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Leonardo Sciascia e l’Illuminismo

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 52-66)

I. In una lettera a Sciascia del 26 ottobre 1964, Italo Calvino considera l’atteg-giamento suo e del suo interlocutore nei confronti dell’Illuminismo. Si tratta di poche righe che meritano di essere analizzate e che possono servire da intro-duzione a alcune brevi considerazioni su Leonardo Sciascia e il secolo dei Lumi. Scrive Calvino:

Spesso leggendo quel che scrivono i critici mi viene da riflettere sull’‘illuminismo’ mio e tuo. Il mio chissà fino a che punto può definirsi tale, e non soltanto un ele-mento di gusto – stilistico e morale – che si somma a elementi diversissimi: rac-conto fantastico-romantico, non-sense, fumisteria. Insomma, il razionalismo illuminista per quasi due secoli non ha fatto che ricevere bastonate in testa e smentite, eppure continua a convivere con tutte le sue contestazioni: e io forse es-primo questa coesistenza. Tu sei ben più rigorosamente ‘illuminista’ di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto1.

Queste righe sollecitano almeno due considerazioni. In primo luogo Calvino considera con la dovuta attenzione le indicazioni critiche di chi ha ricondotto il pensiero di Sciascia, ma anche il proprio, alla cultura illuministica. E a con-ferma di tale attitudine basterebbe por mente a come entrambi gli autori scri-vano nell’arco di un decennio una introduzione a un testo emblematico del Settecento francese: il Candido di Voltaire. Calvino nel 1974 e Sciascia nel 19832. Si tratta di poche pagine che, lette simultaneamente, permettono comunque di scorgere i legami profondi, complessi e diversificati che i due pensatori in-trattengono non solo con il Patriarca di Ferney ma, più in generale, con il pen-siero dei Lumi.

In secondo luogo, per tornare alla lettera di Calvino, merita ricordare come questi consideri lo scrittore siciliano più «rigorosamente ‘illuminista’», a mo-tivo anche del «carattere di battaglia civile» delle opere di Sciascia.

Un impegno civile che emergerebbe non solo dai romanzi o dai racconti di Sciascia (basti pensare a un romanzo apologo come Il Consiglio d’Egitto del 1963 o al breve racconto-saggio Morte dell’Inquisitore), ma anche dalla sua produ-zione saggistica – Cruciverba (1983) o Nero su nero (1979) – oppure da scritti at-tenti ad affrontare enigmi storici insoluti – La scomparsa di Majorana (1975) – o da opere di inchiesta e di denuncia come L’affaire Moro (autunno 1978). Certa-mente “opera letteraria” quest’ultima, ma anche, ed essenzialCerta-mente, come ha continuato a viverla il suo autore, “opera di verità”. Una verità da ricercare e

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ridefinire contro le ricostruzioni ufficiali e contro il conformismo di Stato. Un affaire che già nel titolo rimanda ad altre inchieste civili d’oltralpe, dall’«affaire Calas» e dall’«affaire Sirven» – che videro protagonista il Voltaire polemista e difensore della tolleranza degli anni sessanta del Settecento – fino ad altri ce-lebri affaires come il caso Dreyfus (1894-1906). E va almeno ricordato che se per Voltaire il Trattato sulla tolleranza costituirà l’esito letterario e politico del “caso Calas”, così, e in maniera non dissimile, L’affaire Moro mostrerà la duplice va-lenza, stilistica e civile, dell’opera di Sciascia3.

Nel ricostruire seppure per brevi cenni le relazioni tra Sciascia e l’Illumini-smo ci si limiterà a tre scritti, diversi per ispirazione e ampiezza, quali Il secolo educatore, pubblicato in Cruciverba (1983), la breve Nota critica al Candido di Vol-taire (1983) e Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia (1977). Si tratta di pagine che mostrano in maniera esemplare i rapporti tra Sciascia e il secolo dei Lumi, anzi, più in particolare, tra Sciascia e la Francia del secolo dei Lumi. Ma si tratta anche di una scelta necessariamente selettiva e per più versi inadeguata a ren-dere la complicata trama della presenza nell’opera dello scrittore siciliano di temi illuministici, nonché di espliciti riferimenti ad autori di quell’epoca4.

