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Ettore Majorana, come per caso, reporter

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 44-52)

È stato detto e ribadito negli ultimi cinquant’anni che la vera critica del nostro tempo è il romanzo. Dai testi di narratori italiani e stranieri continuano ad us-cire racconti-inchiesta, accompagnati talvolta da soluzioni o anche da ipotesi suggestive destinate ad un qualche possibile deciframento dei contenuti. A questa categoria appartiene La scomparsa di Majorana, libro assai denso di Scias-cia, un rebus senza soluzione, che continua a suscitare interesse, inutile dirlo, principalmente per le tante letture possibili di questo complicato «caso». Del saggio si sono già occupati autorevoli studiosi che, com’è noto, hanno analiz-zato le pagine di Sciascia con grande acume critico, approfondendo tra gli altri il tema del suicidio attraverso articolati percorsi critici1.

Non è lo scopo di questo intervento offrire alcuna soluzione del mistero o del giallo che da anni circonda la scomparsa di Majorana. Del resto, lo stesso Scias-cia che, com’è noto «si divertiva» a rivolgere delle domande impossibili e a porre quesiti spesso senza risposta, sul caso Majorana offre un ventaglio di pos-sibilità che lasciano aperto il discorso. Ed è su questo registro che s’innesta l’in-teresse di carattere umano che l’intera vicenda suscita nel lettore. Consapevole dell’impossibilità di sciogliere l’enigma, Sciascia affronta l’argomento con ele-gante understatement e citazioni giuste, evitando qualsiasi forma di gravitas. Il ri-tratto che ne scaturisce è quello di un giovane studioso la cui intensa passione per la scienza si sovrappone al desiderio d’indipendanza dell’individuo:

E poi, tra il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” e lui, c’era una differenza pro-fonda: che Fermi e “i ragazzi” cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per que-lli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Queque-lli l’amavano, volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, “la portava”. Un segreto fuori di loro – da colpire, da aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per Ma-jorana era invece un segreto dentro di sé, al centro del suo essere; un segreto la cui fuga sarebbe stata fuga dalla vita, fuga dalla vita. Nel genio precoce – quale appunto era Majorana – la vita ha come una invalicabile misura: di tempo, di opera. Una mi-sura come assegnata, come imprescrittibile. Appena toccata, nell’opera, una com-piutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfecta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte. E poiché è un “tutt’uno” con la natura, un “tutt’uno” con la mente, questo il genio precoce lo sa senza saperlo. Il fare è per lui intriso di questa premonizione, di questa paura. Gioca col tempo, col suo tempo, coi suoi anni, in in-ganni e ritardi. Tenta di dilatare la misura, di spostare il confine. Tenta di sottrarsi all’opera, all’opera che conclusa conclude. Che conclude la sua vita2.

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Di seguito Sciascia, che amava molto Stendhal, accosta con un elegante ossimoro la precocità «ritardata» dello scrittore francese a quella ben più complessa di Ma-jorana, da cui emerge chiara la «premonizione» che a stritolare il fisico nucleare sa-ranno quelle stesse straordinarie capacità speculative che egli si portava dentro. Quasi un prepararsi a “non essere”, davanti allo sbocco della propria ricerca. Un prepararsi alla morte. Ma forse chi è preparato alla morte saprà morire? Per il mondo classico il saper morire era un valore esemplare di virtú, ovvero perfectio na-turae; un pensiero della morte che sembra ridursi alla tautologia: il “non essere” uguale al “non essere”. E tuttavia tale pensiero sembra esprimersi sempre in rap-porto alla vita; una vita non bene concepibile da chi, come Majorana, immagina di “morire” a causa di aberranti applicazioni della scienza. Né si può mettere in dub-bio la relazione che esiste fra il concetto di morte e la rappresentazione della ve-rità che per Majorana si identifica con la ricerca inesauribile di nuove formule. Una morte che sembra avere radici subliminali, molto al di là dell’individuo e, forse, della stessa storia umana: un ponte senza arcate sospeso sull’abisso.

Animato dal desiderio di spingersi verso dimensioni inesplorate, il giovane scienziato guarda la sua epoca secondo una logica diversa, affidandosi a inso-liti metodi di conoscenza. Come ha ricordato Italo Calvino:

È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello3.

In queste parole è il destino del giovane Ettore. Dietro di esse si cela il disa-gio dell’individuo moderno, che non sa, o forse non vuole, integrarsi con il contesto circostante nel tentativo appunto di «dilatare la misura, di spostare il confine». Egli, come sostiene Sciascia:

Oscuramente sente in ogni cosa che scopre, in ogni cosa che rivela, un avvici-narsi alla morte; e che la scoperta, la compiuta rivelazione che la natura di un suo mistero gli assegna, sarà la morte4.

