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Cultura, tradizioni e qualità degli agrumi

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Academic year: 2021

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CULTURA,

TRADIZIONI

E QUALITÀ

DEGLI AGRUMI

a cura di

Francesca Giarè e Sabrina Giuca

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CULTURA, TRADIZIONI

E QUALITÀ

DEGLI AGRUMI

Istituto Nazionale di Economia Agraria

I quaderni del progetto “Piano agrumi”

Quaderno n. 4

a cura di

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Il presente lavoro è stato finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Fore-stali nell’ambito delle attività della Misura 7.3 “Assistenza tecnica e monitoraggio” del Pia-no agrumicolo nazionale affidata all’INEA(D.M. 52438 del 27 dicembre 2000).

Per l’approfondimento delle tematiche specifiche legate al comparto agrumicolo è stato costi-tuito, nell’ambito del progetto INEA“Piano agrumi”, il seguente gruppo di lavoro:

Sabrina Giuca (INEARoma): Responsabile del progetto e coordinatore del gruppo di lavoro. Ida Agosta (INEASicilia); Laura Aguglia (INEARoma); Felicetta Carillo (INEACampania);

M. Assunta D’Oronzio (INEABasilicata); Paola Doria (INEARoma); Franco Gaudio (INEA Ca-labria); Francesca Giarè (INEARoma); Dario Macaluso (INEASicilia); Fabio Albino Madau

(INEA Sardegna); Maria Cristina Nencioni (INEA Roma); Pierpaolo Pallara (INEA Puglia); Maria Angela Perito (INEARoma); Gaetana Petriccione (INEARoma); Maria Rosaria Pupo

D’Andrea (INEACalabria); Graziella Valentino (INEAPuglia).

Segreteria tecnica e amministrativa: Elisa Bellini, Paola Franzelli, Barbara Grisafi, Roberta Ioiò. Elaborazione dati: Marco Amato, Fabio Iacobini, Mauro Santangelo, Beatriz Torighelli. La collana “I quaderni del progetto Piano agrumi” è a cura di Sabrina Giuca (coordinamento e revisione testi).

I contributi al testo sono di:

Introduzione: Francesca Giarè e Sabrina Giuca Parte I: Francesca Giarè

Parte II: Sabrina Giuca (escluso paragrafo 5.3 di Felicetta Carillo e Sabrina Giuca) Conclusioni: Sabrina Giuca

La grafica e l’impaginazione sono state curate da Laura Fafone. La foto di copertina è di Sabrina Giuca.

Quaderni pubblicati:

D’oronzio M.A. - Giuca S. (a cura di) (2008): Strumenti trasversali per la competitività del-le imprese del settore agrumicolo, Quaderno n. 1.

Carillo F. - Doria P. - Madau F.A. (2008): L’analisi della redditività delle colture agrumico-le attraverso l’utilizzo dei dati Rica, Quaderno n. 2.

Aguglia L., Carillo F., Madau F.A., Perito M.A. (2008): La commercializzazione degli agru-mi freschi e trasformati, Quaderno n. 3.

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PRESENTAZIONE

Il Piano agrumicolo nazionale (legge n. 423 del 1998) è il documento di pro-grammazione di medio-lungo periodo del Ministero delle Politiche Agricole Alimen-tari e Forestali per guidare l’innovazione e la riorganizzazione del comparto agru-micolo italiano, fortemente compromesso da annosi e persistenti elementi di critici-tà. Ciò, nonostante siano presenti nelle regioni del Sud produzioni tipiche di pregio e a denominazione di origine e siano stati promossi negli anni, attraverso la politica nazionale e regionale, interventi per l’ammodernamento strutturale e la riconversio-ne varietale.

L’obiettivo, attraverso lo svolgimento coordinato e ottimale di tutti gli inter-venti e la piena operatività del programma di aiuti nazionale al settore, è quello di ricostruire la competitività sui mercati delle nostre produzioni, in particolare per il prodotto fresco, attraverso il contenimento dei costi di produzione, la riorganizzazio-ne della commercializzazioriorganizzazio-ne, il miglioramento della qualità dei prodotti agricoli e la valorizzazione di varietà particolari, tenendo conto della vocazionalità del com-parto italiano e della dinamica dei mercati.

L’Istituto Nazionale di Economia Agraria, nell’ambito della Misura 7.3 “Assi-stenza tecnica e monitoraggio” del Piano agrumi, è stato chiamato a svolgere una

serie di attività che vanno dal supporto tecnico-scientifico al MIPAAFe alle

Regio-ni al moRegio-nitoraggio delle Misure del Piano agrumi e dei PiaRegio-ni agrumicoli regionali, alle attività di approfondimento e ricerca su tematiche specifiche legate al compar-to agrumicolo.

In questo contesto si inserisce la collana “I quaderni del progetto Piano

agru-mi”, finalizzata ad approfondire alcune importanti tematiche che riguardano il com-parto agrumicolo. L’auspicio è che questo lavoro, nel cogliere ed esaminare le pecu-liarità e i problemi che investono il sistema agrumicolo – dalle ridotte dimensioni aziendali al limitato associazionismo tra produttori, dallo scarso raccordo con l’indu-stria di trasformazione all’insufficiente organizzazione della rete commerciale – pos-sa contribuire all’analisi dei meccanismi più idonei per riqualificare l’intero settore.

On. Lino Carlo Rava Presidente INEA

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INDICE

INTRODUZIONE. . . 7

PARTE I CULTURA E TRADIZIONI DEGLI AGRUMI. . . 11

CAPITOLO I L’EVOLUZIONE DELLA PRODUZIONE DEGLI AGRUMI IN ITALIA. . . 13

1.1 Gli agrumi e l’Italia: percorsi, usi, funzioni dei giardini. . . 13

1.2 Paesaggi e passaggi nell’Italia meridionale. . . 17

1.3 Il lavoro, le persone, le relazioni. . . 19

1.4 Le conoscenze. . . 22

1.5 Feste, sagre, credenze. . . 26

1.6 Gli agrumi minori. . . 28

CAPITOLO II TRE STORIE DELL’ITALIA DEL SUD. . . 33

2.1 Regione Campania: terrazze sul mare . . . 33

2.1.1 Le origini. . . 34

2.1.2 L’importanza dei giardini nell’economia attuale. . . 36

2.1.3 La sfida culturale. . . 38

2.2 Regione Puglia: aranceti sull’Adriatico. . . 39

2.2.1 Mille anni di storia. . . 40

2.2.2 Dall’esportazione dei frutti a quella delle famiglie: viaggio verso l’America. . . 41

2.2.3 La tutela e la valorizzazione del paesaggio e del prodotto. Il riconoscimento IGP . . . 44

2.3 Regione Sicilia: il Tardivo di Ciaculli - Breve storia degli agrumi nella Conca d’Oro e della fatica di sottrarre i giardini alla mafia . . . 45

2.3.1 Il periodo d’oro della Conca, la crisi dei limoni e lo sviluppo del mandarino. . . 46

2.3.2 I giardini di Ciaculli. . . 47

2.3.3 Il parco agricolo di Palermo e la resistenza di Ciaculli. . . 49

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PARTE II

LA QUALITÀ DEGLI AGRUMI: TUTELA, VALORIZZAZIONE E PROMOZIONE. . 55

CAPITOLO III LE SPECIFICITÀ INTRINSECHE DEGLI AGRUMI ITALIANI. . . 57

3.1 Gli agrumi del Mediterraneo. . . 57

3.2 Areali produttivi, varietà coltivate e peculiarità del prodotto fresco italiano. . . 58

CAPITOLO IV LA QUALITÀ COMMERCIALE DEGLI AGRUMI. . . 63

4.1 La qualità degli agrumi allo stato fresco. . . 63

4.2 La qualità dei prodotti agrumicoli trasformati. . . 66

4.3 Le norme di commercializzazione e l’etichettatura degli agrumi. . . 70

4.4 La sicurezza alimentare e la rintracciabilità degli agrumi. . . 76

CAPITOLO V LA QUALITÀ CERTIFICATA DEGLI AGRUMI. . . 81

5.1 Marchi commerciali e marchi collettivi. . . 81

5.2 Gli agrumi a marchio DOPe IGP. . . 92

5.3 Gli agrumi da agricoltura biologica certificata. . . 104

CAPITOLO VI LA PROMOZIONE DELLA QUALITÀ DEI PRODOTTI AGRUMICOLI. . . 115

6.1 Commercio e consumi dei prodotti agrumicoli. . . 115

6.2 Forme di promozione delle tipicità agrumicole italiane. . . 124

CONCLUSIONI. . . 129

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INTRODUZIONE

La prima parte di questo lavoro, dedicata al legame tra la cultura e gli agru-mi, rappresenta senza dubbio un’occasione per leggere i cambiamenti sociali e cul-turali della nostra agricoltura, fatta non solo di produzioni, ma anche di tradizioni, usi, modalità di interazione, rapporti tra città e campagna. Paesaggi, modalità di pro-duzione e rapporti di lavoro, conoscenze, sagre e tradizioni, infatti, sono tutti elemen-ti che si modificano con l’introduzione di una colelemen-tivazione, che generalmente si tra-duce nella scelta della cultivar più adeguata al territorio, nella ricerca di una giusta acclimatazione, della potatura migliore, delle tecniche di irrigazione e di raccolta, nella ricerca di condizioni migliori per la conservazione e la vendita. Tutti questi pas-saggi rappresentano momenti importanti nella vita di una comunità e ne testimonia-no allo stesso tempo l’evoluzione e l’attaccamento alle tradizioni.

