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Alcune osservazioni dintorno ai Siciliani

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 116-128)

Una cosa è giudicare un partito, una classe di potere, nell’astrattezza dell’immaginazione e della storia, un’altra

è trovarsi di fronte all’immagine di Moro prigioniero dei brigatisti. Leonardo Sciascia, “La Repubblica” 23 marzo 1978 … hanno [i veneziani] certe forme particolari o di sentenze,

o di proverbi, o di diciture in gergo, che piacevolissime sono a chi le intende, ma riescono a chi non è più pratico oscurissime…

Carlo Goldoni, premessa alla Buona moglie Così continuiamo a remare,

barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato.

F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby Ricordare è un atto etico,

ha un valore etico in sé.

Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri

Questo saggio lavorerà soltanto dintorno ad alcuni lemmi usati da Leonardo Sciascia e dintorno ad un solo libro, l’album fotografico di Ferdinando Scianna, I Siciliani1, che, preceduto da un testo introduttivo di Dominique Fernandez, con-tiene in coda una inconsueta postfazione dello stesso Sciascia, di cui dirò più avanti. Mi proverò, insomma, a fare delle illazioni mettendo soltanto uno di fianco all’altro alcuni sintagmi dello scrittore siciliano a commento delle foto di Scianna2. Il libro contiene splendide immagini in bianco e nero della Sicilia e dei sici-liani3. Le fotografie sono senza didascalie e un “indice delle illustrazioni”, in fondo al volume, spiega i luoghi ma non ordina le date.

Nello sfogliarlo, viene subito da chiedersi quando le foto siano state scattate, ma la domanda, andando avanti nel girare i fogli, perde sempre più consi-stenza, appare gratuita e forse inutile. Sembra Scianna aver voluto consegnare in un assoluto silenzio immagini sulle quali non è importante domandarsi ba-nalmente “in che anno siamo?”, ma è essenziale riceverne, sempre in silenzio (e forse per questo mancano le didascalie), il tempo complessivo e particolare rias-sunto in ogni singolo fotogramma, il tempo che ogni faccia, atteggiamento, prospettiva trattiene.

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Ho chiamato la postfazione di Sciascia inconsueta e mi spiego. Essa è costruita attraverso due momenti redazionali. Nel primo prende interamente la pagina una chiosa succinta (e acuta) sulle fotografie di Scianna raccolte nel volume4; poi, a girare il foglio, lo scrittore siciliano inserisce un altro testo che, a primo acchito, sembra non aver nulla a che fare con il precedente. Sciascia raccoglie e mette in successione una serie di proverbi, detti, indovinelli, adagi della Sicilia (e di Ra-calmuto), e li commenta brevemente come può fare una voce di dizionario.

È la prima apparizione pubblica di questo particolare gusto di Sciascia per la pa-remiografia. Infatti se il libro di Scianna è del 1977, il primo volumetto del Nostro che raccoglie un mannello di proverbi, Kermesse5, apparirà soltanto cinque anni dopo, nel 1982, indicativamente nella collana “La memoria” dell’editore Sellerio. Successivamente l’autore amplierà la raccolta con altri proverbi, nel 1984, in un volume, presso Einaudi, a cui darà il titolo Occhio di capra6. La spiegazione di que-sto titolo era stata anticipata dall’autore nel risvolto di copertina di Kermesse:

Sei anni fa, in campagna, guardando il sole che tramontava dietro le nuvole che sembravano tratti di penna – un po’ spento, un po’ strabico, come ingabbiato – qualcuno disse: “Occhio di capra: domani piove”. Non lo sentivo dire da molti anni. Annotai l’espressione su un foglietto; e così ogni volta – da allora – che ne sentivo o ne ritrovavo nella memoria altre di uguale originalità e lontananza. Foglietto su foglietto, le “voci” hanno fatto libro: esile quanto è (e quanto si vuole), ma per me “importante”7.

Quindi, a riassumere, da un lato abbiamo un album fotografico, e dall’altro, brevi prose in successione, scandite da spazi bianchi, come a fare un altro album, questa volta, lessicografico. E ci chiediamo: perché Sciascia inserisce in coda al libro di Scianna questi proverbi siciliani? Quale attinenza hanno que-sti brevi teque-sti di cultura popolare con le fotografie? Una cosa è certa: non hanno nessuna funzione didascalica delle immagini; soltanto, forse, quella di note a margine, come dichiarato dall’autore in un altro libro fotografico di Scianna, Feste religiose in Sicilia: «il nostro discorso, se discorso si può chiamare, non vuole né può essere altro che un’annotazione marginale: in margine appunto, a queste straordinarie fotografie»8.

