Come già anticipato, la storia di Cry, the Beloved Country è incentrata sulle vicende che fanno capo a due uomini: un nero, Stephen Kumalo, e un bianco, James Jarvis. I due si incontrano in seguito alle circostanze dolorose che riguardano i loro figli, rispettivamente Absalom ed Arthur.
Stephen Kumalo è un pastore anglicano zulu di mezz’età che amministra la comunità della fittizia Ndotsheni, un piccolo villaggio vicino ad Ixopo, nella regione del Natal: egli conduce una vita relativamente tranquilla, grazie alla protezione garantitagli dal suo ruolo e, soprattutto, dall’area rurale in cui vive, dove, nonostante la povertà, i segni della discriminazione razziale sono meno lampanti. La sua storia inizia quando, una mattina, una piccola bambina della parrocchia si presenta bussando alla sua porta e portando una lettera proveniente da Johannesburg. Non appena la bambina esce dalla stanza, Kumalo studia attentamente la busta contenente la lettera, ma quello che vede non lo rassicura per niente: egli osserva infatti come la carta e il francobollo siano sporchi e stropicciati, segno evidente che il documento è passato da una mano all’altra dalla città fino a Ndotsheni. La provenienza della lettera e il fatto che Stephen non riesca a riconoscere la grafia sulla busta contribuiscono ad aumentare l’ansia dell’uomo, il quale, presagendo delle cattive notizie, non vorrebbe aprirla: “He was reclutant to open it, for once such a thing is opened, it cannot be shut again”(p. 9). Stephen chiama allora la moglie, ma
8 Cfr. P
ATRICK COLM HOGAN, “Paternalism, Ideology and Ideological Critique: Teaching Cry, the Beloved Country”, College Literature, vol. 19/20 (3/1), 1993, p. 208.
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nemmeno lei può immaginare l’identità del mittente: non rimane quindi altro da fare se non aprirla, anche se entrambi sono spaventati dalle notizie che essa potrebbe contenere.
Il tema della paura, che si sviluppa nel corso dell’intero romanzo, emerge perciò fin dalle prime pagine attraverso la figura del protagonista e di sua moglie, i quali hanno visto partire per Johannesburg vari membri della loro famiglia, che però non hanno fatto mai ritorno e non hanno più mandato loro notizie: “They were silent, and she said, How we desire such a letter, and when it comes, we fear to open it.” (ibidem). Nonostante l’esitazione e la paura, la lettera non può essere ignorata e quindi la donna si fa coraggio e la apre. Essa non si rivelerà, come previsto, una “easy letter” (p. 10): scritta in una calligrafia a loro sconosciuta9
, riporta il messaggio di un sacerdote nero, Theophilus Msimangu, il quale scrive per avvertire Kumalo che sua sorella Gertrude è gravemente malata e che egli deve recarsi immediatamente a Johannesburg per provvedere all’assistenza della donna.
Il messaggio, comunque, pur essendo portatore di cattive notizie riguardanti Gertrude, non è del tutto catastrofico, in quanto non contiene informazioni tragiche sugli altri parenti di Kumalo che si trovano in città (suo figlio Absalom e suo fratello John); inoltre, il mittente, Msimangu, sembra essere un uomo gentile, compassionevole e saggio, in grado di fornire una guida e un sostegno nel caos labirintico della città. Kumalo, invece, nonostante sia anch’egli colto ed istruito (all’interno della sua casa si trovano, infatti, “many books, more even than the books at the school”, p. 8), è dipinto come un uomo semplice e comune. Come ha notato Edward Callan, egli rimanda, in un certo senso, al tipico personaggio del “rural pastor”, derivato dalla tradizione letteraria europea e caratterizzato da virtù quali l’umiltà, la bontà e una grande forza interiore10
. Nonostante questi siano gli aspetti più evidenti del carattere di Kumalo, egli non è tuttavia parificabile a un santo: in quanto uomo comune, non è esente da sentimenti e reazioni tipicamente umane quali la rabbia, la frustrazione e la disperazione. Ad esempio, dopo aver letto la lettera, ha
9 Significativamente, la lettera diretta a Stephen Kumalo è datata 25 settembre 1946. La data
coincide simbolicamente con il giorno in cui Paton avviò la stesura dei primi capitoli del romanzo, ma la sua importanza va oltre questa coincidenza, poiché contribuisce a stabilire in modo chiaro ed inequivocabile la locazione temporale degli eventi contenuti all’interno dell’opera, fissandoli definitivamente nell’anno 1946.
