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Critical best practice, o della "miglior riflessività praticabile"

2.7. Riflessività, lavoro sociale e sussidiarietà Un percorso pos-sibile

2.7.4. Critical best practice, o della "miglior riflessività praticabile"

Per sviluppare successful helping processes sono necessarie profonde capacità riflessive,viste sia come una individuale riflessione nella testa del singolo professionista, sia come un accompagnamento degli utenti a ragionare su scelte condivise. Quindi trovare la strada per esercitare il proprio ruolo professionale in maniera non oppressiva, ma anzi, costruttiva e capacitante, comporta l’attenta analisi di come venga usato "il potere" nelle relazioni di aiuto. Il senso di potercela fare e la percezione di prendere l’iniziativaper migliorare la propria vita diventano allora centrali nei processi di coping. Interrogarsi sull’operatività concreta apre la strada a un modo di lavorare riflessivo attraverso cui scaturisce l’aiuto e in cui non ci si aspetta che le persone di affidino all’operatore, ma invece si cerca di sollecitare prima di tutto le loro capacità di riflettere e di agire, di trovare insieme, ove possibili soluzioni che sembrano adatte a chi attraversa la situazione di difficoltà. Secondo l’approccio critico-riflessivo, basato sulla critical

best pratice, una pratica si considera "buona" proprio perchè contiene la elemento

"critica", questo "interrogarsi" attraverso cui gli operatori (con gli utenti, ove possibile) hanno usato la loro capacità riflessiva criticamente sia nel rispetto degli utenti con la consapevolezza della loro marginalità e vulnerabilità, sia utilizzando bene la discrezionalità e l’autorità professionale (Ferguson 2008, 30). L’importanza di lavorare in questo modo è centrale, secondo l’autore, proprio perché nel social work del Regno Unito ha predominato fin troppo una prospettiva "centrata sui deficit": cosa non va bene e i motivi per cui gli operatori falliscono nelle loro daily working practice. La cultura di "quel che non va" sembra aver

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seminato il nulla sulle informazioni degli interventi che sono andati a buon fine, svuotando il senso di una tradizione che potrebbe aver valorizzato "ciò che di buono" emerge nel proprio lavoro quotidiano. Ferguson quindi critica il filone della pratica basata sulle evidenze empiriche (evidence-based practice), che sostiene che la "bontà" di una certà prassi debba essere dimostrata scientificamente e che il metodo di ricerca più appropriato è identificato nel disegno sperimentale con i gruppi di controllo. L’autore afferma che questo approccio può essere adeguato in medicina, ma presenta notevoli limiti nel lavoro sociale. Per esempio, l’ evidence-based practice è cieco verso l’azione sociale: una buona prassi è buona anche in rapporto all’azione sociale che si sviluppa e alle sfumature dell’agire. Diventa allora necessario includere una attenzione

critica verso tutti quei processi che, per quanto non misurabili o considerati non

rilevanti nella misurazione del fenomeno, sono centrali nell’ottica del social work. Così vediamo come questo approccio, basato sul critical best practice, consideri il lavoro sociale nella sua interezza nelle azioni intraprese (ciò che viene detto e fatto e le conseguenze che comporta) e nelle caratteristiche di quella specifica prassi presa in analisi (Ferguson 2008). Tale approccio non è una versione idealistica o idealizzata della pratica, ma vuole offrire indicazioni pratiche e realistiche sulle specifiche situazioni di lavoro attraverso un metodo critico e riflessivo che parte da una costruzione di una rappresentazione unica a partire da diverse narrazioni, ed è proprio questo che permette di identificare e di chiare "ciò che va meglio". Vediamo allora come qui ci spostiamo proprio su processi della conoscenza di tipo induttivo: la teoria e la comprensione della pratica vengono districate a partire dall’esperienza quotidiana dei professionisti e degli utenti e dalla loro abilità - più o meno condivisa- di riflessione critica. Gli standard di bontà di una buona prassi non derivano allora da una singola fonte, ma da un insieme di fonti, che includono utenti, responsabili dei servizi e operatori.

Andando al cuore della riflessività vediamo proprio come essa venga vista come il processo «..whereby self-identity is constituted and reconstituted by people

reflecting on their lives and the rules they live by, which leads to them changing their lives and, in some instances, the rules»93. Ciò significa che avviene una

93 Ferguson H., in Grey M. and Webb S.A., Social Work, Theories and Methods, SagePublications,

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ridefinizione del corso dell’azione attraverso un life-planning in cui gli individui scelgono il tipo di vita che vogliono vivere e chi vogliono essere. Questo è un processo estremamente delicato perché le persone sono immerse in quella che Giddens chiama reflexive modernization, che vede un aumento dell’abilità delle persone di riflettere sulle strutture e sulle norme che determinano ogni giorno la loro vita quotidiana. Così il self diventa un reflexive project, un progetto in cui per scoprire ciò che noi siamo, ci interroghiamo su quello che vogliamo essere o ci sforziamo di diventarlo. Ma il problema è che, per dirla con Donati, che l’aggettivo ‘riflessivo’ non ha una connotazione positiva e progressiva. Dire ‘riflessivo’ significa connotare una condizione altamente ambivalente e paradossale. Infatti Beck, Bonns e Lau (2003, 3) esplicitamente affermano che:

«Riflessivo non significa che oggigiorno le persone vivano una vita più cosciente. Al contrario. ‘Riflessivo’ non significa un incremento di padronanza (mastery) e coscienza (consciousness), ma una più profonda consapevolezza (awareness) che la padronanza è ‘impossibile’. La modernizzazione semplice diventa riflessiva nella misura in cui diventa disincantata e quindi dissolve le sue stesse premesse date-per-scontate»

Come si vede, il concetto di riflessività introdotto da Beck e ripreso da Giddens, seppure in numerose varianti, viene usato in modo profondamente ambiguo . Il reflexing monitoring, di cui parla Giddens, rimane chiuso in un processo di self-inspection in cui vi è sì una ridefinizione del corso dell’azione dell’individuo, senza però una valutazione della propria azione sugli altri e viceversa. In particolare vediamo questo anche un autore che ha tentato (ma poi con sviluppi diversi) di applicare la teoria giddensiana della strutturazione al

social work. Per Ferguson, che appartiene all’area del Critical Social Work − che

abbiamo visto precedentemente − di cui è un esponente particolare proprio perché ha portato l’approccio di Giddens nel social work e proprio quest’ultimo è importante risorsa per tale professione, al di là delle critiche ricevute, perchè:

«Giddens’s ideas enable us to see that, in a context where we all have new choices about how to live and who to be, ‘helping’ practices like social work play an increasingly important role in enabling vulnerable people to choose well and gain control of their lives, which involves learning about and changing the self and one’s emotional life. Promoting life planning and ‘mastery’ for service users is central to best practice in late modern social work».

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Ma nel continuo farsi e disfarsi dei legami sociali, senza una riflessività adeguata diventa davvero arduo poter ri-definire il proprio corso di vita tanto che la revisione delle identità e delle funzioni degli attori in gioco e’ uno sviluppo possibile solo entro un quadro di nuova e chiara capacità riflessiva che possa essere una relational capability, volano di nuove forme sociali capaci di autogovernarsi (self-steering).