I limiti di tale scelta possono emergere da un solo esempio, per più versi pa-radigmatico; si tratta di un riferimento a Montesquieu, autore che ritorna più volte, come vedremo, nell’opera di Sciascia. Ora, Come si può essere siciliani?, lo scritto agile e corrosivo che compare nella raccolta Fatti diversi di storia lettera-ria e civile5, si apre con una citazione in francese tratta dalle Lettres persanes. È un passo che merita riportare per esteso in quanto mostra il fascino esercitato dalla prosa e dalle argomentazioni del Presidente sul nostro autore. Le Lettres persanes fungono infatti da modello letterario per avanzare istanze critiche con-tro ogni tipo di conformismo culturale o di pregiudizio sociale.

Ma si legga il testo:

Montesquieu, Lettres persanes, XXX: ‘Mais, si quelqu’un, par hasard, apprenoit à la compagnie que j’étois Persan, j’entendois aussitôt autour de moi un bour-donnement: ‘Ah! ah! Monsieur est Persan? C’est une chose bien extraordinaire! Comment peut-on être Persan?

Come nella Parigi del XVIII secolo il persiano, il siciliano è oggi nel mondo – le altre regioni italiane comprese – oggetto della stessa attenzione, dello stesso stu-pore, della stessa domanda. Sicché potremmo tradurre: ‘Ma se qualcuno, per caso comunica alla compagnia che io sono siciliano, subito sento intorno a me le-varsi un mormorio: ’Ah! Ah! Il signore è siciliano? È una cosa davvero straordi-naria! Come si può essere siciliano?’ E si noti bene: il persiano di Montesquieu non aveva nulla che in un salotto parigino lo distinguesse come persiano; è sol-tanto nell’apprendere che è persiano che la compagnia manifesta meraviglia e si chiede come è possibile essere persiano, quasi che l’essere persiano implicasse una diversità e difficoltà di vita alla compagnia, alla Francia e all’Europa ignote. In questa forma paradossale Montesquieu ha voluto rappresentare i pregiudizi

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“Il secolo educatore”: Leonardo Sciascia e l’Illuminismo

etnici e razziali; ma appunto questi pregiudizi alimentano le diversità e rendono difficoltoso l’essere siciliano o sardo o corso. E non che diversità e difficoltà non ci siano: ma non sarebbero tali da provocare conflittualità e chiusure se i pre-giudizi non le accentuassero ed esasperassero; se remore, difetti e virtù (spesso alle remore e ai difetti corrispondono le virtù) venissero messi in conto della va-rietà del mondo e non della inimicizia del mondo6.

«Varietà del mondo» contro «inimicizia del mondo», critica dei pregiudizi, invito alla tolleranza: in questa breve citazione delle Lettres persanes e nel com-mento che la accompagna, si ritrova non solo una sintesi di alcuni temi centrali nel pensiero di Montesquieu, ma anche il senso più profondo dell’Illuminismo di Sciascia.