I proverbi, si sa, – recita il Cortelazzo-Oli – sono soltanto dei motti, spesso ar-guti, d’origine popolare e molto diffusi, che contengono massime, norme, con-sigli fondati sull’esperienza; e anche questi (come le foto di Scianna) non hanno date se non quelle del tempo lungo della tradizione, di una mitografia “casa-linga”, custodiscono “esperienza”. Gérard Genette li catalogherebbe tra i «pe-ritesti». «Inseriti negli interstizi del testo, come i titoli dei capitoli o certe note»9, giungono da lontano, riassumono memorie e fermano nel tempo – mi sia con-sentito dirlo –, proprio come fa una istantanea, una parzialità di spazio. E il parallelo non è mio, a suggerirlo è lo stesso Sciascia ad inizio della postfazione.

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Sciascia e Scianna. Alcune osservazioni dintorno ai Siciliani

Lo scrittore usa due lemmi emblematici per definire il fotografico: lo para-gona ad una forma di «apprendimento di un qualcosa di simile al processo di cri-stallizzazione», citando l’amato Stendhal con il paragone delle famose «mines de sel de Salzbourg», ovvero accosta la camera oscura ad un «rameau d’arbre» quando lo si lascia cadere nelle «profondeurs abandonées de la mine», e quel «rameau d’arbre effeuillé par l’hiver», riapparirà «deux ou trois mois après on lo ritire couvert de cristallisations brillantes». «Nella fotografia, cioè nel foto-grafo – aggiunge Sciascia – accade qualcosa di simile: s’imbeve di una realtà, di un’atmosfera, di un avvenimento finché, con un piccolo scatto meccanico, ne consegna alla “camera oscura” la sintesi, la cristallizazione»10. E con essa – ag-giungiamo noi – anche una «sintesi» del tempo11. Ed è quanto accade – se vo-gliamo – allo stesso proverbio che «cristallizza» in un motto un apprendimento, ovvero il senso profondo di un’esperienza; innegabilmente testimonia che qual-cosa è accaduta, è stata pensata da qualche parte, o per citare il Barthes della Ca-mera chiara, che «ça à étè», qualcosa «è stato» ed ha prodotto quanto si ascolta. Ma a dirlo non sono io, è Sciascia ancora, proprio in coda all’album fotografico:

Ad accompagnarle [le fotografie], a scrivere un testo che le accompagnasse (non che le spiegasse, poiché ovviamente non hanno bisogno di essere spiegate), mi è parso di non poter fare nulla di meglio che aggiungere altre cristallizzazioni:

cri-stallizzazioni linguistiche, di un lessico particolarissimo, di una particolarissima

paremiografia, così come la ritrovo nella memoria, e che sono effettualmente gli elementi su cui si fonda una vera conoscenza – e in questo caso la mia cono-scenza del paese in cui sono nato, in cui ho passato l’infanzia e la giovinezza.

L’autore cita la sua Racalmuto e senza pronunciare il titolo di un suo libro, Le parrocchie di Regalpetra, un paese «sintesi» di altri paesi della Sicilia, che rim-balza silenzioso in ogni suo testo: «Ora, con questa specie di piccolo diziona-rio, – prosegue lo scrittore – faccio un’operazione inversa: di sciogliere la sintesi nell’analisi, la generalità nella particolarità, la somiglianza nella dissomi-glianza»12.

Riflessione temeraria quanto straordinariamente esemplare, quest’ultima, nel-l’ancorare l’album fotografico di Scianna ad una paremiografia, nel lasciar ri-fluire una raccolta di istantanee in una raccolta di proverbi; insomma, provando a comparare il funzionamento – se mi si passa l’audace termine tecnico – di una fotografia con la dizione di un proverbio, e a fare che la «sintesi» si sciolga nell’«analisi», il «generale» nel «particolare». E i proverbi, come le fotografie, sono scelte indiziarie di chi le ha selezionate, di chi le ha ritagliate. Ma come tutti gli indizi, le tracce lasciate, sono di per sé inquiete, chiedono di essere dedotte (Poe docet), sviluppati, in deduzioni, più che in conclusioni provvisorie.