In particolare, i tratti più significativi dell’evoluzione della produzione degli agrumi in Italia e del loro impatto sulla nostra cultura vengono ripercorsi attraverso il contributo di tre autori, che costituiscono le fonti principali della prima parte di

questo lavoro. Il primo autore, Francesco Calabrese, ne La favolosa storia degli

agru-mi offre una panoraagru-mica ampia e articolata della storia degli agruagru-mi, spaziando nel tempo e nello spazio con la citazione di fonti storiche e di dati puntuali. Salvatore

Lupo, invece, nel suo Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi nella storia del

Mezzogiorno, propone una ricostruzione attenta delle dinamiche sociali legate all’in-troduzione dell’agrumicoltura nel nostro meridione. Infine, Piero Bevilacqua,

auto-re di Clima, mercato e paesaggio agrario nel Mediterraneo, in “Storia

dell’agricol-tura italiana in età contemporanea” e de Il paesaggio degli alberi nel Mezzogiorno

d’Italia e in Sicilia (fra XVIII e XX secolo), in “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” 10/1988, approfondisce non solo gli aspetti legati al paesaggio, ma offre anche nume-rose riflessioni sulle questioni culturali e sociali dell’arboricoltura italiana.

La prima parte di questo lavoro, dunque, presenta una breve ricostruzione del-le fasi principali dello sviluppo – e della crisi – dell’agrumicoltura italiana, in rela-zione ad alcuni fattori ritenuti fondamentali: i percorsi, gli usi e le funzioni dei giar-dini – così vengono definiti in genere gli agrumeti – nella nostra cultura; il ruolo di questa produzione nel cambiamento del paesaggio italiano; il cosiddetto “fattore uma-no” (il lavoro, le persone, le relazioni); la produzione delle conoscenze; il rapporto tra gli agrumi e le tradizioni popolari. Una parte del lavoro è dedicata anche a quel-li che sono stati definiti gquel-li “agrumi minori”, cioè il cedro, il bergamotto e il chinot-to, piccole produzioni ancora cariche di grandi significati.

Le tre storie raccontate nel secondo capitolo, i cui utili riferimenti sono stati i lavori di Giuseppe Barbera sul mandarino tardivo di Ciaculli e, più in generale,

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sul-le probsul-lematiche dell’agrumicoltura siciliana e altre numerose fonti disponibili su internet, sono legate ad altrettanti contesti locali dell’Italia del Sud. In questo modo è stato possibile focalizzare l’attenzione su questioni di carattere più generale: la pri-ma storia, che presenta i terrazzamenti della Piana di Sorrento, pone l’accento sul-l’importanza del paesaggio agricolo italiano; la seconda storia, sull’agrumicoltura del Gargano, consente di approfondire ulteriormente gli aspetti dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali; la terza, invece, sul mandarino tardivo di Ciaculli, affron-ta il tema del rapporto città-campagna e quello della legalità.

Nella seconda parte del lavoro, l’attenzione si sposta, innanzi tutto, sulle spe-cificità intrinseche degli agrumi italiani. L’elevata vocazione produttiva del territo-rio e il consolidarsi di tradizioni colturali e di eccellenza, con denominazioni di ori-gine riconosciute a livello comunitario, hanno ritagliato al nostro paese una posi-zione di rilievo a livello mondiale, che è andata a erodersi nel tempo, per effetto della

globalizzazione del mercato e dell’internazionalizzazione di competitors (Spagna,

Brasile e Usa), forti di una logistica efficace e di costi di produzione più contenuti. L’agrumicoltura italiana ha dunque perso la posizione di leadership nell’area del Mediterraneo a causa di persistenti problemi strutturali delle aree maggiormen-te vocamaggiormen-te alle colture agrumicole, in particolare Sicilia e Calabria, dei costi elevati dei fattori di produzione e delle problematiche legate alla qualità commerciale, che spesso non presenta i livelli standard e di omogeneità richiesti per la collocazione sul mercato del fresco.

La superficie ad agrumi si è mantenuta stabile negli ultimi anni (166.364 etta-ri), sia a livello complessivo, sia in termini dì distribuzione territoriale, mantenendo inalterata la localizzazione in Sicilia (oltre il 60%), in Calabria (oltre il 20%) e, in misura minore, nelle altre Regioni (Puglia, Campania, Basilicata). Pur essendo migliorata la composizione varietale degli agrumi italiani, la qualità intrinseca del prodotto ha risentito del fatto che varietà di pregio – in relazione ai redditi più ele-vati di quelli di altre colture – si sono diffuse in areali non idonei alla produzione o marginali, inficiandone gli standard qualitativi; inoltre, il perdurare di fattori atmo-sferici avversi, con alternanza di periodi di siccità a piogge torrenziali, ritarda la matu-razione dei frutti e le operazioni di raccolta e spesso condiziona la pezzatura delle produzioni, riducendone il calibro e penalizzandone la presentazione commerciale. Il lavoro si sofferma a lungo proprio sulla qualità commerciale e sulle forme di certificazione della qualità, evidenziando le caratteristiche e le criticità, non sen-za trascurare la sicurezsen-za alimentare e la tracciabilità delle produzioni agrumicole, approfondendone gli aspetti normativi.

Il lavoro prosegue con una breve analisi della commercializzazione degli agru-mi freschi e trasformati, riguardo sia alla collocazione del prodotto sul mercato inter-no, sia al comportamento dell’Italia nei mercati internazionali, passando per i

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con-sumi interni; l’evoluzione dei concon-sumi e delle scelte di acquisto degli italiani si è tra-dotta, negli ultimi anni, in una contrazione, in generale, dei consumi di prodotti orto-frutticoli freschi, anche se le produzioni agrumicole di qualità certificata (biologi-che e a denominazione di origine) realizzano interessanti risultati in termini di volu-mi e di fatturato, soprattutto per effetto dell’ampliamento dei mercati di riferimento e dell’evoluzione dei canali commerciali. Il segmento del trasformato, invece, man-tiene un tasso di sviluppo basso rispetto a quello di altri paesi europei, per effetto di abitudini di consumo consolidate (succo di arancia bionda).

Da ultimo, si offre un quadro delle principali forme di intervento istituziona-le per la valorizzazione e la promozione della qualità dei prodotti agrumicoli sul mer-cato interno.

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PARTE I

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CAPITOLO I

L’EVOLUZIONE DELLA PRODUZIONE DEGLI AGRUMI

IN ITALIA

1.1 Gli agrumi e l’Italia: percorsi, usi, funzioni dei giardini

Gli agrumi sono presenti in Italia almeno dai tempi dell’antica Roma, come

testimoniato da reperti famosi, primo tra tutti la Casa del frutteto a Pompei, dove

figu-rano, dipinti sulle pareti, frutti simili ai limoni che ancora oggi si coltivano nella zona. Nella letteratura latina, inoltre, appaiono numerosi richiami ai cedri, il più lon-tano dei quali risale al II sec. a.C., quando il grammatico Cloanzio Vero lo enumera accanto ad altri frutti. Alcuni fanno risalire la loro presenza ai greci, che li avrebbe-ro intavrebbe-rodotti in Italia durante la dominazione. Teocrito da Siracusa, tuttavia, non ne parla quando – nel III sec. a.C. – descrive la flora dell’Italia Meridionale, dove la presenza dei greci fu invece forte. Ciò dimostrerebbe quanto, secondo altri, sarebbe

invece avvenuto: il passaggio degli agrumi all’Italia attraverso lamediazione

cultu-rale degli ebrei, prima, e degli arabi, poi. Colonie ebraiche esistevano, infatti, in Italia nel 164 a.C., quando Eupolemo e Giasone, ambasciatori dei Giudei, giunsero nella Penisola per allearsi con i romani.

Duemila anni fa, comunque, gli agrumi non erano molto diffusi e avevano essenzialmente una funzione decorativa (soprattutto i limoni) e religiosa (soprattut-to i cedri), legati ancora oggi alle festività ebraiche. Rappresentazioni di cedri, accan-to a candelabri a sette braccia e rami di palma, sono state trovate a Ostia, nell’edi-cola di una sinagoga; altre sono visibili nella catacomba ebraica dell’Appia antica, in lapidi del I e II secolo.

Le prime citazioni di scrittori latini sono quelle di Virgilio, che nelle

Georgi-che chiama il cedro con il termine “frutto della Media”; successivamente, Plinio, nel Naturalis historia, lo chiama “Pomo d’Assiria”. Altri ancora ne parlano nell’an-tichità, da Petronio a Scribonio Largo e Marziale. Nei testi romani di agricoltura, tut-tavia, non è menzionato in alcun modo l’agrume, a conferma del fatto che il suo uso fosse essenzialmente decorativo.

