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L’affido ‘di lieve emergenza’ : una forma di accoglienza nella

3.4. Secondo caso: Il progetto Piaf dell' U.l.s.s.n 8 di Asolo(Tv) Obiettivi e

3.4.4. L’affido ‘di lieve emergenza’ : una forma di accoglienza nella

In questo progetto, ottica esistenziale ed ottica professionale ci incrociano, costruiscono e ri-definiscono il loro interfacciarsi quotidianamente e probabilmente questo è dovuto alla peculiare relazione che viene promossa nel progetto: l’accoglienza. L’accoglienza, come ci ricorda Lia Sanicola - una delle maggiori esperte in Italia in tema di affido - è un’esperienza fondamentale nelle relazioni fra le persone. E’ un’esperienza che definisce il riconoscimento dell’alterità come rapporto, l’accettazione della diversità dell’interlocutore come altro da sé con cui si può e si vuole entrare in rapporto, anche se non sempre si configura in termini di reciprocità. In particolare l’accoglienza, come forma di relazione, può dar luogo a iniziative che l’uno può prendere nei confronti dell’altro: l’accompagnamento, cioè la capacità di stare vicino all’altro e sostenerlo come un compagno di cammino; la comprensione, cioè la capacità di essere preso - co- involto - insieme ad un altro in una situazione emotivamente ed affettivamente significativa per entrambi; il contenimento come la capacità di offrire uno spazio di rapporto in cui l’uno possa affidare il proprio problema all’altro nella certezza che l’altro voglia corresponsabilmente con-dividerlo. E infine, appunto, tutti questi elementi caratterizzanti l’accoglienza, non avrebbero senso senza un atteggiamento di fondo di condivisione. La condivisione è infatti una modalità relazionale che si verifica quando una persona partecipa della realtà dell’altro non solo per la condizione di bisogno che l’altro vive, ma anche in ragione e in forza della globalità dell’essere umano, che ciascuno riconosce tanto nel bisogno quanto nel desiderio di felicità propria ed altri (Sanicola 1990, 40-41). Nell’affidamento familiare, la capacità di ‘essere accoglienti’ appartiene ai diversi soggetti e deve essere valorizzata al meglio, non solo perché è necessario nella contingenza, ma soprattutto perché, quando viene agita, potenzia la stessa umanità di tutti gli attori in gioco. Nel caso delle famiglie affidatarie o famiglie

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accoglienti, come si sono definite esse stesse in un’intervista in profondità e nel

convegno finale del primo anno di lavoro, il percorso di aiuto segue proprio le dinamiche che abbiamo descritto sopra grazie alle parole della Sanicola. E’ da partire da un incontro che può nascere uno scambio relazionale con una funzione ‘mutativa’ attraverso il quali il processo di aiuto può trasformarsi in un percorso di crescita delle soggettività coinvolte.Dallo studio fatto emergono che i casi affrontati, seppur pochi, - tali da non permetterci generalizzazioni all’intera rete progettuale - sono casi di minori che vivono in famiglie o particolarmente isolate e che hanno bisogno di essere aiutate in un percorso di socialità verso la comunità di appartenenza o famiglie i cui genitori faticano a esperire la loro genitorialità o per problemi di dipendenze, handicap lieve. Ciò che accomuna i quattro casi di affido, è un bisogno di relazione che deve essere sopperito e sostenuto, pena la perpetuazione in uno stato di solitudine e assenza di socialità, che può metter a repentaglio il benessere di quella famiglia. Le forme di accoglienza analizzate diventano allora forme di sostegno all’essere e fare famiglia della famiglia affidata. La famiglia affidataria non si limita a occuparsi del minore, ma ‘prende in carico’ l’intera famiglia di cui fa parte. Senza mai sostituirsi ad essa, ma affiancandola nel suo essere famiglia. Il compito delle famiglie affidatarie non è certo semplice. Lo vedremo in seguito nell’analisi delle testimonianze. Dicevamo, perché l’affido? Esso rappresenta la forma di generatività che è propria della famiglia, una generatività che va oltre quella prettamente biologica, diventando ‘generatività sociale’: significa dare vita e prendersi cura di significativi progetti comuni tesi a produrre benessere sociale. Una famiglia nella quale le relazioni con il mondo circostante sono improntate all’apertura, allo scambio sociale, alla reciprocità, al dono, alla condivisione e alla solidarietà è una famiglia ‘generativa socialmente’. Essa è potenzialemente capace di produrre e ri-produrre capitale sociale nella comunità di cui fa parte perchè "attraverso la relazione familiare di piena reciprocità e affidamento fra i sessi e le generazioni, viene a crearsi quell’ambiente microsociale necessario per la generazione e l’apprendimento di quelle risorse cognitive, emotive, normative e valoriali, la capacità di donare fiducia, il divenire responsabilmente affidabili e il saper reciprocare ciò che viene donato, che sono alla base di ogni costruzione positiva del legame sociale: ne sono fonte e origine" (Prandini 2006). Recenti ricerche sul capitale sociale