10 Cfr. E
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un momento di cedimento in cui la tensione si trasforma in rabbia nei confronti dei parenti che hanno lasciato il villaggio e non hanno più scritto per far avere loro notizie. In questa occasione egli si lascia andare, sfogando la propria frustrazione sulla moglie e rivelando chiaramente i propri sentimenti: “– Hurting myself? Hurting myself? I do not hurt myself, it is they who are hurting me. My own son, my own sister, my own brother. They go away and they do not write anymore. Perhaps it does not seem to them that we suffer. Perhaps they do not care for it.” (p. 11). Questo è solo uno dei tanti episodi all’interno del romanzo in cui affiorano gli aspetti più umani ed impulsivi del carattere di Stephen11, che però li tiene poi sotto controllo grazie alla sua forte devozione religiosa.
Il giorno successivo inizia, quindi, dalla stazione ferroviaria di Carisbrooke, il lungo e spaventoso viaggio dell’umile parroco verso la metropoli del Transvaal: una volta giunto a Johannesburg, il percorso di Stephen si rivela più difficile del previsto, pieno di ostacoli e causa di cambiamenti profondi nella sua vita. Il suo parte come un percorso di ricerca mirata, poiché l’obiettivo principale del viaggio è trovare i membri perduti della sua famiglia (la sorella Gertrude, il fratello John e il figlio Absalom), nel tentativo di riunificarla e fare ritorno con loro al villaggio. Purtroppo, questo obiettivo si dimostrerà irrealizzabile, poiché i suoi familiari sono ormai troppo coinvolti all’interno delle dinamiche “infernali” della vita urbana: riceve il primo duro colpo quando Msimangu gli comunica che sua sorella, Gertrude, è ormai dedita alla prostituzione e alla vendita illegale di liquori; successivamente, scopre che suo fratello, John, ha rinnegato la moglie e, cosa ancora più grave, quelli con la religione. Infine, deve affrontare la complessa situazione del figlio, Absalom, il quale si è macchiato dell’omicidio di un uomo bianco.
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Fin dall’inizio del romanzo, Paton mette in luce anche gli aspetti meno solari del carattere di Kumalo, evitando di dipingerlo come un santo: l’uomo appare, infatti, orgoglioso, testardo, talvolta invidioso e, soprattutto, timoroso di essere messo in ridicolo. Quando si reca a Johannesburg, deve fare i conti con situazioni che lo mettono in difficoltà ed è in questi casi che la sua paura si unisce a degli scatti di rabbia. Prima di tutto, la propria rabbia si dirige verso Gerturde, che con le sue attività illecite ha gettato un’ombra di vergogna sull’intera famiglia: “You have shamed us, he says in a low voice, not wishing to make it known to the world. A Liquor seller, a prostitute, with a child and you do not know where it is? Your brother a priest. How could you do this to us?” (p. 29). Il suo risentimento si rivolge, però, anche verso il fratello John (soprattutto nel momento in cui egli gli volta le spalle, lasciando che Absalom venga incarcerato e salvando, invece, il proprio figlio da una sicura condanna) e verso Absalom stesso, il quale non è stato in grado di seguire gli insegnamenti del padre e resistere alle tentazioni della città.
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La tragedia che investe la famiglia di Stephen esemplifica, ovviamente, una tragedia di carattere più ampio, cioè quella di un’ampia sezione del Sud Africa: il fallimento dell’umile parroco nel riunire la famiglia per fare ritorno al villaggio suggerisce metonimicamente l’impossibilità di ripristinare il sistema tribale originario, ormai completamente distrutto dall’impatto della colonizzazione europea e dell’industrializzazione, con il conseguente accentramento del capitale12
.