Si parla del cedro, però, anche nell’editto di Diocleziano del 310 d.C., con il quale venivano fissati i prezzi di vari prodotti e articoli del commercio per far

fron-te alla crisi economica: il citrus non poteva superare i 24 denari. In questo periodo,

quindi, il cedro doveva essersi diffuso sia in coltivazioni sia in uso. Risale al III-IV secolo d.C. anche la descrizione tecnica di questo agrume più accurata

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affer-1 Ibn Giubair, scrittore arabo nato in Spagna, in viaggio in Italia dal 1183 al 1185.

ma di possederne addirittura diversi esemplari in Sardegna e nel napoletano. Palla-dio dedica un intero capitolo al cedro, di cui descrive la tecnica di propagazione (seme, talea, pollone e “claba”), l’innesto, il clima più adatto (nelle zone fredde sug-gerisce di proteggere le piante con tetti di paglia) e altro ancora.

In tutto questo periodo, tuttavia, si ha notizia quasi esclusivamente dei cedri; probabilmente, nonostante la conquista dell’Egitto e la possibilità di realizzare scam-bi commerciali con l’India e in generale con l’Oriente, i Romani non introdussero altri agrumi in Italia.

La dominazione araba rappresentò un momento importante per la conoscen-za degli agrumi e per il loro sviluppo nel nostro paese. Gli Arabi, nel periodo di mas-simo sviluppo, fecero notevoli avanzamenti in tutte le discipline scientifiche e l’agri-coltura ebbe un ruolo strategico nell’economica. In questa epoca furono migliorate le vecchie colture attraverso la selezione di varietà più produttive e il miglioramen-to delle tecniche agronomiche, e furono realizzate imponenti opere idriche che per-misero di rendere fertili anche quelle terre che prima non potevano essere adegua-tamente sfruttate. Grazie all’abilità dei giardinieri persiani, inoltre, si cominciarono ad abbellire i giardini dei palazzi con alberi di agrumi, che ben si integravano con l’architettura bizantina e che assunsero ben presto un valore decorativo di eccezio-nale importanza. Questo interesse è documentato da numerosi testi, alcuni dei qua-li riportano molte informazioni e dettagqua-li sulle varietà conosciute: il cedro, la spe-cie più conosciuta, l’arancio amaro, il limone e la lima. Mancava ancora l’arancio dolce, il cui percorso di introduzione in Italia risulta ancora incerto.

La dominazione araba, dunque, introduce nuove tecniche di coltivazione, cul-tivar più resistenti e produttive, tecniche di irrigazione, ma anche una nuova conce-zione degli spazi e dell’architettura, soprattutto in Sicilia. Intorno all’anno Mille le descrizioni della Regione dimostrano come la cultura araba abbia inciso profondamen-te nello sviluppo delle aree urbane e in particolare della città di Palermo, che viene

pre-sentata come «la città più bella dell’Isola», con «palazzi eccelsi e giardini ameni»1.

Risale a questo periodo la diffusione degli aranci amari nell’Isola, come dimo-strano testimonianze che raccontano di piante che adornavano la villa regia di

Fava-ra e Maredolce (nella cosiddetta Conca d’Oro, a Palermo) e l’esistenza di una “via

de Arangeriis” a Patti.

Con l’arrivo dei Normanni in Sicilia la coltivazione degli agrumi non fece ulte-riori progressi, mentre avanzò nei paesi arabi, anche in conseguenza dei frequenti scambi comerciali con l’Oriente.

Nel 1200 Jacopus Vitriacus scrisse una Historia hierosolymitana, in cui

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tem-2 Altri autori suggeriscono una conoscenza da parte dei Portoghesi risalente a qualche anno prima, quando

circum-navigando le coste africane questo popolo toccò le coste del Malindi e di altre regioni dell’Africa orientale.

po in Palestina, suo luogo di origine: ovviamente descrive cedri e limoni, ma anche

altri poma citrina, prodotti da alberi piccoli e chiamati dagli indigeni orenges

(dal-l’arabo naranji). I crociati svolsero un ruolo importante nella diffusione degli

agru-mi in Occidente, tanto che nei secoli XII, XIII e XIV gli agruagru-mi si diffusero in tut-ta Itut-talia e nel Sud della Francia e della Spagna. In Itut-talia, in particolare, si trova testi-monianza di giardini in Toscana (Paolino di Piero, 1301), in Liguria (Matteo Silvatico) e in Lombardia (lago di Garda), oltre che nelle Regioni meridionali.

In un testo di Hugo Falcando, storico della dominazione normanna in Sicilia,

si legge anche di arance dolci presenti sull’Isola già nel XII secolo, che «sembrano

colpire più per la loro bellezza che per la loro utilità, prodotte da un albero soste-nuto da una quasi continua giovinezza». Tale riferimento all’arancio dolce, tutta-via, è l’unico presente nel periodo, a conferma del fatto che, nonostante già presen-te in Italia, questo frutto non aveva ancora un grande utilizzo.

Della presenza dell’arancio amaro parla, invece, Nicolò Speciale quando rac-conta l’assedio di Palermo da parte del Duca di Calabria nel 1325, che non

rispar-miò neppure gli agrumi (che il popolo chiama arangias) che abbellivano il palazzo

della Cuba. Mentre Blondo Flavio di Forlì, geografo della metà del XIII secolo, rac-conta degli agrumi di Amalfi e del Golfo di Napoli, dove si trovano cedri e arance, ma anche limoni, che caratterizzano ancora oggi i terrazzamenti della zona, e di quel-li di Rapallo e San Remo, in Liguria.

Gli agrumi, comunque, erano diffusi in tutta l’Isola e non solo nelle regioni storiche di questa coltivazione. Lo Statuto di Fermo (Marche) del 1379, ad

esem-pio, riporta come conosciuti quattro specie di agrumi: Malorum aurantiorum, Citri,

Pomi Adae e Limoncelli.

Gli agrumi nel Trecento e Quattrocento erano entrati nella pratica culinaria ita-liana, ad esempio con l’utilizzo del succo dei limoni e delle arance nella cottura di anatre e oche, per l’arrosto e per condire polli e capponi (Fusco, 1991). Un

anoni-mo del 1400 suggerisce di utilizzare il succo dei lianoni-moni per condire la palamita.

Vista l’esigua diffusione dell’arancio dolce in Europa fino a tutto il Quattro-cento, diversi studiosi sono propensi a credere che la sua introduzione sia dovuta ai Portoghesi e non agli Arabi, visto anche che per secoli questo frutto fu denominato

con il termine Portogallo e sue varianti in Italia, Spagna e Grecia. Proprio in un

dia-rio di viaggio della prima missione di Vasco De Gama in India e Cina nel 1498,

quan-do il navigatore quan-doppiò Capo di Buona Speranza, si legge che in India «sonvi

mela-rancie assai, ma tutte dolci», dimostrando così di non aver conosciuto prima questo

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Secondo altri (Ferrao, 1986), l’arancio della Cina venne probabilmente intro-dotto nei primi decenni del 1600, in parziale sostituzione delle specie già presenti nella Penisola iberica, di minor pregio. In Italia – secondo questa ipotesi – furono probabilmente i Genovesi a importarli durante i loro commerci con l’Oriente, media-ti dalle “postazioni” in Persia, Asia centrale e Cina.

Leandro Alberti, geografo e botanico del Cinquecento, tuttavia, nelle note di un viaggio lungo la Penisola elenca i punti in cui si coltivano e vendono agrumi, citando Salerno e Napoli, in Campania, la Sicilia, con la particolare bellezza delle zone che circondano Palermo, la riviera Ligure, la Calabria e la Puglia, ma anche la Toscana, le Marche e la Lombardia, con i giardini del Garda. Aranceti erano pre-senti anche a Roma e in altre città del Centro e Nord Italia; tutto lascia quindi pen-sare che le arance dolci fossero presenti in Italia prima che i Portoghesi rendessero famosa questa coltivazione in seguito ai loro viaggi in Oriente.

In tutto il periodo rinascimentale gli agrumi sono presenti nell’arte e nella let-teratura italiana, a testimonianza della loro diffusione lungo la Penisola, dove aveva soprattutto scopo decorativo nei giardini delle nobili ville. Torquato Tasso (1544-1595) ne cita la presenza in alcuni versi famosi:

«Qui non fugaci mai vivon gli aranci, coi fiori eterni eterno il frutto dura e, mentre spunta l’un, l’altro matura».

A quell’epoca, infatti, le arance erano prodotte in gran quantità in Toscana, anche grazie alla famiglia De’ Medici e, in particolare, a Francesco I (1541-1587), che fece moltiplicare le raccolte di agrumi e sviluppò la coltivazione degli agrumi in vaso (che permetteva di mettere a riparo le piante nei mesi freddi); tra questi

frut-ti spiccavano l’arancio nano della Cina e l’arancio a frutti variegati.

La necessità di riparare dal freddo e dal vento gli agrumi richiedeva l’intro-duzione di innovazioni nelle coltivazioni. Era, infatti, noto che gli alberi coltivati sul lago di Garda, come riporta Augustin Gallo nel 1560, a novembre venivano coper-ti con legno di castagno e stoppa o fieno negli interscoper-tizi; nei giorni di sole venivano aperte delle finestre, chiuse quando poi il sole tramontava perché il freddo non entras-se. Nei giorni più freddi venivano addirittura accesi dei fuochi sotto le coperture per scaldare gli ambienti e proteggere gli agrumi.