La morte, dunque, non appartiene a nessun disegno, forse nemmeno al di-segno del suicida, il cui atto implica un rovesciamento della violenza sul sog-getto, per paura di aggredire gli altri. È qualcosa di fortuito. Ma anche nel caso dell’esistenza vi sono eventi fortuiti che subito divengono definitivi, come lo scenario della ‘rivoluzione’ nazista che si presenta davanti agli occhi increduli di Majorana durante il suo soggiorno a Lipsia (1933), che egli spiega in una lettera inviata alla madre:

Lipsia, che era in maggioranza socialdemocratica, ha accettato la rivoluzione senza sforzo. Cortei nazionalisti percorrono frequentemente le vie centrali e

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riferiche, in silenzio, ma con aspetto sufficientemente marziale. Rare le uniformi brune mentre campeggia ovunque la croce uncinata. La persecuzione ebraica riempie di allegrezza la maggioranza ariana. Il numero di coloro che troveranno posto nell’amministrazione pubblica e in molte private, in seguito alla espul-sione degli ebrei, è rilevantissimo; e questo spiega la popolarità della lotta anti-semita. A Berlino oltre il cinquanta per cento dei procuratori erano israeliti. Di essi un terzo sono stati eliminati; gli altri rimangono perché erano in carica nel ’14 e hanno fatto la Guerra. Negli ambienti universitari l’epurazione sarà com-pleta entro il mese di ottobre. Il nazionalismo tedesco consiste in gran parte nell’orgoglio di razza. Tutti gli insegnanti hanno avuto raccomandazione di esal-tare nelle scuole il contributo dato alla civiltà dalla razza nordica, e anche il con-flitto ebraico è giustificato piú con la differenza di razza che con la necessità di reprimere una mentalità socialmente dannosa. In realtà non solo gli ebrei, ma anche i comunisti e in genere gli avversari del regime vengono in gran numero eliminati dalla vita sociale. Nel complesso l’opera del governo risponde a una necessità storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere soffo-cata dalla stasi economica5.

Con fine intuizione Sciascia analizza la cronaca di Majorana, che definisce priva di una pur vaga «vibrazione d’entusiasmo» e volutamente animata da un’impassibilità che conferisce «tetraggine» a tutta la lettera:

Insomma: anche se Ettore avesse avuto nei riguardi del fascismo un sentimento di avversione, se il nazismo gli avesse suscitato una qualche sdegnata reazione, era elementare misura di prudenza limitarsi nelle lettere al semplice racconto dei fatti6.

E non si può non essere d’accordo con l’analisi che lo scrittore offre della let-tera, ricca sí di dettagli, ma nella quale si rileva una totale assenza di giudizi. Al di là dello stile preciso e scorrevole, il tono cupo di Majorana comunica all’inter-locutore una doppia voce: nelle parole del figlio – cariche di sfumature linguis-tiche che le rendono qualitativamente significative – la madre è come invitata a cogliere reticenze e autocensure. Ovvero: questi sono i fatti e non ho acun dub-bio che tu li interpreterai nel modo giusto. Un dialogo inquietante. Un confronto continuamente differito. Non è forse questo uno dei processi seguiti da giorna-listi e reporter nella informazione di doppia verità e destinata alla decodifica-zione del messaggio?

Majorana aveva intuito che l’Europa stava avviandosi verso una stagione che non avrebbe avuto né misericordia, né comprensione per scienziati e intellet-tuali non inclini a servire con il loro ingegno la barbarie del potere nazista. Si avverte, infatti, nelle pur semplici movenze sintattiche e nelle sfumature lessicali della lettera alla madre, un impulso a rimanere impenetrabile; per questo la cro-naca «impassibile», carica di silenzi funge da strumento di un’obliqua confes-sione. Non è difficile, del resto, vedere come un simile “estraniamento” possa

