is no longer permissible. (ibidem)

Nell’articolo, Arthur affronta questioni pratiche, quali la concentrazione del lavoro nelle miniere, la separazione delle famiglie, la necessità di una maggiore attenzione verso l’istruzione (“Yet we continue to leave the education of our native urban society to those few Europeans who feel strongly about it [...] That is not permissible. For reasons of self-interest alone, it is dangerous”, p.127) e, soprattutto, mostra come la criminalità e la “depravazione” nera fossero essenzialmente il risultato delle scelte fatte dai bianchi, i quali avevano cancellato un ordine sociale preesistente senza far sì che ne subentrasse uno altrettanto valido. Egli ritiene quindi che gli europei abbiano il dovere morale imprescindibile di provvedere alla creazione di un altro sistema di organizzazione sociale, che non sia egoisticamente ideato a vantaggio dei bianchi, ma che invece garantisca possibilità di sviluppo anche a coloro che, fino ad allora erano stati penalizzati:

Our civilization has therefore an inescapable duty to set up another system of order and tradition and convention. It is true that we hoped to preserve the tribal system by a policy of segregation. That was permissible. But we never did it

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thoroughly or honestly. […] We are caught in the toils of our own selfishness” (ibidem)

Il secondo brano attraverso il quale James Jarvis approfondisce la portata delle riflessioni liberal-democratiche del figlio è tratto dal manoscritto intitolato “The Truth About Native Crime”, che Arthur stava scrivendo negli attimi immediatamente precedenti alla propria morte22. Il titolo di questo testo (che rimanda simbolicamente alla serie di opere saggistiche pubblicate da Paton ed inerenti allo stesso argomento, sottolineando ulteriormente il parallelismo fra l’autore e il personaggio) sposta l’attenzione sul tema cruciale della criminalità, considerata dal giovane Jarvis come il risultato diretto di una frustrazione umiliante legata all’ipocrisia e ai pregiudizi dei bianchi, i quali negavano di fatto ai natives ogni possibilità di miglioramento23. La sua è, quindi, una critica all’intera società sudafricana, diretta in particolare agli atteggiamenti contraddittori di tutti coloro che si professavano cristiani, ma che poi praticavano la discriminazione razziale: “The truth is that our Christian civilization is riddled through and through with dilemma. We believe in the brotherhood of man, but we do not want it in South Africa” (p. 134).

Arthur enfatizza, perciò, le responsabilità morali della comunità bianca, la quale troppo spesso ha giustificato le proprie azioni nascondendosi dietro la notoria “missione civilizzatrice”: “The truth is that our civilization is not Christian; it is a tragic compound of great ideal and fearful practice, of high assurance and desperate anxiety, of loving charity and fearful clutching of possessions” (ibidem). La tesi di Arthur, quindi, è chiara: il processo coloniale europeo non era mosso dagli ideali cristiani di fratellanza, accettazione e amore, ma da fattori politico-economici, cui si accompagnavano angoscia e paura, oltre che il timore di perdere il primato.

Il terzo frammento che contribuisce alla presa di coscienza di James Jarvis, e che lo sconvolge in misura maggiore, è un articolo in cui Arthur descrive la propria esperienza personale di cittadino sudafricano. Il titolo, “Private Essay on the

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Ironicamente, l’ultima frase che Arthur scrive, prima di scendere le scale del proprio studio e venire ucciso, è “Allow me a minute…” (p. 135). Drammaticamente, queste sembrano essere, quindi, le sue ultime parole e i concetti espressi all’interno dell’articolo possono essere considerati una sorta di “testamento”, che il giovane lascia alle generazioni future nella speranza di un cambiamento nelle posizioni del Sud Africa. Il primo a recepire il messaggio del manoscritto è proprio James Jarvis, il quale riuscirà finalmente a comprendere il figlio e a portarne avanti la missione.

23 Cfr. A

NDREW FOLEY, “Considered as a Social Record: a Reassessment of Cry, the Beloved Country”, cit., p. 72.