Il viaggio di Stephen non sarà comunque del tutto inutile: durante il suo forzato soggiorno a Johannesburg, egli avrà infatti modo di maturare una maggiore consapevolezza sia di sé stesso (imparando a smussare gli angoli più rigidi del proprio carattere), sia dell’intera società sudafricana. Vivendo in un contesto “idilliaco”, finora egli non aveva mai dovuto affrontare la realtà al di fuori dell’ambiente ristretto del villaggio di campagna: Ndotsheni costituisce per lui una sorta di mondo protetto, all’interno del quale egli risulta particolarmente “privilegiato” grazie alla sua professione religiosa, che gli garantisce il rispetto dei suoi parrocchiani. A Johannesburg, invece, Kumalo si trova obbligato a confrontarsi con uno scenario per lui completamente nuovo, contraddistinto dallo squallore delle
township in cui i neri sono costretti a vivere, dalla criminalità, dalla corruzione e,
soprattutto, dalle disuguaglianze sociali, che nell’ambito urbano gravano maggiormente sulla vita quotidiana dei nativi. Una volta sradicato dal suo “bozzolo”, egli non può che aprire gli occhi sulla realtà sudafricana, in particolar modo quella relativa all’ambito metropolitano. Un particolare che testimonia la degradazione dei rapporti umani è dato dal fatto che egli viene ingannato e derubato da un uomo di colore non appena arriva a Johannesburg: episodi negativi come questo sono, però, attenuati da altrettanti gesti di solidarietà e generosità, come quelli di Msimangu (che in città agirà come una sorta di guida, sia fisica che spirituale, per Kumalo), o di altri personaggi che dedicano la propria vita a migliorare le condizioni dei più bisognosi.
Oltre che fisico, il percorso di Stephen è, perciò, anche e soprattutto di carattere morale e spirituale: la degradazione e il caos che egli incontra a Johannesburg lo sconvolgono, ma lo obbligano contemporaneamente a prendere coscienza del fatto che le cause di questa situazione risiedono principalmente nella distruzione della
12 Cfr. A
NDREW FOLEY, “Considered as a Social Record: a Reassessment of Cry, the Beloved
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società africana tradizionale. Lo sviluppo “mistico”13
di Kumalo passa quindi attraverso diverse fasi, le quali lo conducono da uno stato di ignoranza ad un’illuminazione rivelatrice: inizialmente, egli sperimenta un vero e proprio “risveglio”, in certi aspetti assimilabile ad una conversione, che lo conduce verso la rivelazione di una verità superiore. Questa fase preliminare inizia necessariamente attraverso esperienze penose, rappresentate emblematicamente in questo caso dalla lettera proveniente da Johannesburg e recapitata a Kumalo, punto di avvio del percorso di ricerca del parroco zulu. Una volta iniziato, tale percorso non può essere interrotto e Stephen intraprende quindi una sorta di pellegrinaggio di purificazione, attraverso il quale si avvicina ad una nuova consapevolezza.
Questo viaggio non è però esente da alcuni momenti di crisi, poiché in alcune circostanze Kumalo si sente sopraffatto dalle disgrazie che gli si stanno riversando addosso. In particolare, la fede sembra abbandonarlo quando scopre la drammaticità degli eventi concernenti Absalom: il primo elemento che lo induce a pensare ad una disgrazia è la notizia, letta su un giornale alla Mission House, dell’omicidio di un bianco nel quartiere di Parkwold. Kumalo riconosce il nome di Arthur Jarvis, identificandolo come il figlio del proprietario di una tenuta nelle vicinanze di Ndotsheni e, in questo momento, ha una sorta di premonizione, intuendo che Absalom sia in qualche modo coinvolto nella vicenda e, per questo motivo, sia ricercato dalla polizia:
Sadness and fear and hate, how they well up in the heart and mind, whenever one opens the pages of these messengers of doom. Cry for the broken tribe, for the law and the custom that is gone. Aye, and cry aloud for the man who is dead, for the woman and children bereaved. Cry, the beloved country, these things are not yet at an end. The sun pours down on the earth, on the lovely land that man cannot enjoy. He knows only the fear of his heart. (pp. 66-67)
Kumalo, ancora una volta con il cuore gonfio di timore per il destino del figlio, si ritira per cercare conforto nella preghiera ma, come riferisce a Msimangu, la speranza lo sta abbandonando: “There is no prayer left in me. I am dumb here inside. I have no words at all.” (p. 67). La stessa scena si ripete due giorni dopo, quando
13 Cfr. M
ARK HESTENES, “To See the Kingdom: a Study of Graham Greene and Alan Paton”, Literature & Theology, vol. 3 (4), 1999, p. 316.
