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Relational social work, o della "riflessività relazionale"

2.7. Riflessività, lavoro sociale e sussidiarietà Un percorso pos-sibile

2.7.5. Relational social work, o della "riflessività relazionale"

Il terzo approccio propone e riformula il concetto di riflessività secondo la teoria relazionale (Donati 1991), che rappresenta il frame sociologico entro cui un autore ha tentato di affrontare il tema della riflessività e dei servizi relazionali all’interno del social work (Folgheraiter). Questo approccio si focalizza sulla relazione fra struttura e azione e gli effetti emergenti di tale relazione nella possibile implementazione di politiche sociali capaci di realizzare non solo inclusione sociale, ma esternalità positive per la società. Partiamo dalla definizione generale di riflessività di Donati (2010, forward) che viene intesa come:

«a social relation between Ego and Alter within a social context. Alter can be Ego’s self, and in this case we refer to personal reflexivity or internal conversation (in Archer’s sense). If Alter is another person or many persons, we observe social reflexivity (one of an interactive character). If Ego and Alter are parts of a system, we meet system reflexivity»

A partire da questa definizione vediamo come l’ambiguità della riflessività venga ri-definita come una proprietà/abilità posseduta dagli attori, o dalle reti, o dai sistemi in genere e riguarda la gestione dei loro bisogni e outcomes all’interno del processo morfogenetico di cui fanno parte (Donati 2009, trad. mia). Folgheraiter ha il merito di aver tentato una rilettura relazionale all’interno del dibattito italiano del lavoro sociale, un po’ come lo stesso Ferguson ha tentato di leggere il social work attraverso uno sguardo giddensiano. Tornando a noi, il nocciolo del relational social work è che sembra concepire il sociale (la parte della società che affronta un problema, immersa per esempio in un processo di coping) come un attore chiave, un alleato per i social worker stessi. Il lavoratore sociale

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potrebbe allora collaborare con le relazioni sociali attivate in due modi: può dare il proprio contributo, il proprio sostegno all’azione di coping in atto nella ricerca comune di una soluzione condivisa al problema; oppure può fornire una meta- supervisione alla risoluzione del problema dall’interno o dall’esterno delle relazioni stesse. Quindi il social worker agisce come un catalizzatore di legami sociali attraverso cui identifica le relazioni che ‘ funzionano’ e che sono capaci di produrre una posività relazionale all’interno del processo di coping, che porterà presto alla soluzione di un determinato problema comune. (Folgheraiter 2007, 268, trad. mia). Ma come arriva l’operatore sociale a diventare un ‘catalizzatore dei legami sociali’? Folgheraiter in molte sue opere (1991, 2007, 2009, ma qui ne illustreremo solo una sintesi) riprende i concetti donatiani di relazione sociale e relazionalità e li trasporta all’interno della realtà del lavoro sociale per affrontare da un nuovo punto di vista il problema dell’aiuto sociale declinato in " concetti a sostegno di azioni professionali praticabili", come ci illustra lo stesso autore nell’introduzione de "La logica sociale dell’aiuto. Fondamenti per una teoria relazionale del welfare". Guardando così al lavoro sociale, la relazione sociale viene vista come un azione umana relata a un altra ( Ibidem, 305), è la prima elementare forma attraverso cui il sociale si manifesta a partire dalle persone: per dirla con Donati è «la molecola del sociale» (Donati 1991, 27). Ma la relazione sociale è sia ciò che i nostri Ego e Alter sopracitati agiscono insieme, ma allo stesso tempo è qualcosa in più, ed è più della semplice sommatoria dell’azione di due individui.Questo ‘qualcosa in più’ secondo l’Autore è individuabile nella bidimensionalità del concetto stesso: la relazione come legame (come vincolo di interazione, come "ciò che tiene unite entrambi le parti in rel-azione", è la struttura del sociale che si nutre di contatti e scambi reali nella vita di tutti i giorni) e come azione congiunta(dinamica della rel-azione agìta perché avviene quando le azioni delle persone convergono verso un fine sentito come comune). Sono queste le due facce della relazione (structure e agency direbbe la Archer), che sono due concetti distinti, ma interdipendenti, che ogni operatore sociale relazionale dovrebbe avere bene a mente e non confondere quando pensa alle sue situazione di lavoro. La stretta connessione fra legame e azione che costituisce la relazione sociale riprodurre nel suo piccolo l’unità di "struttura e dinamica" che si può teorizzare per la società in generale (Folgheraiter 2007, 317). L’agire comune