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Evolution of a South African” mette in luce la componente autobiografica del testo, nel quale, però, l’evoluzione personale del giovane Jarvis esemplifica un caso illuminante per promuovere l’evoluzione di un paese intero. Il giovane affronta qui la questione dell’identità, riflettendo sulla propria vita e sugli stadi che lo avevano condotto ad una comprensione più ampia della reale situazione in Sud Africa: “It is hard to be born a South African. One can be born an Afrikaner, or an English- speaking South African, or a coloured man, or a Zulu. [...] One can see, as I saw when I was a boy, the reserves of the Bantu people and see nothing of what was happening there at all” (p. 150).

Arthur osserva come in Sud Africa gli individui fossero confinati all’interno di categorie etniche precise e come mancasse, di conseguenza, il concetto dell’essere “sudafricani”, nel senso più generale e comprensivo di tutte le diverse “razze”. Questa separazione (che sarebbe stata ufficializzata poco dopo attraverso l’apartheid, il cui programma principale era, appunto, lo “sviluppo separato” delle razze) rendeva difficile la comprensione delle reali dinamiche all’interno del paese, poiché ogni etnia conduceva un’esistenza distinta. In questo articolo, Arthur racconta che durante la propria infanzia aveva spesso visitato zone diverse del Sud Africa, come le riserve dove vivevano le comunità Bantu, senza però comprendere fino in fondo quello che vi stava realmente accadendo. La stessa considerazione vale per le comunità afrikaner e inglesi: il giovane Jarvis era cosciente del fatto che la popolazione afrikaner fosse decisamente più numerosa di quella di origine britannica, ma della loro lingua e cultura non aveva nessuna conoscenza.

Dalle osservazioni di Arthur emerge quindi la volontà di apprendere e conoscere ogni aspetto del proprio paese, attraverso un percorso di ricerca identitaria che conduca allo status di cittadino “sudafricano” vero e proprio, e non afrikaner, inglese o nativo. La sua appare, perciò, una ricerca riguardante il tessuto comunitario, capace di valorizzare le somiglianze e le interconnessioni invece che le differenze e l’ignoranza. Questa riflessione rispecchia chiaramente il pensiero di Paton, il quale aveva più volte osservato come il primo elemento di unione all’interno del paese fosse costituito dalla terra24, verso la quale anche Arthur sembra provare un profondo affetto e un senso di orgoglio:

24 Cfr. C

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One can read, as I read when I was a boy, the brochures about lovely South Africa, that land of sun and beauty sheltered from the storms of the world, and feel pride in it and love for it, and yet know nothing about it at all. It is only as one grows up that one learns that there are other things here than sun and gold and oranges. It is only then that one learns of the hates and fears of our country. (ibidem)

Allo stesso tempo, Arthur ricorda ai suoi lettori (in questo caso al padre) che l’attaccamento alla terra, con la conseguente esaltazione delle bellezze del paesaggio, non è abbastanza per maturare una piena consapevolezza degli aspetti meno “affascinanti” della nazione. Occorre incamminarsi lungo un percorso volontario di crescita e maturazione per rendersi finalmente conto che il Sud Africa non è fatto soltanto di miniere d’oro e vallate rigogliose in cui splende il sole. Questi sono certamente gli aspetti più evidenti, soprattutto ad uno sguardo esterno e “ingenuo”, ma dietro di essi si cela lo spettro dell’odio e della paura, che il singolo può scorgere soltanto dopo un’analisi più accurata e profonda. Arthur prosegue parlando esplicitamente delle proprie esperienze personali, raccontando di come sia cresciuto nella tenuta dei genitori, i quali lo avrebbero sostenuto in modo esemplare, avvicinandolo alla religione cristiana e educandolo secondo i principi della generosità e della benevolenza. Egli allo stesso tempo sottolinea, però, che i suoi genitori non gli hanno insegnato molto riguardo al “vero” Sud Africa, sulla cui realtà