Le tecniche di protezione si diffusero presto in tutta Europa (si pensi alle

oran-geries francesi), permettendo ai nobili di realizzare giardini di agrumi perfino nel

Nord Europa. Tra il XVI e il XIX secolo possedere un giardino era, infatti, uno

sta-tus symbol per le case nobili e benestanti, con un prevalente motivo estetico, anche se non mancavano esempi di speculazione commerciale.

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così la possibilità agli agrumi di trovare un uso nuovo. La tecnica di estrazione degli oli era antica ed era stata introdotta in Europa dagli Arabi, anche se l’utilizzo su lar-ga scala in profumeria di estratti oleosi e petali della zalar-gara è dovuto agli Italiani.

Il primo trattato che si occupa con attenzione degli agrumi è del 1513; si

trat-ta dell’opera Obra de Agricultura dello spagnolo Alonso de Herrera, in cui si

pas-sano in rassegna cedri, limoni, lime, aranci, pomeli e si affrontano tutti i temi con-nessi alla loro coltivazione: tecniche vivaistiche, concimazioni e cura del suolo, ecc. Il testo, tuttavia, contiene numerose inesattezze, come la possibilità di innestare gli agrumi su piante di pero, gelso, melograno, come suggerito in precedenza dal Pal-ladio. Il primo testo italiano è probabilmente quello di Ferrarius, prete gesuita di Sie-na, che nel 1646 dedica quattro volumi agli agrumi e parla di diverse varietà di aran-cio, tra cui quello con estroflessione ombelicale e quello a polpa rossa. Nel lavoro,

una parte è dedicata ai fabbricati costruiti per proteggere le piante dal freddo (

poma-ria). Da questo momento in poi l’impiego per fini commerciali degli agrumi sarà sempre più diffuso, mentre ridotta sarà la funzione ornamentale di questi alberi.

1.2 Paesaggi e passaggi nell’Italia meridionale

Un tratto comune del paesaggio agrario europeo nell’età moderna, come ben ci descrive Piero Bevilacqua nei suoi lavori sul tema, è dato dalla presenza di orti, campi e alberi da frutta facilmente deperibile coltivati intorno alle città. In questo modo, infatti, si poteva produrre non solo per l’autoconsumo ma anche per l’approv-vigionamento dei ceti urbani, e si potevano avere numerosi vantaggi agronomici: maggiore disponibilità di risorsa idrica, disponibilità di concimi da rifiuti urbani facil-mente trasportabile, sorveglianza e possibile frequente presenza sul fondo.

Sul finire del 1700 Goete raccontava come era frequente incontrare asini che trasportavano i rifiuti urbani fuori dalla città di Napoli, utili per concimare la cam-pagna periurbana. Sul finire del XIX secolo e nei primi decenni del XX, con la nasci-ta della “frutticoltura industriale”, invece, l’agricoltura invadeva l’apernasci-ta campagna e apriva nuove strade al Mezzogiorno d’Italia, proponendo un nuovo modello di sviluppo. L’Italia, in quegli anni, poteva rappresentare per l’Europa quello che in seguito la California rappresentò per gli Stati Uniti, ovvero una fonte inesauribile di prodotti per l’alimentazione e una fonte di benessere economico.

Tale “invasione” comportò, ovviamente, grandi cambiamenti nel paesaggio agrario italiano, il cui processo di rimodellamento avvenne proprio con l’introdu-zione dell’ortofrutticoltura a tutto campo. Questa felice combinal’introdu-zione di alberi e ver-dura, racconta Belivacqua, fu dovuta anche allo sviluppo senza precedenti dei con-sumi e alla velocità dei vettori di trasporto, che rivoluzionarono il settore del com-mercio.

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Il cambiamento portò mutamenti anche negli insediamenti, nella compagine sociale e nei comportamenti dei contadini, che – in bilico tra città e campagna – adeguarono i loro consumi, non solo alimentari, a quelli cittadini. Il modello di cul-tura urbana negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (di forte espansione del-l’ortofrutticoltura meridionale) generava, infatti, disprezzo per il lavoro della terra e per gli abitanti della campagna (Massafra e Russo, 1989), che – non appena il red-dito lo rendeva possibile – cercavano di apparire diversi, producendo il fenomeno

conosciuto come cafonaggio.

In questo contesto, si situa lo sviluppo dell’agrumicoltura in Italia e, in parti-colare, nel Mezzogiorno. La forma più antica e tipica di frutteto, infatti, è proprio il giardino mediterraneo, in cui la dominazione araba, come abbiamo visto, aveva dato un ruolo importante agli agrumi. Il giardino era caratterizzato da un’organizzazione agricola chiusa e separata dal territorio circostante, attraverso l’utilizzo di muretti e siepi che lo contrapponevano al paesaggio dominante del pascolo e delle semine pre-sente subito dopo, fuori dalla città.

Il giardino si configurava, quindi, come un più sicuro dominio individuale del proprietario sulla terra, una visibile certezza del possesso che favoriva la conti-nuità tra possessori e terra, ma anche – più praticamente – cure colturali e investi-menti di miglioramento fondiario. La vicinanza al possedimento era necessaria anche per proteggere le piante dagli animali e i frutti dagli uomini; trattandosi, poi, di pian-te in continua produzione, era anche necessario prevedere raccolpian-te periodiche e disporre di locali idonei per la conservazione e la lavorazione dei frutti.

Nel corso dell’Ottocento, quindi, il paesaggio si arricchì anche di case e magazzini, vennero costruiti nuovi sistemi di raccolta delle acque e di irrigazione, vennero sostituite colture fino ad allora tipiche (gelsi, canna da zucchero) e intro-dotte tecniche colturali sofisticate a supporto di varietà selezionate e vennero rea-lizzati terrazzamenti e chiusure di vario tipo dei terreni, a protezione dalle intempe-rie e dalle persone.

Nella seconda metà del IX secolo gli agrumi ebbero un grosso successo com-merciale, prima con il Nord Europa, dove venivano commercializzati fin dal 1700, e poi con gli Stati Uniti; a titolo di esempio, basterà citare il fatto che tra il 1866 e il 1875 il prezzo dei limoni raddoppiò. I giardini si allargarono e assunsero i teri di piantagioni razionali pur mantenendo la disposizione e le forme che li carat-terizzavano per eleganza in precedenza. Nacquero nuove figure professionali nel commercio, i mediatori, e anche nuove tipologie di proprietari, con la comparsa di borghesi facoltosi; l’agrumicoltura si avvicinò sempre più al mare, soprattutto in Sici-lia, dove vennero “conquistate” anche terre difficili come quelle delle pendici del-l’Etna, scavate con la dinamite per l’impianto degli agrumi, e come quelle della Peni-sola sorrentina, trasformate in terrazze sul mare e protette con pergolati di legno.

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Gli agrumi, tuttavia, come abbiamo visto, non hanno caratterizzato solo la pro-duzione di queste due Regioni, ma hanno trovato spazio in quasi tutta l’Italia. In alcu-ne zoalcu-ne essi hanno rappresentato un’occasioalcu-ne di sviluppo economico notevole per decenni ed hanno contribuito a modellare il paesaggio, unendo caratteristiche del ter-ritorio e inventiva dell’uomo. In Puglia, ad esempio, come vedremo più avanti, la zona del Gargano si è trasformata, nel periodo fiorente del commercio verso l’Ame-rica, producendo un paesaggio a scacchi, in cui gli agrumi sono alternati a file di albe-ri e di canne che li proteggono dai venti del mare; in Lombardia le piante sono nasco-ste sotto i pali di castagno, gli nasco-stessi che i campani utilizzano nella costruzione del-le pagliarelle a protezione dei terrazzamenti. In Sardegna le case sono state costruite

per decenni con un ampio cortile interno in cui raccogliere e vendere i frutti,

porto-galli ma anche specie introvabili altrove, come la pompìa, ancora coltivata nella zona di Siniscola e utilizzata esclusivamente nella preparazione di dolci tipici (cfr. para-grafo 1.5).

Oggi, intere zone famose per la produzione degli agrumi in diverse Regioni d’Italia versano in uno stato di abbandono e difficilmente potranno essere recupera-te per la produzione, che trova grosse difficoltà a collocarsi sui mercati inrecupera-ternazio- internazio-nali, vista la concorrenza di molti altri paesi. Alcuni luoghi, tuttavia, permangono nell’immaginario collettivo come zone privilegiate per queste colture e sono man-tenute solo per la bellezza che offrono ai turisti.

1.3 Il lavoro, le persone, le relazioni

L’introduzione di una nuova coltura in un determinato territorio comporta, ovviamente, anche cambiamenti nelle modalità organizzative del lavoro, nelle atti-vità pratiche da svolgere, nelle relazioni tra i diversi soggetti coinvolti nel processo. Tali mutamenti, comunque, si inseriscono in un contesto culturale e sociale già con-solidato, sulla cui base introducono variazioni differenti da luogo a luogo, in un pro-cesso, tutto sommato, di continuità con il passato. Così, in alcune zone d’Italia, l’in-troduzione degli agrumi ha portato a determinate modifiche delle relazioni e delle professioni, mentre in altri territori l’agrumicoltura ha prodotto situazioni di volta in volta differenti, a seconda della conformazione dei luoghi, dei rapporti di forza tra proprietari e lavoratori agricoli, della vicinanza o meno ai centri di raccolta e spedi-zione dei frutti.