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Kumalo, sempre più vicino alla disperazione, riferisce a Msimangu di non aver trovato nessun conforto nella preghiera; è in questa occasione che il Reverendo di città lo ammonisce, spronandolo e ricordandogli che abbandonarsi allo sconforto è uno dei peccati peggiori che un parroco possa commettere nei confronti di Dio: “This is madness, that it is bad enough. But it is also a sin, which is worse. I speak to you as a priest” (p. 80). L’ultima occasione in cui la fede di Kumalo si confronta con una situazione di crisi si presenta nel momento in cui l’uomo scopre di quale colpa si è macchiato il figlio e che, per la sua difesa, dovrà essere assunto un avvocato: in questo momento, amareggiato e ormai disilluso dalla piega degli eventi, egli sembra cedere allo sconforto, ma stavolta a consolarlo interviene Father Vincent, il prete britannico che Kumalo ha conosciuto alla Mission House. Kumalo gli racconta della sua ansia crescente in seguito all’arrivo a Johannesburg, ma Father Vincent lo esorta a non abbandonare la speranza, usando una metafora che richiama lo spessore gnomico del linguaggio zulu:
–When the storm threatens, a man is afraid for his house, said Father Vincent in that symbolic language that is like the Zulu tongue. But when the house is destroyed, there is something to do. About a storm he can do nothing, but he can rebuild a house. (p. 96)
Kumalo appare ancora rassegnato (“–It seems that God has turned from me, he said”, ibidem), ma Father Vincent lo rassicura, esortandolo a reagire e a non abbandonare la fede, agendo come si conviene ad un parroco, poiché “–No one can comprehend the ways of God” (ibidem).
In ogni caso, la fede di Kumalo è troppo radicata per abbandonarlo davvero: infatti, egli non perde mai del tutto la speranza di una rigenerazione morale e sociale del Sud Africa. La sua fede è stata messa a dura prova dallo stato di disastro sociale, ma egli, consapevole ormai della realtà circostante, è infine pronto ad assumersi le proprie responsabilità e a spendere il resto della vita tentando di apportare miglioramenti efficaci alle condizioni dei suoi concittadini:
After seeing Johannesburg he would return with a deeper understanding to Ndotsheni. [...] One could go back knowing better the things that one fought against, knowing better the kind of thing that one must build. He would go back
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with a new and quickened interest in the school, not as a place where children learned to read and write and count only, but as a place where they must be prepared for life in any place to which they might go. Oh for education for his people, for schools up and down the land, where something might be built that would serve them when they went away to the towns, something that would take the place of the tribal law and custom. (p. 79)
Quello di Stephen Kumalo non è però l’unico percorso di scoperta narrato all’interno di Cry, the Beloved Country: nel secondo libro, infatti, Paton inserisce il personaggio di James Jarvis, il padre dell’uomo ucciso da Absalom. Il tema della ricerca e della comprensione della realtà sudafricana viene quindi ampliato nella seconda sezione del testo con la figura di un bianco che, andando oltre i pregiudizi, riuscirà a raggiungere una visione a tutto tondo delle problematiche del Sud Africa. Per questo motivo, il lettore vi individua immediatamente un chiaro parallelismo con l’altra figura paterna, incarnata da Kumalo, con il quale Jarvis deve necessariamente confrontarsi.
