L’agrumicoltura italiana è legata, come si è visto, soprattutto alla coltivazio- ne di limoni, arance (dolci), mandarini e clementine, prodotti consumati freschi o uti- lizzati per la trasformazione in succhi o confetture.
Meno conosciuta è l’agrumicoltura orientata alla produzione di oli ed essen- ze, in passato invece più fiorente in Italia. La Calabria è forse la Regione più orien- tata a questo tipo di produzione, con le sue coltivazioni di bergamotti e cedri. Del bergamotto non si conosce l’esatta provenienza; secondo alcuni potrebbe derivare per mutazione genetica da preesistenti specie agrumarie, quali limone o arancia ama- ra. Tra i botanici, invece, c’è chi classifica il bergamotto come specie a sé stante (Risso e Poiteau). Alcune leggende lo fanno arrivare dalle Isole Canarie, da cui sarebbe stato importato ad opera di Cristoforo Colombo, altre lo narrano arrivato dalla Cina, dalla Grecia o dalla Spagna. Una di queste storie racconta di un moro di Spagna che ne vendette un ramo ai signori Valentino di Reggio Calabria per diciotto scudi, i quali lo innestarono su un arancio amaro in un loro possedimento nella Contrada Santa Caterina.
L’etimologia più verosimile del nome è berg-armudi, pero del signore, per la
sua similarità con la forma della pera bergamotta. Nel periodo medievale era già conosciuto, visto che il primo a menzionare questa pianta fu Padre Gian Battista Fer-
rari che, in un trattato pubblicato nel 1646, descrive un aurantium stellatum et
roseum, ubicato a Napoli nel giardino del Conte di Nola, che secondo alcuni bota- nici potrebbe identificarsi con il bergamotto.
La fortuna dell’essenza di bergamotto si deve all’italiano Gian Paolo Femi-
nis che, emigrato a Colonia nel 1680, formulò l’aqua admirabilis utilizzando insie-
me ad altre essenze l’olio estratto manualmente, pressando la scorza del frutto e facendola assorbire da spugne naturali, collocate in appositi recipienti. Le acque di colonia, oggi vastamente impiegate, traggono la loro origine proprio da tale ricetta in quanto i Farina, eredi del Feminis, la brevettarono nel 1704 con il nome della cit- tà tedesca e la diffusero con grande successo in tutto il mondo.
La prima piantagione intensiva di alberi di bergamotto fu realizzata, nel 1750, da Nicola Parisi nel fondo di Rada Giunchi. Originariamente, l’essenza veniva estrat- ta dalla scorza per pressione manuale e fatta assorbire da spugne naturali (procedi-
mento detto “a spugna”) collocate in appositi recipienti (le concoline). L’industria- lizzazione del processo di estrazione dell’olio essenziale dalla buccia avvenne a metà dell’Ottocento, grazie a una macchina di invenzione del reggino Nicola Barillà, deno-
minata macchina calabrese, che garantiva una resa elevata in tempi brevi, ma anche
un’essenza di ottima qualità se paragonata a quella estratta “a spugna”.
Il bergamotto è impiegato da diversi secoli anche in gastronomia; l’uso ali- mentare dell’agrume risale almeno all’aprile del 1536, come risulta dal menù di “magro” – composto da 200 portate salate e dolci, tra cui ben 6 libre di bergamotti confetti, preparati magistralmente dal grande cuoco Bartolomeo Scappi – offerto all’Imperatore Carlo V, di passaggio per Roma, dal Cardinale Lorenzo Campeggi.
Il cedro (Citrus medica) – di cui si hanno antichissime testimonianze – sem-
bra invece sia originario dell’India e della Birmania, arrivato dalla Persia nei paesi Mediterranei e, probabilmente nel III secolo a.C., in Italia. L’importanza economi- ca del cedro deriva dalla scorza che viene utilizzata per la preparazione di canditi, acqua e sciroppo di cedro e per l’estrazione di olii essenziali; con il succo di questo agrume, inoltre, si preparano bibite e, in medicina, il cedro è utilizzato per la prepa- razione di infusi. Quasi tutta la produzione italiana di cedro proviene dalla Riviera dei Cedri, in Calabria, dove i contadini d’inverno coprono le piante con le canne.
La coltura è molto antica ed è strettamente legata all’immigrazione ebraica e alla successiva occupazione bizantina; il cedro, infatti, è impiegato per la festa ebrai-
ca dei Tabernacoli e per le celebrazioni religiose della sukkoth. Nel XVI secolo la
cedricoltura calabrese aveva avuto grosso sviluppo proprio per la presenza di folte colonie ebraiche in Calabria, calcolabili intorno a 50.000 persone, quasi il 10% del- la popolazione residente, ma si coltivavano i cedri anche in Puglia, in Campania – dove la Scuola Medica Salernitana ne prescriveva l’uso medico, incentivando così la sua produzione – e in Sicilia. Successivamente, i cedri scomparvero da queste Regio- ni per l’intolleranza religiosa dei dominatori spagnoli; tuttavia, qualche sporadica presenza rimane tuttora in Sicilia.