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familiare hanno evidenziato che il capitale sociale familiare è maggiore lì dove tanto maggiore è la capacità di generare: i) atteggiamenti fiduciari positivi sia nei confronti del mondo familiare e vicino (fiducia locale) sia nei confronti di figure sociali extra-familiari (fiducia generalizzata); ii) azioni civiche rivolte alla comunità di appartenenza; iii) beni e servizi relazionali destinati sia a conoscenti non parenti sia a familiari coabitanti e non coabitanti; iv) partecipazione alla vita associativa anche nella modalità della pluri-appartenenza a differenti organizzazioni. Così dal punto di vista della persona, la famiglia e le mediazioni familiari possono aiutare o meno a far emergere una propria identità attraverso fiducia, stabilità, amore, rispetto; dal punto di vista della società aiutano o meno a fondare forme di convivenza civile nella sfera pubblica attraverso un senso di solidarietà fra gli individui. Alla base ci deve essere però il riconoscimento condiviso del legame sociale come risorsa per l’intero corpo sociale.

Guardando all’affidamento, ci chiediamo: la famiglia è solo strumentale/funzionale all’autorealizzazione degli individui degli individui che la compongono? Ha senso occuparci della soggettività della famiglia se la intendiamo solo come strumento? C’è una relazione, oltre alla relazione intrafamiliare che vale la pena promuovere? È possibile attivare concrete politiche volte allo sviluppo di processi partecipativi, di cittadinanza e sviluppo di comunità considerando solo strumentali le relazioni intermedie (famiglia, associazioni, partiti…etc) tra individuo e istituzioni? (Pozzobon 2006). L’affido è una risposta prosociale a queste domande. Con l’affido, la famiglia viene riconosciuta capace di vivere l’accoglienza, come un dono gratuito di se finalizzato al bene del bambino e dal rientro della sua famiglia. La famiglia esce dal suo spazio privato e diventa un bene sociale. Le famiglie accoglienti si trovano a dover misurare la loro disponibilità, data anche sull’onda dell’ entusiasmo o della novità, con quel bimbo o ragazzo che spesso porta un po’ di scompiglio nelle relazioni familiari.

Quindi una famiglia da sola fa fatica, e ha bisogno di essere adeguatamente sostenuta nella scelta e supportata durante il percorso dell’affido. In questo senso un ruolo importante lo devono avere le istituzioni, ma per completare determinate mancanze, diventa fondamentale l’aiuto di altre famiglie affidatarie che vivono realtà simili, custodi di esperienze che difficilmente potrebbero essere apportate da figure istituzionali quali ad esempio gli operatori sociali, portatori di un

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bagaglio di competenze più tecnico (Martini V., 2004). La preoccupazione di evitare errori o restituzioni, inoltre, può determinare un’eccessiva “specializzazione” dell’intervento. Quando le procedure diventano sempre più sofisticate determinando un percorso di avvicinamento all’affidamento che si caratterizza per un forte tecnicismo (percorsi formativi obbligatori, test di valutazioni per famiglie, abbinamenti selezionati...) prevale informarsi di una logica di efficienza, con la preoccupazione di rendere le famiglie capaci di risolvere i problemi dei bambini. Inserire le famiglie in contesto di rete, dove lo scambio di informazioni avviene tra ambienti simili (le famiglie, appunto) attraverso un continuo confronto reciproco, accresce la possibilità di trovare da parte di chi decide di intraprendere questo difficilissimo percorso, l’aiuto concreto derivato dalle esperienze direttamente accessibili di famiglie consolidate in questo tipo di esperienza. Il modello sistemico relazionale del progetto si coglie anche da ciò. E soprattutto quando le problematiche dell’accoglienza vengono rilanciate nella rete. I momenti più complicati, come ad esempio quando la volontà di aiutare il minore si confonde con la volontà personale di non volersene distaccare al termine del periodo di accoglienza, che l’esperienza diretta di chi vive da tempo queste realtà in prima persona, si deve sostituire alla competenza di chi lo fa unicamente per lavoro. Tecnicismi e parametri devono lasciare spazio alle relazioni informali, alle esperienze comuni, altrimenti si rischia di erogare un servizio spersonalizzante, basato sulle procedure, incapace di ri-generare le qualità proprie delle relazioni familiari quali essere affidabilità, fiducia reciproca e gratuità rischiando anche di perdere le ricadute positive del progetto nella comunità cui ogni famiglia appartiene.

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3.5. La metodologia utilizzata. Dal bisogno di qualità alla meto-