I cambiamenti maggiori sono avvenuti nella fase di maggior successo del-l’agrumicoltura italiana, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, quando l’attività agricola tradizionale in gran parte del Mezzogiorno (agricoltura estensiva e pasco-lo) fu sostituita in molte zone con l’impianto di nuovi giardini, anche di grandi

dimen-sioni. Tutto ciò fu possibile anche grazie all’introduzione della noria Gatteaux,

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3 Salvatore Lupo, Il giardino degli aranci, Marsilio, Venezia, 1990.

i sistemi tradizionali, lasènia, strumento anticamente utilizzato per l’estrazione

del-l’acqua dai pozzi. Alla fine dell’Ottocento, comunque, si diffondono le moderne tec-nologie, come i motori a vapore e poi a gas povero, i motori a scoppio, e infine – nel Novecento – i motori elettrici.

L’input fornito dal mercato idrico è uno dei fondamentali elementi di deci-sione dei modi e dei tempi della trasformazione, che consolida – come è facile imma-ginare – il controllo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia proprietaria sul territorio e sull’uso delle risorse naturali. La lotta per l’acqua, da allora, non ha mai smesso di interessare gli agrumeti di tutta la Penisola, come si vedrà più avanti con la

sto-ria del mandarino di Ciaculli, nella Conca d’Oro a Palermo.

La contaminazione tra mondo aristocratico e mondo borghese che avviene a cavallo tra i due secoli più fortunati per l’agrumicoltura, con una redistribuzione del-le risorse dovuta all’intervento pubblico, permette una “democratizzazione” della struttura sociale, che conferma l’opinione di chi ritiene che la creazione di una

soli-da media proprietà rappresenti la sola riforma agraria percorribile3.

La proprietà veniva affidata a coloni o affittuari a miglioria ed enfiteuti;

que-sti ultimi avevano diritto reale di godimento sulla proprietà loro affidata. L’enfiteu-si è, fra i diritti reali su cosa altrui, quello di più esteso contenuto, al punto da esse-re stato considerato nei secoli come una forma di “piccola proprietà”. Nel 1865, però, il Codice Civile, prevedendo la possibilità di riscatto da parte del locatario, ne sco-raggiò di fatto l’utilizzo da parte di privati, che anzi cercarono di arginare la corsa degli enfiteuti al riscatto riprendendo pieno possesso dei loro possedimenti. Queste forme di conduzione degli agrumeti davano l’impressione che nel settore ci fosse una discreta presenza di piccoli proprietari, quando invece si trattava, per l’appunto, di gestori di proprietà altrui, anche se con pieni diritti sulla terra assegnata. Di fatto, anzi, l’azienda ad agrumi è quanto di più distante possa esistere dal modello di eco-nomia contadina cui normalmente si fa riferimento, per almeno due fattori, oltre al possesso della terra: in primo luogo, il prodotto non è finalizzato – se non in mini-ma parte – all’autoconsumo; in secondo luogo, nulla nell’agrumeto viene reimpiega-to, ma tutto deve essere acquistareimpiega-to, anche il letame. In questo settore, dunque, il capi-tale si differenzia dal lavoro e i ruoli sociali si irrigidiscono, non permettendo il pas-saggio dall’uno all’altro.

Nel caso della colonìa, il compartecipante otteneva, con un piccolo capitale di partenza, un impiego stabile per 4-6 anni, un’abitazione sul fondo, la possibilità di praticare colture secondarie quando, come nella maggior parte dei casi, l’agru-meto era stato da poco impiantato. I prodotti delle colture secondarie, in genere orti-cole, venivano, inoltre, quasi sempre lasciate al colono, mentre quelli dell’agrume-to in produzione venivano divisi generalmente con un criterio secondo cui la quota

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spettante al colono variava in senso inversamente proporzionale alla produttività del giardino; nel caso di impianti scadenti il rapporto è quasi quello della mezzadria, nel caso di impianti altamente produttivi la quota del colono era di un ottavo. Que-sti contratti permettevano ai proprietari di evitare gli oneri dell’impianto e della cura dell’agrumeto nella fase iniziale, poco produttiva, per poi riappropriarsi del posse-dimento dopo i 20-30 anni di cessione, generalmente il tempo per l’agrumeto di diventare altamente produttivo.

Un piccolo affittuario o un compartecipante aspirava generalmente ad assu-mere in un agrumeto gestito in economia il ruolo di salariato fisso, possibilmente con

ruolo direttivo, chiamato a seconda delle zone cutatolo, castaldo, massaro. In questo

caso, infatti, non era necessario avere un capitale di partenza o indebitarsi per otte-nere il contratto, ma si aveva comunque la certezza dell’impiego e della possibilità di effettuare coltivazioni secondarie, oltre alla possibilità di alloggiare nel fondo.

Il castaldo riceveva un salario doppio rispetto a quello del bracciante, tanto che le donne non avevano bisogno di lavorare fuori casa, ma potevano occuparsi di attività, come la sartoria, socialmente accette e che rafforzavano i legami con le

clas-si superiori. Il castaldo, inoltre, controllava la forza-lavoro occupata nell’agrumeto,

si occupava dell’ingaggio degli stagionali e, a volte, degli accordi con gli interme-diari per la vendita del prodotto; il suo ruolo era, quindi, strategico nel sistema degli scambi e delle relazioni sociali e il suo prestigio era tale che alcuni, in Sicilia, gli si

rivolgevano con l’appellativo di don e con il rispettoso “baciamo le mani”, a

con-ferma di un allargamento verso il basso degli status che nell’Ottocento

competeva-no ai ceti superiori.

Per quanto riguarda il lavoro manuale, le mansioni dipendevano, in parte, dal tipo di coltivazione e di destinazione del prodotto e, in parte, dalla vicinanza o meno dei mercati ai quali il prodotto stesso era destinato. Si possono, comunque, distin-guere due circuiti del mercato del lavoro: quello annuale delle attività colturali (zap-patura, concimazione, potatura, rimonda, irrigazione, trattamenti antiparassitari), per un totale di circa 120-130 giornate lavorative l’anno – che facevano di quella agru-maria la coltivazione a più alto carico di lavoro e garantivano ai braccianti stabilità –; quello stagionale della raccolta, che coinvolgeva mano d’opera locale ed esterna, che si muoveva da zona a zona a seconda dei settori produttivi. Le migrazioni stagiona-li divennero, così, una caratteristica di alcuni settori produttivi del Meridione e tra-valicarono anche i confini regionali e nazionali, fino a trasformarsi, con il XX seco-lo, in migrazioni addirittura transoceaniche nel periodo della grande emigrazione ver-so gli Stati Uniti. In centri come Modica, in Sicilia, e Cosenza, in Calabria, si concentrarono, già a fine Ottocento, intere squadre di braccianti migranti che si muo-vevano seguendo la domanda del mercato su tipici carretti o in treno, spesso viag-giando in carro-bestiame. Gli spostamenti erano caratterizzati da canti, che ripropo-nevano il carattere comunitario e festoso tipico della vendemmia, anche se in

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que-sto caso il lavoro era più faticoso, cominciava all’alba e finiva al tramonto, con due solo pause, per la colazione e per il pranzo.

Alcune coltivazioni richiedevano una maggiore cura nella raccolta, fatta a mano e con attenzione perché i prodotti, una volta danneggiati, non riuscivano ad arrivare intatti nei mercati lontani; chi danneggiava i frutti, pertanto, rischiava di per-dere il lavoro. Le ceste venivano trasportate da ragazzi fino un punto più spazioso dove un operaio (o un’operaia, a seconda delle zone) recideva il peduncolo e effet-tuava una prima selezione. Le ceste venivano poi trasportate a dorso di mulo, su carretti o sulla testa delle donne fino al magazzino di campagna. In Sardegna, le case venivano costruite con un grande cortile interno in cui i carretti scaricavano le aran-ce, che poi ripartivano una volta acquistate dai mercanti o dai mediatori. In alcuni contesti, il lavoro della squadra di raccolta era molto articolato al suo interno, come dimostra il racconto delle squadre di raccolta delle arance nel Gargano (cfr. para-grafo 2.2).

Nella raccolta dei cedri, utilizzati per l’essenza, la disciplina del rapporto di lavoro era ancora più rigida: il lavoro, regolato dal sistema del cottimo, iniziava all’una di notte e finiva a pomeriggio inoltrato e gli operai vivevano tutta la setti-mana nell’edificio in cui si svolgeva la lavorazione e ne uscivano soltanto la dome-nica. In questo modo sorveglianti o caporali potevano controllare che nessuno rubas-se neanche una piccola parte della preziosa esrubas-senza.

I metodi, quindi, erano quelli tipici della fabbrica ottocentesca; il lavoro “inter-no” era ancora più duro di quello all’esterno, in cui gli operai potevano consumare sul posto una certa quantità di frutti e a volte portarne anche a casa.

1.4 Le conoscenze

Come si è visto, l’introduzione degli agrumi, in Italia, è fortemente legata al periodo di dominazione araba, anche se la presenza di questi frutti era già stata atte-stata nel nostro paese in precedenza.

La “rivoluzione araba” riguardò non solo l’agricoltura, ma anche l’architet-tura, le scienze, la tecnica, la cull’architet-tura, la società. Nei territori in cui furono presenti gli Arabi vennero, infatti, apportati alcuni significativi cambiamenti come lo smem-bramento del latifondo bizantino e il frazionamento della proprietà terriera, lo svi-luppo di metodi e tecniche di irrigazione e di sistemi idraulici, oltre alla coltivazio-ne degli agrumi.