Il secondo libro si apre con l’esatta ripetizione dell’incipit del romanzo, in cui la voce narrante descrive il paesaggio della regione del Natal; in questa seconda occasione, essa evita, però, di sottolineare la desolazione delle aree riservate ai nativi, poiché questa parte ha la funzione di far immergere il lettore nel complementare contesto bianco. Jarvis viene presentato al lettore per la prima volta mentre osserva con preoccupazione i terreni intorno alla propria tenuta, chiamata High Place, provati da una persistente siccità che sta rovinando i raccolti. Le condizioni della valle riservata ai bianchi appaiono tuttavia nettamente migliori di quelle riservate ai neri, e Jarvis riflette su come i farmer di quella zona fossero giustamente preoccupati che l’aridità delle riserve native potesse espandersi anche ai loro territori. Egli ripensa alle interminabili discussioni che lui e altri proprietari terrieri della zona hanno spesso intavolato riguardo al problema della sovrappopolazione delle riserve, analizzandolo da molti punti di vista senza giungere, tuttavia, a nessuna conclusione. Egli è rappresentato, nella sostanza, come un tipico gentleman inglese, il quale, pur essendo relativamente “tollerante”, è ben conscio delle differenze fra la sua condizione e quella dei nativi.
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L’equilibrio del suo mondo viene spezzato dall’arrivo di un’auto della polizia proveniente dalla vicina cittadina di Ixopo: il poliziotto, a cui lui si riferisce con un certo cinismo, definendolo “a decent fellow for an Afrikaner” (p. 114), gli dà purtroppo la tragica notizia dell’uccisione di Arthur, probabilmente ad opera di uno più criminali neri. Come Stephen Kumalo, egli è quindi costretto ad intraprendere un penoso viaggio alla volta di Johannesburg, durante il quale dovrà affrontare un percorso che lo porterà ad una comprensione più ampia del proprio paese, ma anche, paradossalmente, del figlio ormai defunto. James stesso ammette che lui e il figlio Arthur non condividevano le stesse opinioni riguardo questioni come quella dei nativi: “my son and I didn’t see eye to eye on the native question” (p. 119).
Pur non appartenendo alla parte più estremista, non si può certo affermare che James Jarvis condivida inizialmente le idee liberali e democratiche del figlio: più che apertamente razzista, egli sembra disinteressarsi della questione riguardante la comunità nera, almeno fin quando essa non lo coinvolge personalmente. Egli approva maggiormente, invece, le convinzioni del consuocero, Mr. Harris (presso cui James e la moglie soggiornano durante la loro permanenza a Johannesburg), il quale incarna perfettamente il tipico uomo d’affari bianco, le cui preoccupazioni convergono sullo sfruttamento economico delle miniere del paese, senza tener conto delle condizioni di vita dei lavoratori neri.
Al contrario, il figlio di Mr. Harris, John, era un convinto ammiratore del defunto e ne condivideva ideali e obiettivi: è principalmente attraverso le descrizioni di John che Jarvis viene a conoscenza delle numerose azioni filantropiche compiute dal figlio (tra le quali spicca la fondazione del Claremont African Boys’ Club) e dei suoi tentativi di oltrepassare le barriere etniche, imparando la lingua Afrikaans e quella Zulu. I due giovani, quindi, si pongono in evidente contrasto con i loro padri, esemplificando lo scarto tra le diverse generazioni: il cambiamento, sembra suggerire Paton, non può avvenire indipendentemente dal supporto dei giovani, i quali riescono più dei predecessori a elevarsi al di sopra dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Il vero cambiamento di James Jarvis è conseguente però alla lettura, in diversi momenti, degli scritti lasciati dal figlio nel suo studio: attraverso di essi, ma anche tramite i libri presenti nello studio e il genere dei quadri appesi alle pareti, James riesce finalmente a comprendere le ragioni dei comportamenti del figlio, che finora
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non era riuscito a spiegarsi. Inizialmente, egli è sconvolto nel leggere i testi in cui il figlio aveva riportato le proprie opinioni, ma poi capisce che è proprio lui, e non il giovane defunto, che ha ancora moltissimo da imparare sul proprio paese: l’unico modo per farlo è cambiare il proprio stile di vita, iniziando a perseguire quelli che