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essere simultaneamente fonte di sofferenza e volontà di manifestare le proprie tensioni interne. Nello scenario rappresentato, il pericolo nazista emerge limpi-damente in poche efficacissime righe: egli aveva individuato nell’unicità del si-stema, non solo tutto il corollario della scelta teorica e dottrinale di Hitler, ma tutti gli sviluppi che esso conteneva già in sé. In altre parole, si sentiva testimone oggettivo di un evento storico, di cui coglie tutta la drammaticità, avvertendo allo stesso tempo l’urgenza di raccontarlo con i toni di una cronaca, quasi un dovere nei confronti della storia con la maiuscola, che insegna a meditare sui grandi problemi della vita dell’uomo. Ma non solo, egli aveva compreso che la teoria era diventata prassi e irrimediabilmente aveva già ridotto lo spazio del singolo. Oltre al timore di essere colpito per quello che forse solo pensava, c’era in lui la reale difficoltà del vivere e del coesistere con i propri ansiosi interroga-tivi. Il desiderio di una vita al chiuso, nell’isolamento più assoluto, sembra più forte del timore che gli provoca il pensiero della vita frenetica che scorre al di là delle mura della sua tana e da cui scaturiscono le sue formule matematiche con-nesse (suo malgrado) con l’invenzione dell’atomica. Rattrappito a difendere quel poco di spazio interno che non sono riusciti a rapinargli, il suo ritratto di scien-ziato integrale si popola di nuove e più fosche zone d’ombra.

Cronaca e scrittura al bivio dell’autobiografia: nella lettera alla madre si coglie il timore per le aberrazioni che nascono dai mutamenti e stanno per sconvolgere una società. Il male diventa un simbolo. Forse il simbolo dell’individuo che ap-pare condannato alla distruzione ma che partecipa all’opera di distruzione. Come fratelli siamesi, scienza e ideologia sono destinati a lasciare macerie e rovine.

Per questo, la vicenda di Majorana sembra sempre più un artificio, una via di fuga dal presente, per mettersi di lato rispetto alle onde della storia, per ri-tagliarsi un’oasi di libertà, sogno di ogni prigioniero. Un apocalittico, che sce-glie di non adeguarsi all’attualità forse solo per difendersi dal pericolo di una scienza-consumo, «una materia bassa» che, come diceva Primo Levi, aveva studiato e che era servita a «salvarlo». In contrapposizione alle pressioni ne-gative del tempo, Majorana non concepisce la sua ricerca come rispecchia-mento, né come testimonianza, ma come pratica dell’allontanamento; quasi un’ostilità che genera estraniamento costringendolo, attraverso l’isolamento, all’affermazione del proprio io indipendente. D’altra parte, i grandi geni hanno spesso intuito i dilemmi fondamentali del loro secolo. George Orwell nel libro 1984 ci ha mostrato la spaventosa capacità di falsificazione del totalitarismo.

Conosciamo quanto sia insidioso fissare delle analogie tra scienza e letteratura; basti pensare alle osservazioni di Giacomo Debenedetti nel suo Il romanzo del No-vecento (mi riferisco in particolare ai Quaderni del 1963-1964), il quale riconosce

che, per lo meno in molti casi, le teorie scientifiche interpretano e connettono in un ordine sistematico i fenomeni del mondo naturale secondo principi e postu-lati che solo piú tardi si imporranno nel mondo della storia politica e sociale7.

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Del resto, già all’inizio del Novecento, i risultati raggiunti dalla scienza e dalla matematica avevano messo in discussione la fiducia nell’obiettività e nell’infa-llibilità della logica. Ne era scaturita una sorta di riconcettualizzazione della scienza, che aveva determinato un cambiamento di carattere epistemologico, teso ad affrontare una questione importante della modernità. Si trattava, forse, di un tentativo estremo di ordinare il caos verso cui l’Europa stava avviandosi. A quel caos Primo Levi, dopo le devastazioni della guerra, tenterà di mettere or-dine mediante alcuni suoi saggi, la cui scrittura – sempre oggettiva e con una evidente tendenza alla paratassi – ricorda quella di Majorana. C’è infatti nei due scienziati un comune denominatore che va al di là della fine tragica a cui cias-cuno dei due è andato incontro; entrambi hanno sentito l’esigenza di comuni-care agli altri un’esperienza indelebile con quell’immediatezza caratteristica di chi sente la necessità di “raccontare”. La scrittura sorvegliata e priva di giudizi di Majorana, che spiega alla madre i rivolgimenti portati dai nazisti, sembra trovare il suo epilogo nelle modalità di scrittura adottate da Levi per narrare la sua esperienza nei campi di sterminio (Se questo è un uomo). E subito c’è un epi-logo anche delle vicende, profetizzate da Majorana – poi realmente accadute – che avrebbero trovato il loro culmine nella lucida testimonianza di Levi. Ma il ricorso allo scrittore torinese porta ad altre considerazioni che consentono di accostare ulteriormente la sua esperienza a quella di Majorana; in particolare mi riferisco alle Storie naturali – la raccolta pubblicata inizialmente con lo pseu-donimo di Damiano Malabaila – nelle quali lo scrittore affronta le conseguenze e le ripercussioni che la fede assoluta nella scienza ha sull’esperienza umana di tutti i giorni.