Gli Arabi cominciarono ad applicare con successo le loro conoscenze di inge-gneria idraulica, mutuate e messe a punto da precedenti civiltà orientali, adattando-le aladattando-le specifiche condizioni idrogeologiche e climatiche che offriva l’ambiente. L’in-troduzione di nuove colture, l’arte dei giardini, la costruzione di trame di

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canalizza-zioni idrauliche, di sistemi di irrigazione delle terre coltivate, di macchinari e muli-ni, azionati dall’acqua, trasformarono l’economia e l’aspetto fisico di intere Regio-ni del Mediterraneo. Ad esempio, la costruzione di una fitta rete di canalizzazioRegio-ni

sotterranee, i Qanat – applicazione di un’antica tecnica arabo-persiana – consentì

di portare l’acqua in intere città, come Palermo, in cui sono ancora visibili alcune opere, e consentì l’attività agricola in zone fino ad allora considerate poco fertili, favorendo, inoltre, la nascita di giardini lussureggianti.

Nel periodo di massimo splendore della cultura araba furono introdotte in Ita-lia e in tutto il Mediterraneo selezioni di agrumi migliori delle precedenti, sia per resistenza alle avversità sia per qualità dei frutti. Gli Arabi, infatti, erano abili agro-nomi e lavoravano assiduamente al miglioramento del materiale genetico disponi-bile, oltre che alle tecniche di coltivazione.

L’introduzione di questi cambiamenti avvenne, dunque, attraverso la costru-zione di grandi opere e l’adocostru-zione di nuove cultivar e delle modalità per la loro col-tivazione. Tali cambiamenti avvenivano “grazie” alla dominazione araba, cioè alla presenza nell’Italia meridionale e, in particolare, in Sicilia, degli Emirati, che pote-vano decidere il destino di terreni e città.

Le innovazioni introdotte in agricoltura, d’altronde, passavano – allora – sem-pre in via prioritaria per la grande proprietà aristocratica, che decideva cosa e come coltivare, quali strutture costruire sui terreni, quando raccogliere e come dividere il raccolto con mezzadri, fittavoli o altri soggetti coinvolti nell’attività agricola. Il modello inglese, caro soprattutto alla classe dominante siciliana dell’Ottocento era, infatti, quello del progresso (agrario) sotto la guida dell’aristocrazia.

Le decisioni venivano prese non solo in base all’offerta di innovazione in qual-che modo proposta dal mondo scientifico, in primo luogo le Università e gli Orti bota-nici, ma anche dalle richieste del mercato. La conversione degli aranceti verso la pro-duzione del frutto dolce, che sostituì quasi completamente quella dell’arancio ama-ro, utilizzato nella pasticceria, avvenne proprio in seguito all’intensificarsi del commercio con l’estero e alla richiesta sempre maggiore, nel corso del Settecento, di questo tipo di agrume. Mercanti e acquirenti ebbero un ruolo importante anche per la standardizzazione delle tecniche e, girando per le campagne, proposero modifiche degli impianti per agevolare la fase della raccolta, così da trasformare, nel giro di qualche anno, la struttura dei giardini: gli alberi si diradarono e assunsero via via le chiome compatte che ancora oggi possiamo riconoscere negli agrumeti italiani.

Non è, tuttavia, vero che, nel campo agrumicolo, le conoscenze si siano sem-pre trasmesse dall’alto verso il basso, in un processo in cui il sapere codificato ha

un ruolo dominante: gli avvenimenti legati alla lotta alla gommosi e alla “scoperta”

dei verdelli nella seconda metà dell’Ottocento, ad esempio, dimostrano come l’espe-rienza della pratica colturale, che si muoveva per prove ed errori, riuscì a

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indivi-duare per via sperimentale la soluzione al problema. Gli aspetti tecnici della

“verdel-licoltura” – frutto della sperimentazione di gabellotti e giardinieri siciliani –

susci-tarono addirittura l’attenzione di esperti americani, che la definirono la più impor-tante pratica introdotta in agrumicoltura.

Oltre all’aristocrazia possidente, nel corso dell’Ottocento, apparve con forza sulla scena agrumicola italiana anche una certa parte di borghesia interessata alla pro-duzione e commercializzazione di questi prodotti. Alcuni innesti particolarmente riu-sciti hanno conservato il nome di qualche grosso proprietario che li aveva prodotti,

come è il caso del limone Interdonato Messina, per il quale è stata inviata istanza alla

Commissione Europea per la registrazione come IGP(cfr. Parte II) o dell’arancio

dop-pio sanguigno Signorelli, entrambi introdotti da borghesi produttori di agrumi. Un ruolo fondamentale nella ricerca scientifica fu svolto dall’Orto botanico di Palermo, il nucleo storico attorno al quale la botanica accademica si è sviluppata a partire dal 1795, data in cui l’Orto stesso fu inaugurato. Nel 1779, a Palermo, sorse l’Accademia dei Regi Studi, corrispondente alla odierna Università che, istituendo la cattedra di “Botanica e Materia medica”, ottenne il vecchio baluardo di Porta Cari-ni e il modesto appezzamento di terreno circostante per insediarvi un piccolo Orto botanico da adibire alla coltivazione dei “semplici”, cioè delle piante medicinali uti-li alla didattica e alla salute pubbuti-lica. Nel 1786 l’Orto botanico venne trasferito in una sede più adeguata a Vigna del Gallo, nel piano di S. Erasmo, dove nel 1789 fu iniziata la costruzione del corpo principale degli edifici dell’Orto, in stile neoclassi-co, terminata nel 1795. Ebbe, così, inizio un’attività che per duecento anni ha con-sentito lo studio e la diffusione non solo in Sicilia ma anche in Europa e nel Medi-terraneo di innumerevoli specie vegetali, tra cui anche una ricca collezione di agru-mi con oltre cento cultivar di notevole valore storico e di grande importanza per la conservazione del germoplasma locale.

Anche l’Orto botanico di Napoli, fondato agli inizi del XIX secolo, nel perio-do in cui la città partenopea era perio-dominata dai Francesi, svolse un ruolo importante per lo studio degli agrumi e per la conservazione del germoplasma. L’agrumeto del-l’Orto botanico di Napoli fu creato da Michele Tenore, che diresse la struttura per 50 anni, su desiderio dei Borbone, i quali apprezzavano molto la moda – assai diffusa all’epoca presso le famiglie nobili e benestanti – di esporre raccolte di reperti archeo-logici e naturalistici da mostrare agli ospiti. Per seguire tale tendenza, i regnanti bor-bonici suggerirono al primo direttore dell’Orto botanico l’impianto di una collezio-ne di agrumi, piante assai diffuse collezio-nel Regno; Tenore iniziò, quindi, ad introdurre collezio- nel-la zona destinata all’agrumeto sia entità di interesse alimentare, sia cultivar dall’aspetto particolare e apprezzate da un punto di vista ornamentale. La collezione di agrumi fu ampliata, successivamente, da Giuseppe Antonio Pasquale e, in tempi recenti,

ulte-riormente arricchita con l’introduzione di alcune specie non comuni di citrus e di

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cul-tivar di Citrus aurantium, dalle caratteristiche “mostruose”, e alcune specie, come Citrus deliciosa, Citrus volkameriana e Severinia buxifolia, descritte per la prima

volta da botanici napoletani, oltre ad esemplari di generi affini a citrus, quali ad

esem-pio Poncirus, Microcitrus, Fortunella e Murraya.

Successivamente, nell’introduzione delle innovazioni ebbero importanza anche le iniziative di informazione e formazione di emanazione pubblica, volte a miglio-rare la capacità produttiva delle campagne italiane e a supportare il reddito degli agri-coltori, soprattutto quelli piccoli, attraverso azioni di divulgazione agricola.

In Italia, nella seconda metà del XIX secolo, si svilupparono, ad opera di Amministrazioni provinciali, Comuni, Camere di commercio e altri Enti locali, le prime “Cattedre ambulanti”; l’esperienza iniziò nel Nord del paese, ma subito si dif-fuse anche nel Centro Italia, mentre più lentamente arrivò nel Mezzogiorno, dove la prima Cattedra fu quella di Campobasso, sorta nel 1899, seguita da quella di Caser-ta, sorta nel 1901. In BasilicaCaser-ta, Calabria e Sardegna furono successivamente isti-tuite Cattedre ambulanti per iniziativa governativa con leggi speciali approvate,

rispettivamente, nel 1904, 1906 e 1907. Compito delle Cattedre era quello di

«dif-fondere l’istruzione tecnica tra gli agricoltori, di promuovere in ogni ramo il pro-gresso in agricoltura e disimpegnare i servizi agrari loro attribuiti». Lo scopo era quello di informare i proprietari terrieri, molti dei quali aperti al progresso, sulle pos-sibili migliorìe agronomiche e strutturali, e di formare le masse contadine analfabe-te (fittavoli, mezzadri, salariati giornalieri, piccoli proprietari) che necessitavano di un’adeguata qualificazione.