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ha sempre bisogno di un qualche minimo legame, che porti gli individui a vedere, a scorgere una finalità comune: due operai senza un minimo accordo su come costruire un muretto in calcestruzzo, non riusciranno a portare a termine il loro compito (Ibidem, 318). Se ognuno non riesce a far capire all’altro ciò che l’altro fa e ciò che gli serve ogni parola sarà spesa inutilmente e il loro legame verrà sempre meno come il progredire del muretto. Così la circolarità fra struttura e azione è di notevole interesse per il lavoro sociale: a partire dall’applicazione del concetto di relazione sociale alla produzione di care, propria del social work, l’autore mostra come l’aiuto professionale si concretizzi, sullo sfondo della teoria relazionale, come la capacità dell’operatore di ‘vedere’ le relazioni di cura e di accompagnare ‘il sociale’ nel suo farsi e disfarsi quotidiano. L’operatore sociale viene visto allora, a seconda dei case-work, come una guida relazionale in grado di accompagnare l’unità agente (Ego e Alter, se è una relazione duale - pensiamo a un caso di counseling; o una rete sociale già attiva o da attivare) verso le finalità condivise della loro azione. L’operatore sembra avere il compito di aiutare l’unità agente a ‘vedersi’ e a ‘pensarsi’ come -relazione-in relazione-con- e per- altre relazioni. Gioco di parole a parte, la guida relazione propria del social worker è complessa, ma concretamente ‘capacitante’ e ‘generativo’ per la relazioni in cui è immerso: vuol dire che l’operatore non cerca di direzionare l’azione congiunta con cui interagisce secondo la propria individualità, ma opera per l’azione stessa e per gli scopi di welfare che quell’azione vuole perseguire, grazie alle informazioni che l’operatore riflette verso di essa. L’operatore lavora quindi per restituire a quel ‘sociale che è in atto’ un certo grado di consapevolezza e relazionalità, che è " il nocciolo di quella pratica emancipativa quale il social work da sempre vuole essere" (Ibidem, 334). Un vero esperto nella logica sociale dell’aiuto interagisce alla pari con i propri interlocutori e nel contempo ha cura che l’interazione con loro sia piena: si adopera affinché tutti i soggetti coinvolti possano lavorare al medesimo progetto di aiuto congiuntamente. In una relazione di aiuto così intesa troviamo una sussidiarietà di alto profilo94. Come si deve struttarare il social work95, e come gli operatori devono agire per promuovere una miglior qualità di

94 Editoriale, F. Folgheraiter, in Lavoro Sociale, 1/2008

95 Il termine social work (lavoro sociale), nell’accezione di Folgheraiter, si riferisce alla scienza

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vita relazionale? Gli operatori devono tenere conto di tre obiettivi chiave. Il primo riguarda il lavoro sociale di comunità. La società è il luogo principale in cui l’individuo forma la sua identità e interagisce col mondo esterno. Gli operatori devono lavorare con la comunità, dall’interno, studiandone le dinamiche, le problematiche e le specificità per poter elaborare progetti che vedano la partecipazione di tutti i cittadini. Una comunità attiva è una comunità che promuove i diritti alla cittadinanza, all’uguaglianza, alla giustizia sociale per tutti i suoi membri. Gli operatori possono contribuire a tutto questo se pensano alla comunità come ad una realtà multidimensionale, in constante riconfigurazione. Il secondo obiettivo, già ribadito più volte, è quello di conferire all’utente un nuovo ruolo, una nuova posizione all’interno del percorso e della relazione di d’aiuto. Le persone interessate a un aiuto ufficiale, anche se immerse nelle difficoltà, continuino a essere concepite come persone, e quindi hanno il potere di interloquire nel processo di aiuto secondo i codici costitutivi della propria umanità. La persona deve essere considerata sempre come interlocutrice e collaboratrice96. Il soggetto non è solo il punto d’arrivo del progetto del professionista, ma prende parte alla sua costruzione. L’operatore e l’utente lavorano così fianco a fianco nell’ottica di una relazione collaborativa e paritaria, in cui aumenta sia la conoscenza reciproca che la consapevolezza di se stessi97. Il terzo ed ultimo obiettivo, è quello di sviluppare una pratica professionale con una particolare caratteristica, quella cioè della riflessività . Questa tipologia di pratica professionale implica, per l’operatore, un circolo continuo di riflessione e di azione. Il know-how, infatti, sta nell’azione, deriva dall’esperienza, ed è da questa tipologia di conoscenze che il professionista attinge maggiormente per rispondere alle richieste d’aiuto. Gli operatori costantemente pensano a ciò che fanno, agli effetti delle azioni passate e se questi effetti hanno avuto riscontro positivo o no. È

confronti di persone, famiglie, gruppi e comunità ritenute “svantaggiate” rispetto agli standard sociali dominanti. (F. Folgheraiter, 1998).

96 Editoriale, Fabio Folgheraiter, in Lavoro Sociale, 1/2008.

97 Vorrei qui citare il principio di helper therapy, elaborato da Riessmann, e ripreso poi da

Folgheraiter. Questo concetto si appilica principalmente nei gruppi di autoaiuto, ma il suo presupposto sono validi, in linea generale per tutti i processi d’aiuto. Secondo l’helper theory,colui che presta assistenza, cresce e si migliora; il ruolo di helper aumenta la sua autostima e la consapevolezza di sé e delle sue capacità (Riessmann, 1965; Folgheraiter, 1991). L’utente così ha un ruolo doppiamente attivo nel percorso d’aiuto: partecipa alla riattivazione delle sue risorse ma, allo stesso tempo, fornisce all’operatore delle occasioni per migliorare la sua pratica professionale.