Senza volere, o volendo, l’autore del Contesto, coniuga un ossimoro (cristallo e racconto) che calza assai bene al fotografico, come alla funzione proverbiale,

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quando precisa: «Queste fotografie di Scianna che raccontano la Sicilia […] sono appunto cristallizzazioni di un lungo processo di conoscenza»13.

Ma, a noi, per scendere di quota, non interessa tanto la processione dei pro-verbi messi in fila in fondo al libro, quanto – come dire? – soprattutto la dizione di essi, ovvero che cosa fa di questi enunciati la scrittura di Sciascia non appena li commenta.

Diventa, allora, essenziale aggiungere al nostro rosario lemmatico non un altro sintagma, ma un’emblematica coniugazione verbale, non poco strategica: quel fascinosissimo verbo del «raccontare» che Sciascia sistema dentro alla fun-zione del fotografico: le immagini di Scianna, per il Nostro, raccontano

la Sicilia com’è per i siciliani, com’è nei siciliani […]. La fotografia, una fotogra-fia, sembra racconti immediatamente un luogo, una persona, un fatto colti in un momento fortuito, imprevedibile, irripetibile e fortuitamente carichi di si-gnificati al punto da esserne sintesi e (rovesciamento – per saturazione – del-l’oggettività, del realismo) simbolo14.

Stessa cosa fa anche la scrittura di Sciascia, ad esempio, quando agisce nella «camera oscura della memoria», e a proposito di Racalmuto esemplarmente, dove è fissata in un libro «la conoscenza del paese in cui sono nato, in cui ho passato l’infanzia e la giovinezza. Un paese siciliano, Racalmuto in provincia di Agrigento», paese «sintesi» di «altri paesi siciliani dell’interno». Ora che ci sia evidente in tutta la scrittura di Sciascia una funzione documentaria, sarebbe banale ripeterlo; ma qui l’accezione che vogliamo caricare sul termine è un’al-tra: qui documento non è soltanto l’occasione da cui “diramare” un racconto (prassi classica della sua narrativa), ma soprattutto si vuole far notare come in un libro fotografico sulla Sicilia, Sciascia ribadisca la possibilità sintetica di una scrittura (come di una fotografia) nel riassumere l’identità dell’isola, di come una Racalmuto (in arte Le parrocchie di Regalpetra15), come altri paesi possano (e siamo vicinissimi al viaggio vittoriniano di Conversazione) rinviare, legarsi, sot-tendere, e per questa via non soltanto documentare, ma soprattutto raccontare per «simboli» un’isola. L’aveva già annotato, Sciascia, a proposito del citato Feste religiose in Sicilia, quando aveva paragonato le fotografie di Scianna ad un discorrere: «immagini che fanno, di per sé, discorso»16. E discorrere – per ri-badire – è sinonimo di conversare.

Quindi, se è vero che le foto di Scianna fanno proprio «discorso», e al pari di un testo narrativo cristallizzano e rovesciano in «simbolo» un luogo e un tempo, e suggeriscono una storia che continua in un «fuori campo» (Barthes), altresì fanno, identicamente, i proverbi mediante i commenti che Sciascia ag-giunge in coda, ben ordinati in una procedura grafica.

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Sciascia e Scianna. Alcune osservazioni dintorno ai Siciliani

Tutti i paragrafi sono messi in riquadri, separati da spazi bianchi. I proverbi si stagliano in maiuscoletto; e subito dopo il punto d’interpunzione, in tondo, rapida, la spiegazione della frase in dialetto; poi, la scrittura “anima” il con-cetto, prende slancio, piglio, divaga17, se ne va, si allontana, dice altro, e tutto quanto, in quel momento, il proverbio sembra suggerire. Insomma un intero patrimonio legato alla memoria di Racalmuto, si «organizza in lemmi d’alfa-beto»18e si fa storia, riflessione, metafora o allegoria, in una nota che è come una fotografia. Un esempio:

CU È SUTTA AGGRUPPA LI FILA. Chi è sotto annoda i fili. Ricordo della tessitura di tappeti che una volta si faceva e in cui il lavoro di annodare i fili, stando sotto il telaio, lo facevano dei bambini. Terribile lavoro: ed è diventato metafora del su-bire angherie, soprusi. Sta sotto il povero, il debole: ad annodare i fili di un di-segno che non vede19.