In Puglia, fin dal 1866 il Prefetto Scelsi propose l’istituzione di una

Catte-dra ambulante di agricoltura nella zona della Capitanata nell’interesse «non solo

delle classi agricole, più o meno intelligenti e agiate, ma anche dei contadini che volevano porsi in condizione di trarre dalla terra il maggiore rendimento possibi-le». Solo agli inizi del XX secolo, tuttavia, venne creata una Cattedra in Sannican-dro Garganico al cui mantenimento contribuirono, oltre al Ministero, quasi tutti i Comuni garganici.

Le Cattedre funzionavano in maniera autonoma, si occupavano delle proble-matiche tecniche e colturali tipiche della zona in cui operavano ed erano affidate generalmente a illustri accademici; la materia fu regolamentata con il decreto n. 3433 del 1928 finchè, nel 1935, la legge n. 1220 trasformò le Cattedre in Ispettorati Pro-vinciali dell’agricoltura, uffici esecutivi del Ministero dell’Agricoltura e delle Fore-ste. Successivamente, la Cassa per il Mezzogiorno svolse un ruolo fondamentale per l’agricoltura attraverso l’istituzione di un servizio di assistenza tecnica agricola, che solo molti anni dopo si trasformò in attività di divulgazione agricola, grazie ad un programma che permise la formazione di personale specializzato (reg. 270).

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svilup-po dell’agricoltura italiana attraverso l’azione pubblica, anche se in alcuni periodi l’intervento è stato operativamente affidato a soggetti terzi, prevalentemente Orga-nizzazioni professionali agricole. I destinatari di tali azioni sono stati essenzialmen-te i proprietari, soprattutto di aziende medio-piccole, e gli operatori agricoli (brac-cianti, stagionali, operai specializzati, ecc.). Per la grande proprietà terriera, da allo-ra fino ad oggi, i cambiamenti maggiori dipendono geneallo-ralmente dal mercato e dall’offerta di innovazioni provenienti dai produttori a monte della filiera (sementi, tecniche colturali ad esse connesse, mezzi tecnici, ecc.).

Per quanto riguarda nello specifico l’agrumicoltura, con la legge n. 434 del 7 luglio 1907 venne istituita ad Acireale (Catania) la Stazione Sperimentale di Frutti-coltura ed AgrumiFrutti-coltura che disponeva di un campo sperimentale di circa un etta-ro e che svolse attività fino al 1967. Nel giugno del 1918 la Stazione Sperimentale poté disporre anche di un campo di circa 4 ettari nella Contrada S. Salvatore, attor-no all’attuale sede, inaugurata nel 1922. In questo campo furoattor-no impiantati, nel 1919, i primi appezzamenti sperimentali di limone, vivai di agrumi e di altre piante da frut-to. Dal 1956, la Stazione poté disporre anche di un campo sperimentale di 25 ettari nella Contrada Palazzelli di Lentini, nel quale vengono condotte ancora oggi ricer-che sull’arancio, sul pompelmo, sui mandarini e su vari ibridi. Nel 1967, la Stazio-ne fu trasformata in Istituto Sperimentale per l’Agrumicoltura e Stazio-nel 1999 venStazio-ne

costi-tuito il Consiglio di Ricerca in Agricoltura (CRA), diventato operativo nel 2004; nel

2007, infine, l’Istituto venne trasformato in Centro di ricerca per l’agrumicoltura e le colture mediterranee.

Nell’Azienda Sperimentale S. Salvatore di Acireale, parte del complesso del

CRA, è mantenuta una collezione di agrumi, con particolare riguardo a specie

presen-ti nella vecchia agrumicoltura o descritte in anpresen-tichi tespresen-ti, che rappresentano un inte-ressante patrimonio storico e meritano di essere conservate come germoplasma. Ancora oggi il centro svolge un importante ruolo nella ricerca scientifica e nella divulgazione dei risultati, sia per quanto riguarda il miglioramento genetico sia per quanto riguarda le tecniche colturali.

1.5 Feste, sagre, credenze

Come è ovvio, attorno agli agrumi si è sviluppata anche una notevole tradizio-ne di feste, sagre e manifestazioni culturali locali, legate alla produziotradizio-ne – soprattut-to nelle fasi di raccolta – e al loro consumo, con momenti di convivialità in cui il cibo – consumato ed esibito – assume un valore simbolico importante in ogni società.

La trasformazione degli agrumi rappresenta una risorsa fondamentale per la tradizione gastronomica italiana, a partire dalla pasticceria, che ci ha tramandato dal-la tradizione araba dolci conosciuti ovunque – come dal-la cassata e i cannoli –, in cui l’essenza dell’arancia ha un ruolo importante, ma anche dolci meno conosciuti come

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4 La pompìa è un Presidio Solwfood; la produzione dell’agrume è ridotta e limitata al consumo familiare in

quan-to solo due aziende possiedono campi di dimensioni tali da riuscire a rifornire le pasticcerie e i risquan-toranti della zo-na. Solo recentemente il Comune di Siniscola ha avviato un campo sperimentale di 500 alberi.

la pompìa intrea, prodotto dolciario esclusivo della zona di Siniscola, in Sardegna,

realizzato dalla pompìa4, un agrume di origine incerta coltivato solo in questa zona.

La Sardegna, regione agrumicola finora poco citata nel nostro itinerario, è anche il luogo in cui si svolge da oltre 40 anni la “Sagra degli agrumi”, evento che

conferma l’importanza dell’Arangiu de Murena (arancia di Muravena, città in cui

si svolge la festa), un frutto gustoso e profumato, introdotto nell’Isola nel 1800, mol-to probabilmente dagli spagnoli. L’iniziativa fu promossa, per la prima volta, nel 1961 da un comitato spontaneo che voleva valorizzare questa produzione tipica della zona e fu subito accolta con entusiasmo da cittadini e amministratori. Un’altra festa che si svolge in Sardegna è la “Sagra di Zerfaliu”, in provincia di Oristano, altra zona agrumicola dell’Isola.

La sagra è lo strumento per la promozione degli agrumi scelto anche dai Comuni del Gargano, in Puglia, che ancora producono questi frutti; l’evento convi-viale si svolge in primavera, nei mesi di marzo o aprile, ma le arance sono utilizza-te anche per la festa del patrono degli agrumeti, San Valentino, che si tiene, come è noto, il 14 febbraio (cfr. paragrafo 2.2).

Invece la “Sagra di Lentini”, in provincia di Siracusa, si svolge a gennaio, men-tre quella di Ribera, sempre in Sicilia, si teneva in passato a marzo-aprile, festa ora non più organizzata ma ancora richiesta dai produttori, per rilanciare il prodotto, e da cittadini e turisti, per la bellezza delle decorazioni fatte con i frutti sugli edifici del paese.

L’attenzione costante degli uomini agli agrumi si è manifestata nel tempo anche attraverso la religiosità locale, che vede nell’azione protettrice dei santi un ele-mento fondamentale per un’agricoltura fertile e bella. In particolare, nella zona del Gargano, in Puglia, sin dal Settecento è documentato l’impegno dei giardinieri di Vico, Rodi ed Ischitella, in prima fila durante la lunga processione di febbraio, in occasione della festa di San Valentino, protettore degli agrumeti, verso il colle del Carmine per benedire piante e frutti di arance e limoni. La scelta del santo fu prece-duta da lunghe discussioni e da pellegrinaggi alla ricerca di un patrono la cui festi-vità ricorresse nella stagione invernale, quando le arance avevano maggior bisogno di protezione; la storia narra che una delegazione di abitanti di Vico in viaggio a Roma, per tale motivo, trovò nel fatto che il capo della delegazione urtasse il brac-cio sporgente di San Valentino durante la visita della catacomba che custodiva i busti dei santi martiri, un segno provvidenziale e decisivo per la scelta. Il 10 febbraio 1618 l’Arcivescovo di Manfredonia dava la sua approvazione alla scelta e il 14 dello

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stes-so mese le ossa del santo, portate da Roma, venivano messe nella statua del santo nella Chiesa Matrice. Da allora, ogni anno, il 14 febbraio la statua che rappresenta San Valentino con all’interno le sue reliquie, viene portata in processione solenne per le strade della città addobbate con alloro e con una miriade di grappoli d’arance, offerti dai proprietari degli agrumeti.

1.6 Gli agrumi minori

L’agrumicoltura italiana è legata, come si è visto, soprattutto alla coltivazio-ne di limoni, arance (dolci), mandarini e clementicoltivazio-ne, prodotti consumati freschi o uti-lizzati per la trasformazione in succhi o confetture.

Meno conosciuta è l’agrumicoltura orientata alla produzione di oli ed essen-ze, in passato invece più fiorente in Italia. La Calabria è forse la Regione più orien-tata a questo tipo di produzione, con le sue coltivazioni di bergamotti e cedri. Del bergamotto non si conosce l’esatta provenienza; secondo alcuni potrebbe derivare per mutazione genetica da preesistenti specie agrumarie, quali limone o arancia ama-ra. Tra i botanici, invece, c’è chi classifica il bergamotto come specie a sé stante (Risso e Poiteau). Alcune leggende lo fanno arrivare dalle Isole Canarie, da cui sarebbe stato importato ad opera di Cristoforo Colombo, altre lo narrano arrivato dalla Cina, dalla Grecia o dalla Spagna. Una di queste storie racconta di un moro di Spagna che ne vendette un ramo ai signori Valentino di Reggio Calabria per diciotto scudi, i quali lo innestarono su un arancio amaro in un loro possedimento nella Contrada Santa Caterina.