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proprio in questo circolo di pensieri che si attiva la riflessività che, a sua volta, dà vita ad azioni critiche e aumenta la sensibilità dell’operatore. L’inserimento della riflessività come metodologia indispensabile e innovativa nel servizio sociale rappresenta il vero punto di svolta. L’operatore è finalmente libero di lasciare il sentiero tracciato dal positivismo, dove gli utenti sono classificati in rigide categorie e dove l’esperienza empirica è l’unica degna di nota.

La componente intuitiva dell’agire professionale, la “riflessione-in-azione” e la “conoscenza-in-azione”98 sono le nuove frontiere del lavoro sociale, gli strumenti attraverso cui la relazione d’aiuto diventa una relazione d’ascolto, di comprensione, di coinvolgimento, ma anche di consapevolezza della propria fallibilità e fragilità sia in fase di valutazione che in fase di intervento99. Nel concreto, l’autore ha provato a delineare (in più opere) un gradiente di relazionalità che il professionista del sociale dovrebbe tenere a mente, che viene illustrato nella figura sottostante (Ibidem, 315).

98 “Riflessione-in-azione” e “conoscenza-in-azione” sono due concetti introdotti da Patricia

Benner, una delle pioniere della nursing care nel Regno Unito. Con il primo termine l’autrice si riferisce al tentativo di ricomporre gli aspetti imprevisti durante l’attività professionale. Il secondo indica le attività professionali qualificate, che fanno parte dell’inconsapevole routine di tutti gli operatori sociali.

99 Prima della Benner, che scrive di riflessività a partire dal ‘96 e in riferimento al nursing care,

Donald Schön ha introdotto la pratica riflessiva come strumento fondamentale per i professionisti. relazionalità

assente

relazionalità massima

Figura 6- Possibili gradi di relazionalità riferiti a una unità agente formata da Ego e Alter

Ego elabora la finalità; Alter contribuisce a perseguirla perchè è costretto (con al forza) Ego elabora la finalità; Alter contribuisce a perseguirla perchè è tenuto a farlo (per legge, obblighi istituzionale etc) Ego elabora la finalità; Alter contibuisce a perseguirla perchè è d’accordo per sua libera scelta

Ego e Alter per libera scelta elaborano insieme la finalità e insieme la perseguono

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Così a seconda del grado di condivisione dell’elaborazione delle finalità, di partecipazione all’esecuzione degli atti e di volontarietà in ogni fase, secondo l’Autore è possibile dedurre un certo grado di relazionalità. C’è però da chiedersi come sia misurabile questo massimo grado di relazionalità e quali outcomes produca non solo sulla rete che è stata magari attivata dall’operatore, ma anche sull’operatore stesso. Tematizzazione che l’Autore non affronta mai esplicitamente o andando in profondità, così è naturale che le perplessità emergano e le contraddizioni vengano rese evidenti. Spesso l’Autore nel corso dei suoi scritti sembra dare per scontato l’incapacità di quelle che egli stesso chiama come ‘reti naturali’ di essere capaci di ‘vedersi in azione’ e di diventare una soggettività sociale solo grazie all’aiuto dell’operatore che per definizione è l’esperto che lavora per consegnare ‘consapevolezza del loro agire alle relazioni sociali stesse’ (Folgheraiter 2007, 334). Inoltre l’Autore continua a dare sempre per scontato il ruolo dell’operatore sociale come guida dei processi sociali di aiuto e non prende in considerazione gli effetti riflessivi che tale ruolo ha sull’operare dello stesso professionista. Così, nonostante riconosciamo il merito dell’Autore di aver portato nel mare magnum del social work italiano nuovi concetti che tentano di umanizzare un welfare in evidente crisi, credo però che allo stesso tempo, Folgheraiter utilizzi concetti analitici dissonanti, che a tratti contraddicono il

framework teorico in cui sono inseriti perché utilizzati ancora in un paradigma di

tipo assistenziale. In esso le relazioni sociali vengono valorizzate e promosse, ma senza un riconoscimento della propria diversità (differenza di ruolo, di funzione, di azione, di supporto al servizio etc.) attraverso la legittimazione reciproca delle proprie differenze per poi passare alla costruzione di un’identità e di una prospettiva comuni (soggettività sociale). Diventa così fondamentale che il singolo operatore e gli operatori tra loro, nell’esercizio della pratica professionale, sia a livello intra- organizzativo che inter-organizzativo, stabiliscano un circolo nutritivo tra conoscenze teoriche e pratiche (Pozzobon e Michelon 2007) affinché lo sviluppo della soggettività sociale dell’unità agente possa crescere nella dimensione identitaria e nella dimensione delle competenze dell’organizzazione (Prandini 2010). Così il processo di aiuto può diventare più di un’azione di coping: un’azione capace sì di risoluzione di un problema sociale (coping), ma anche di un’apertura (opening) verso una comunità di relazioni o (o un “Noi” riflessivo, con le parole di Prandini) per

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realizzare un’azione di copening100 come risultato di articolati e faticosi processi relazionali e di lavoro sociale quotidianamente affinati e mai definitivi.