Ed è così che ogni proverbio raccolto da Sciascia, come ogni fotografia di Scianna, vive per proprio conto nella frammentarietà dell’insieme, ma nel con-tempo rinvia ad un intero tessuto sociale, rimanda ad un unico quadro civile, ad una stessa consapevolezza. Tutto è singolare e molteplice. Se non c’è conse-cutio tra i fotogrammi di Scianna, dove regna sovrana l’indipendenza, e pose, oggetti, sguardi riempiono ciascheduno un foglio, pur mantenendo una rela-zione profonda, discorsiva, con «quanto è stato là» (e con il resto delle imma-gini); così le istantanee scritte di Sciascia, le «voci» dei profili, dei ritornelli, i personaggi delle storie si esemplificano e raccontano ognuna per proprio conto, ma nel contempo si riallacciano tra loro, si rinviano l’un l’altro, a rias-sumere, per “isole”, interi caratteri di una cultura.

Tutto è vero ma contemporaneamente contraddittorio, come un proverbio, come una fotografia, di cui Sciascia annoterà: «che cosa è la fotografia se non ve-rità momentanea, veve-rità di un momento che contraddice altre veve-rità di altri mo-menti?»20; interrogativo applicabile, non a caso, e sempre da Sciascia, anche al proverbio: «il detto dell’antico non fallisce. Di infallibile verità. Anche se quel che un proverbio afferma si può immediatamente negare con un altro proverbio»21. «Ogni pagina di Sciascia – ha scritto Belpoliti – è ologrammatica: contiene nel piccolo il tutto»22. Per dirla con Sciascia stesso: «Sì la parola: la singola parola che suggerisce, suggestiona, si apre come un ventaglio, dispiega immagini»23. E qui non siamo lontani, ma pienamente in letteratura, da quanto, ad esempio, Sciascia farà enciclopedicamente con l’Alfabeto piradelliano24, dove ogni lemma scelto e ordinato racchiuderà nel suo minimo significante il grosso del signifi-cato della letteratura di Pirandello, dall’A alla Z25, riassunta per frammenti, quasi per significative scritte istantanee26.

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della Sicilia», insomma «una raccolta di fossili con nostalgia»27. O, almeno, non del tutto. Basterebbe il lungo racconto che sguscia a lato dei nomi contratti di «Zi, za; zio, zia», che chiude l’ordine alfabetico di Occhio di capra, e che dà vita a due splendidi personaggi: «lu zi Nardu» e «la ze Cuncittina»28. Oppure, esemplarmente, alla “spiegazione”, così carica di svagato racconto, del primo proverbio in antologia:

A BON’È CA SI MORI. E meno male che si muore. Frase pronunciata da uno zolfa-tara dedito al vino e al gioco di carte (più o meno, tutti gli zolfatari amavano il vino e il gioco d’azzardo; e il mangiare piccante – il castrato coperto di pepe e arrostito sulla brace, il pecorino pepato, il caciocavallo stagionato e duro di scorza: cibi, insomma, che chiamavano vino – e l’andare per serenate, l’appas-sionarsi alle donne più difficilmente raggiungibili, il far duelli o risse per loro: tutto il contrario dei contadini) che una sera di sabato, sotto Natale, avendo perso il denaro che aveva e «indettandosi» (indebitandosi) su quello che non aveva, tristemente rincasando si sentì piovere addosso, da una finestra rapida-mente aperta e richiusa, il copioso contenuto di una «comoda» («comoda», co-moda, era un vaso cilindrico di coccio stagnato, alto quanto una sedia, gli orli robustamente slabbrati in modo da potercisi sedere – comodamente – sopra: il vaso, insomma, che la seggetta conteneva). Si dice «a bon’è ca si mori» a com-mento conclusivo delle proprie e altrui sventure29.

I proverbi trascritti da Sciascia sono, a voler sintetizzare maldestramente e in fretta, una stesura che accosta, via Pirandello, Stendhal a Borges30; lo sguardo e l’esistente al magico e alla metafisica, vera discesa nel maelström della sua nar-rativa così manzoniana e saviniana nel contempo, ondivaga ed eticamente esatta, sinuosa e ferocemente impeccabile, così dilacerante e straniata, così in-quietamente morale, che non smette mai di battere sul solido delle cose per percepirle meglio, ma anche per avvertirne di sotto l’imponderabile, l’ombra delle stesse, la loro incompiutezza, una sottaciuta altra verità31.