D’altra parte, quando i risultati della scienza e le risposte empiristiche non sono in grado di prevenire l’autodistruzione degli esseri umani, il demone della scienza – in tutta la sua potenza – può rappresentare un serio pericolo, so-prattutto quando viene a contatto con gli intenti che gli esseri umani si pre-figgono. Attraverso i suoi racconti, Levi mostra come talvolta sia necessario analizzare le nostre aspirazioni scientifiche alla luce di altre fonti di conos-cenza come, ad esempio, l’intuizione. In una delle Storie naturali l’autore des-crive, per bocca di un suo personaggio (Torec), come la scienza possa provocare effetti devastanti, anche quando le intenzioni non sono del tutto cat-tive. Per questo Mr. Simpson spiega in modo razionale il motivo che lo cos-tringe a prendere le distanze dalla scienza, facendone un uso limitato. E mentre si allontana sempre piú dagli altri, isolandosi, trova conforto unicamente nei testi sacri, che lo portano verso una sorta di ascesi:

Tutti i fiumi corrono al mare, e il mare non s’empie: l’occhio non si sazia mai di vedere, e l’orecchio non si riempie di udire. Quello che è stato sarà, e quello che si farà è già stato fatto, e non vi è nulla di nuovo sotto il sole… dove è molta sa-pienza, è molta molestia, e chi accresce la scienza accresce il dolore8.

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Questo stesso tema viene ripreso da Levi in un altro racconto Alcune appli-cazione del Mimete, nel quale Gilberto è la rappresentazione emblematica dello scienziato per il quale la scienza è l’unico vero scopo della sua esistenza. Stac-catosi per questo da qualsiasi relazione umana, Gilberto diventa «un uomo pe-ricoloso»:

un piccolo Prometeo nocivo: è ingegnoso e irresponsabile, superbo e sciocco. È un figlio del secolo, come dicevo prima: anzi, è un simbolo del nostro secolo. Ho sempre pensato che sarebbe capace, all’occorrenza, di costruire una bomba atomica e di lasciarla cadere su Milano «per vedere che effetto fa»9.

Per Levi, come per Majorana, la scienza diviene dunque un rituale degli enigmi, ossia un modello d’interpretazione, parte integrante della loro maniera di inter-agire e di comprendere l’universo. Parte chimico e parte letterato, Levi coglie la complessità e le ambiguità del conoscere umano, ma allo stesso tempo riconosce ne-ll’esperienza empirica il modo reale che gli consente di penetrare l’universo. Del resto, nei suoi scritti Levi esplora come i risultati della scienza possano essere uti-lizzati a danno della stessa umanità, anche se ad essa riconosce la capacità di in-nestare il pensiero all’osservazione della realtà e di strutturarne la sua interpretazione.

La duplice identità dello scienziato (Majorana/Levi) che non crede fino in fondo alla scienza e che come essere umano ne riconosce la capacità distruttiva, si riconcilia alla fine nella sua identità empirica, che dà valore alle formule ma-tematiche nella loro funzione generatrice di operazioni multiple all’interno di una struttura. Ma una teoria scientifica ha anche qualcosa di profetico. Il suo potere di rivelare e di dominare la sostanza fa dello scienziato un interlocutore privilegiato, di cui non sempre egli può cogliere ombre e implicazioni. A lui la società e la cultura si rivolgono per leggere gli incerti presagi del futuro, il prossimo e il piú remoto.

Note

1Vorrei segnalare tra i contributi piú recenti quello di Giuseppe Traina, utilissimo anche per l’ampia bibliografia, Un altro ‘atto gratuito’. Mistero e rimozione nella Scomparsa

di Majorana, in Le forme e la storia, a cura di A. MANGANARO, Soveria Mannelli, Rubbet-tino 2008, pp. 253-69.

2L. SCIASCIA, La scomparsa di Majorana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 20-2.

3I. CALVINO, Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988, ora in I. CALVINO, Saggi

1945-1985, a cura di M. BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995, t. II, p. 633. 4L. SCIASCIA, op. cit., p. 24.

5L. SCIASCIA, op. cit., pp. 44-5.

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6L. SCIASCIA, op. cit., p. 44.

7G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1971, p. 466.

8P. LEVI, Storie naturali, in Opere, I, Torino, Einaudi, 1997, p. 567. 9P. LEVI, op. cit., p. 461.

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ORENZO

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IANCHI

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 44-52)