Il cedro raccolto viene “salamoiato” direttamente in zona e successivamente venduto per la metà all’estero (soprattutto Germania e Paesi Bassi) e per il resto nell’Italia Centro-settentrionale, per la canditura e l’uso dolciario.
Una parte del prodotto viene ancora oggi esportato per motivi religiosi. Ogni anno alcuni rabbini si recano in riviera, nei mesi di luglio e agosto, per raccogliere
direttamente e controllare di persona i piccoli cedri, indispensabili per la sukkoth che
si svolge nel mese di settembre e che è per gli Ebrei di tutto il mondo l’avvenimen- to religioso più importante dell’anno. La raccolta, infatti, deve essere fatta sotto la diretta supervisione del rabbino, che si reca presto nei fondi insieme al contadino per la scelta dei frutti. Possono essere raccolti soltanto i cedri provenienti da tronchi lisci senza “vozze”, ovvero in cui non c’è stato innesto, secondo quanto Dio prescrisse a
5 La Fondazione Slow Food è stata creata da Carlo Petrini nel 1986 con lo scopo «di dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio» ed è diventata, nel 1989, un’associazione internazionale che oggi conta 86.000 iscritti in 130 paesi e sedi in Italia, Germania, Svizzera, Sta- ti Uniti, Francia, Giappone e Regno Unito. I Presidi Slow Food, uno dei tanti progetti avviati dall’associazione, «sostengono le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzano territori, recuperano me- stieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvano dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta». Si contano almeno 200 Presìdi in Italia e altri 120 nel mondo, dal pepe nero di Rimbàs della Malesia al- la vaniglia di Mananara in Madagascar (http://www.fondazioneslowfood.it/ita/presidi/lista.lasso).
Mosé. I rami delle piante sono bassi e pieni di spine pericolose, per cui il rabbino deve coricarsi per terra e scrutare tra le foglie per scegliere i frutti buoni da indica- re al contadino; il piccolo frutto, avvolto nella stoppa, viene poi riposto nella cas- setta e commercializzato.
Un altro agrume minore è il chinotto (Citrus myrtifolia), un agrume origina-
rio della Cina meridionale (da cui deriva il nome comune), presente in Europa da molti secoli. Secondo alcuni studiosi è considerato una mutazione gemmaria del Citrus aurantium; i suoi frutti sono utilizzati per produrre canditi, liquori, marmel- late, mostarde e la classica bibita. Come la maggior parte degli agrumi, anche i chi- nottini possono aspettare a lungo sulla pianta prima di venir colti. Sembra, anzi, che al chinotto spetti il primato, dato che si dice possa rimanere sul ramo fino a due anni.
Attualmente la coltivazione del chinotto è completamente scomparsa dalla Penisola Iberica, dalla Provenza, dal Nord Africa, dalla Turchia e dalla Siria, dove prima era frequente; è ancora presente, anche se in misura molto inferiore al passa- to, in Georgia sulle coste del Mar Nero, specialmente intorno alla capitale Tblisi. In Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, la coltivazione dei chinotti era pre- sente solo in Liguria, da Ventimiglia fino a Nervi, e in Sicilia. Oggi questo agrume è coltivato in maniera industriale solo nella provincia di Savona (da Albenga a Savo- na), con un picco di produzione nella zona compresa da Pietra Ligure a Finale Ligu-
re, e dal settembre 2004 è entrato a far parte dei Presìdi Slow Food5. Proprio dalla
Liguria arrivò l’usanza di candire gli agrumi: nel 1860, infatti, il droghiere savone- se Vincenzo Besio apprese l’arte della canditura dai tecnici di un’industria francese che dalla Provenza si era trasferita nella sua città. Allo stato attuale la Liguria rima- ne, insieme alla Georgia, l’unica zona dove la pianta del chinotto cresce spontanea fuori dal suo areale asiatico; in Sicilia, invece, lo si ritrova sporadicamente solo nel- la zona di Taormina.
La bevanda al chinotto si presentò sul mercato italiano nei primi anni Ses- santa del secolo scorso, quando i produttori cominciarono a commercializzarla insie- me all’aranciata, quasi fossero, entrambe, un simbolo del “miracolo economico”. Il chinotto divenne una bevanda molto popolare, ma ben presto dovette cedere il posto a simili prodotti di origine statunitense, tanto da uscire dal mercato; le coltivazioni dei suoi alberi si indirizzarono, così, alla produzione di piante ornamentali.
A distanza di qualche decennio, negli anni Novanta, si diffuse tra i giovani uno
spirito antiamericano e l’avversione per gli USAsi concretizzò anche nel boicottag-
gio delle loro bibite a favore del riscoperto chinotto, facendo tornare la bibita di moda, tanto che una famosa ditta produttrice italiana iniziò a produrre quest’antica bevan- da, imitata più di recente anche da una nota ditta statunitense che ha messo sul mer- cato una sua versione del chinotto.
6 Dichiarazione adottata nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la diversificazione, do-
cumento (ICCD/COP(3)CST/3) dell’8 settembre 1999.