L’etimologia più verosimile del nome è berg-armudi, pero del signore, per la

sua similarità con la forma della pera bergamotta. Nel periodo medievale era già conosciuto, visto che il primo a menzionare questa pianta fu Padre Gian Battista

Fer-rari che, in un trattato pubblicato nel 1646, descrive un aurantium stellatum et

roseum, ubicato a Napoli nel giardino del Conte di Nola, che secondo alcuni bota-nici potrebbe identificarsi con il bergamotto.

La fortuna dell’essenza di bergamotto si deve all’italiano Gian Paolo

Femi-nis che, emigrato a Colonia nel 1680, formulò l’aqua admirabilis utilizzando

insie-me ad altre essenze l’olio estratto manualinsie-mente, pressando la scorza del frutto e facendola assorbire da spugne naturali, collocate in appositi recipienti. Le acque di colonia, oggi vastamente impiegate, traggono la loro origine proprio da tale ricetta in quanto i Farina, eredi del Feminis, la brevettarono nel 1704 con il nome della cit-tà tedesca e la diffusero con grande successo in tutto il mondo.

La prima piantagione intensiva di alberi di bergamotto fu realizzata, nel 1750, da Nicola Parisi nel fondo di Rada Giunchi. Originariamente, l’essenza veniva estrat-ta dalla scorza per pressione manuale e fatestrat-ta assorbire da spugne naturali

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(procedi-mento detto “a spugna”) collocate in appositi recipienti (le concoline). L’industria-lizzazione del processo di estrazione dell’olio essenziale dalla buccia avvenne a metà dell’Ottocento, grazie a una macchina di invenzione del reggino Nicola Barillà,

deno-minata macchina calabrese, che garantiva una resa elevata in tempi brevi, ma anche

un’essenza di ottima qualità se paragonata a quella estratta “a spugna”.

Il bergamotto è impiegato da diversi secoli anche in gastronomia; l’uso ali-mentare dell’agrume risale almeno all’aprile del 1536, come risulta dal menù di “magro” – composto da 200 portate salate e dolci, tra cui ben 6 libre di bergamotti confetti, preparati magistralmente dal grande cuoco Bartolomeo Scappi – offerto all’Imperatore Carlo V, di passaggio per Roma, dal Cardinale Lorenzo Campeggi.

Il cedro (Citrus medica) – di cui si hanno antichissime testimonianze –

sem-bra invece sia originario dell’India e della Birmania, arrivato dalla Persia nei paesi Mediterranei e, probabilmente nel III secolo a.C., in Italia. L’importanza economi-ca del cedro deriva dalla scorza che viene utilizzata per la preparazione di economi-canditi, acqua e sciroppo di cedro e per l’estrazione di olii essenziali; con il succo di questo agrume, inoltre, si preparano bibite e, in medicina, il cedro è utilizzato per la prepa-razione di infusi. Quasi tutta la produzione italiana di cedro proviene dalla Riviera dei Cedri, in Calabria, dove i contadini d’inverno coprono le piante con le canne.

La coltura è molto antica ed è strettamente legata all’immigrazione ebraica e alla successiva occupazione bizantina; il cedro, infatti, è impiegato per la festa

ebrai-ca dei Tabernacoli e per le celebrazioni religiose della sukkoth. Nel XVI secolo la

cedricoltura calabrese aveva avuto grosso sviluppo proprio per la presenza di folte colonie ebraiche in Calabria, calcolabili intorno a 50.000 persone, quasi il 10% del-la popodel-lazione residente, ma si coltivavano i cedri anche in Puglia, in Campania – dove la Scuola Medica Salernitana ne prescriveva l’uso medico, incentivando così la sua produzione – e in Sicilia. Successivamente, i cedri scomparvero da queste Regio-ni per l’intolleranza religiosa dei dominatori spagnoli; tuttavia, qualche sporadica presenza rimane tuttora in Sicilia.

Il cedro raccolto viene “salamoiato” direttamente in zona e successivamente venduto per la metà all’estero (soprattutto Germania e Paesi Bassi) e per il resto nell’Italia Centro-settentrionale, per la canditura e l’uso dolciario.

Una parte del prodotto viene ancora oggi esportato per motivi religiosi. Ogni anno alcuni rabbini si recano in riviera, nei mesi di luglio e agosto, per raccogliere

direttamente e controllare di persona i piccoli cedri, indispensabili per la sukkoth che

si svolge nel mese di settembre e che è per gli Ebrei di tutto il mondo l’avvenimen-to religioso più importante dell’anno. La raccolta, infatti, deve essere fatta sotl’avvenimen-to la diretta supervisione del rabbino, che si reca presto nei fondi insieme al contadino per la scelta dei frutti. Possono essere raccolti soltanto i cedri provenienti da tronchi lisci senza “vozze”, ovvero in cui non c’è stato innesto, secondo quanto Dio prescrisse a

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5 La Fondazione Slow Food è stata creata da Carlo Petrini nel 1986 con lo scopo «di dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio» ed è diventata, nel 1989, un’associazione internazionale che oggi conta 86.000 iscritti in 130 paesi e sedi in Italia, Germania, Svizzera, Sta-ti UniSta-ti, Francia, Giappone e Regno Unito. I Presidi Slow Food, uno dei tanSta-ti progetSta-ti avviaSta-ti dall’associazione, «sostengono le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzano territori, recuperano me-stieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvano dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta». Si contano almeno 200 Presìdi in Italia e altri 120 nel mondo, dal pepe nero di Rimbàs della Malesia al-la vaniglia di Mananara in Madagascar (http://www.fondazioneslowfood.it/ita/presidi/lista.al-lasso).

Mosé. I rami delle piante sono bassi e pieni di spine pericolose, per cui il rabbino deve coricarsi per terra e scrutare tra le foglie per scegliere i frutti buoni da indica-re al contadino; il piccolo frutto, avvolto nella stoppa, viene poi riposto nella cas-setta e commercializzato.

Un altro agrume minore è il chinotto (Citrus myrtifolia), un agrume

origina-rio della Cina meridionale (da cui deriva il nome comune), presente in Europa da molti secoli. Secondo alcuni studiosi è considerato una mutazione gemmaria del Citrus aurantium; i suoi frutti sono utilizzati per produrre canditi, liquori, marmel-late, mostarde e la classica bibita. Come la maggior parte degli agrumi, anche i chi-nottini possono aspettare a lungo sulla pianta prima di venir colti. Sembra, anzi, che al chinotto spetti il primato, dato che si dice possa rimanere sul ramo fino a due anni.

Attualmente la coltivazione del chinotto è completamente scomparsa dalla Penisola Iberica, dalla Provenza, dal Nord Africa, dalla Turchia e dalla Siria, dove prima era frequente; è ancora presente, anche se in misura molto inferiore al passa-to, in Georgia sulle coste del Mar Nero, specialmente intorno alla capitale Tblisi. In Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, la coltivazione dei chinotti era pre-sente solo in Liguria, da Ventimiglia fino a Nervi, e in Sicilia. Oggi questo agrume è coltivato in maniera industriale solo nella provincia di Savona (da Albenga a Savo-na), con un picco di produzione nella zona compresa da Pietra Ligure a Finale

Ligu-re, e dal settembre 2004 è entrato a far parte dei Presìdi Slow Food5. Proprio dalla

Liguria arrivò l’usanza di candire gli agrumi: nel 1860, infatti, il droghiere savone-se Vincenzo Besio appresavone-se l’arte della canditura dai tecnici di un’industria francesavone-se che dalla Provenza si era trasferita nella sua città. Allo stato attuale la Liguria rima-ne, insieme alla Georgia, l’unica zona dove la pianta del chinotto cresce spontanea fuori dal suo areale asiatico; in Sicilia, invece, lo si ritrova sporadicamente solo nel-la zona di Taormina.

La bevanda al chinotto si presentò sul mercato italiano nei primi anni Ses-santa del secolo scorso, quando i produttori cominciarono a commercializzarla insie-me all’aranciata, quasi fossero, entrambe, un simbolo del “miracolo economico”. Il chinotto divenne una bevanda molto popolare, ma ben presto dovette cedere il posto a simili prodotti di origine statunitense, tanto da uscire dal mercato; le coltivazioni dei suoi alberi si indirizzarono, così, alla produzione di piante ornamentali.

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A distanza di qualche decennio, negli anni Novanta, si diffuse tra i giovani uno

spirito antiamericano e l’avversione per gli USAsi concretizzò anche nel

boicottag-gio delle loro bibite a favore del riscoperto chinotto, facendo tornare la bibita di moda, tanto che una famosa ditta produttrice italiana iniziò a produrre quest’antica bevan-da, imitata più di recente anche da una nota ditta statunitense che ha messo sul mer-cato una sua versione del chinotto.

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Figura

Tabella 3.1 - Superficie e produzione di agrumi in Italia
Tabella 3.2 - Areali di produzione per specie di agrume (incidenza percentuale sul totale)
Tabella 4.1 - Agrumi trasformati in Italia (tonnellate)
Figura 5.1 - Le fasi della filiera per prodotto agrumicolo tipico in un sistema integrato
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