Le voci dispiegate dai singoli proverbi diventano, per usare un termine caro allo scrittore siciliano che l’ha applicato alla fotografia, delle vere e proprie «en-telechie», ovvero, non sono soltanto dati «attendibili» ma la “restituzione”, que-sta volta in prosa, del «senso di quella vita, di quella storia, di quell’opera compiutamente», dei «punti dolenti del passato e del presente»32. È come se da una descrizione si tirasse via una narrazione, da un documento una rivelazione33. Che è poi – a voler riassumere temerariamente – prassi centrale, nocciolo duro della scrittura narrativa, e non, dell’autore delle Cronachette34, alla maniera di Poe (come cadenza), quel muovere in sordina da un documento per ampliarlo in un accadimento, da un fatto tessergli dintorno come un bozzolo il filo, il racconto di una storia, e così riflettere, Nero su nero, e giudicando, prendendo parte e offrendo alternative, passando da «atti relativi», «per così dire», ad «atti assoluti»35. Ha scritto una volta Calvino a Sciascia a proposito delle sue Cronache scolastiche nel

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libro Le parrocchie di Regalpetra: «È una cosa che esce dalla letteratura “documen-taria” di questi anni, perché non c’è solo il documentario, ma ci sei tu dentro che guardi»36. E sempre a proposito delle Parrocchie Pasolini aveva appuntato: «la ri-cerca documentaria e addirittura la denuncia si concretano in forme ipotattiche, sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razio-nalmente […] ma anche squisitamente»37. Insomma, soltanto in questo senso, con questa cadenza, le «annotazioni» di Sciascia in coda al libro, e le fotografie di Scianna si scambiano quanto Susan Sontag ha definito per le didascalie, un «ef-fetto di certezza», ma qui come velato da una persistente inquietudine.

A chiudere il libro dei Siciliani, non si ha, dunque, soltanto il convincimento di conservare la testimonianza antropologica, le «memorie» visive di un’epoca e di un luogo, o almeno non soltanto questo. Non un documento, né un testa-mento, ma un racconto.

Il tempo dei proverbi come il tempo delle immagini si tengono tra loro, Todo modo, tessono la fabula di una complessa condizione sociale, di valori trasmessi, di saggezze, tradizioni, e di sofferenze, ingiustizie, inquisizioni ed eresie, di-sfatte, e colpevolezze politiche38. E qui val bene, a riassumere, quanto scrisse l’autore prefando Le parrocchie di Regalpetra: «Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la sto-ria di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta fu-rono personalmente travolti e annientati»39.

Le fotografie di Scianna come i commenti di Sciascia ai proverbi hanno qual-cosa di più del documento, sono, ciascheduno per proprio conto, dei veri e propri racconti, e per questo paradossalmente “documentano di più”. A guar-dare le istantanee, a leggere i testi, salta via da qualche parte – come dire? – un’allegoria, la continuazione di una vicenda, personale e collettiva insieme, al di là di ogni posa, di ogni cronaca, di ogni destino. Sembra questo libro non un romanzo (come a volte accade agli album fotografici) ma una raccolta di rac-conti, un amalgama di scritture e immagini.

Un po’ – se mi è concesso – tutta l’opera di Sciascia, che potremmo, a nostra volta “cristallizzare” come un grosso documento ma preso per il rovescio, da dove è stata snidata una fabula, e, andando per indizi, soprattutto una morale, la libertà del giudizio, un modo di guardare (e valutare) il mondo per così com’è, proprio come invita a fare una fotografia; o meglio, come fa un «Aleph», se Scia-scia si chiedeva a proposito di Borges: «Tra le cose magiche che senza magia co-nosciamo, non si può conferire all’“aleph” una qualche analogia con l’obiettivo della macchina fotografica?»40. E allora: «che cos’è la letteratura? – ci si domanda con Sciascia – Forse è un sistema di «oggetti eterni» [Whitehead] che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splen-dere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema so-lare»41. Come dire: un album fotografico, ed anche una paremiografia.

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Note

1F. SCIANNA, I Siciliani, testi di D. Fernandez e L. Sciascia, Torino, Einaudi, 17 di-cembre 1977. La prima edizione è francese: F. SCIANNA, Les sicilienes, Paris, Editions De-noël, 17 maggio 1977. Da una notizia di Antonio Motta, sembra che il libro sia stato inizialmente rifiutato da Einaudi. Altri libri di Ferdinando Scianna sono nati dalla col-laborazione con Sciascia: Feste religiose in Sicilia, Bari, Leonardo da Vinci, 1965; La villa

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 116-128)