II. Se arriviamo a considerare il saggio che Sciascia dedica al XVIII secolo e che già nel titolo rimanda al carattere peculiare di quell’epoca – Il secolo educa-tore – non si può non notare come esso si apra con una discussione sulla sua estensione cronologica e sulla sua identità nazionale e culturale che non pare per nulla scontata. Così il Settecento di Sciascia è un secolo essenzialmente francese e che si estende oltre i limiti cronologici dei suoi cento anni. E alla do-manda «Quando comincia, il Settecento? E quando finisce?» Sciascia risponde che «è impossibile non farlo cominciare e non farlo finire in Francia», tra il 1679 (morte del cardinale di Retz) e il 1814 (morte del principe di Ligne o Ligny)7. Ma queste date limite – che dilatano il XVIII secolo a 135 anni e che ampliano la durata di 110 anni già indicata da Ortega y Gasset, che lo chiudeva emble-maticamente nel 17898– rimandano a più definiti progetti culturali, anche di-vergenti tra di loro. Rinviano infatti a pensatori che rappresentano momenti e passaggi teorici centrali di questo secolo: da un lato a Bayle – che nel 1679 in-segna all’Accademia di Sedan – dall’altro al Marchese de Sade che muore nel manicomio di Charenton nel 1814. Infatti, «l’anno 1679 in cui muore Retz, Pierre Bayle ha trentadue anni e da tre insegna all’Accademia protestante di Sedan. Due anni dopo – 1681 – pubblica le Pensées sur la comète. Il Settecento co-mincia effettualmente da lui»9. E dopo le Pensées sur la comète si ricorda l’altro testo-cardine per gli sviluppi della cultura illuminista: il Dizionario storico-cri-tico che «pubblicato nel 1697 (Montesquieu ha otto anni, Voltaire tre), sarà il si-stema di quest’uomo non sisi-stematico e di tutti i non sisi-stematici che egli ha precorso, cui ha aperto quella strada che diceva di non vedere»10. E si consideri l’inciso – Montesquieu e Voltaire – perché saranno proprio questi due philoso-phes a costituire la linea portante di questo secolo educatore che si realizza pie-namente nell’Encyclopédie e nel suo autore-redattore: Diderot. In effetti «la meditazione non sistematica e non ordinata, di cui Bayle ha coscienza e che inaugura, per il secolo a venire, con il Dizionario storico-critico, troverà subli-mazione e apoteosi nell’opera che al secolo a venire darà nome: L’Encyclopédie

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– il secolo dell’Encyclopédie»11. Un’Encyclopédie a cui peraltro d’Alembert e Di-derot avrebbero messo solo una finzione di ordine, ovvero l’ordine alfabetico. Ora, è interessante ritrovare questa genealogia, per più versi classica, del pensiero dei Lumi, che da Bayle, vero e proprio iniziatore dello spirito del se-colo, passa per Montesquieu, per Voltaire e si chiude con d’Alembert e Dide-rot nell’opera che pare riassumere l’essenza stessa del nuovo sapere settecentesco. Ma come tutte le genealogie, anche questa ha le sue esclusioni, e non delle minori: Sade e Rousseau. Due scrittori, grandi, immensi, ma es-senzialmente «postumi», il cui ruolo per più versi unico emergerà nei secoli successivi. Così

c’è, in pieno dentro il secolo, Sade: ma la sua opera è destinata al secolo successivo e più – hélas – al nostro […] In effetti, Sade appartiene al secolo in cui la scienza dà il nome di sadismo alle psicopatie erotiche e, senza beneficio d’inventario, lo consegna a noi come grande scrittore; nel secolo in cui visse – e che anche per lui arriva al 1814 – altra collocazione non potevano trovargli che nel manicomio di Charenton, dove morì12.

E insieme a Sade l’altro grande scrittore «postumo» del secolo dell’Encyclopé-die sarà Rousseau. Prosegue Sciascia: «Ma ben più grande scrittore ‘postumo’ ha il Settecento; ed è Jean-Jacques Rousseau. Col loro disprezzo e dileggio, dif-famandolo e perseguitandolo, gli enciclopedisti sono di fatto riusciti a respin-gerlo dal secolo di cui, come dice Voltaire, si era fatto Giuda»13.

Certamente non è facile da spiegare l’avversione, quando non la persecuzione, esercitata nei confronti di Rousseau da autori quali Voltaire, Grimm o Diderot, pur considerando il fatto che egli fosse effettivamente «inadatto ai rapporti sociali, umani, d’amicizia e d’amore»14. Ma questa estraneità del Ginevrino rispetto a Vol-taire e agli autori dell’Encyclopédie segna la sua lontananza dal suo stesso secolo:

La spiegazione vera sta nell’estraneità di Rousseau, nella sua imprudenza, nel suo essere ‘postumo’ rispetto al secolo. Rousseau, dice Cocteau, ha commesso la peggiore delle imprudenze: ha reso di pubblica ragione l’intera sua vita. Nell’impero della finzione, in un secolo educatore, in un secolo ‘vestito’, ha com-messo l’imprudenza e la scorrettezza di denudarsi. Esibizionisticamente15. E qui, citando il passo delle Confessioni in cui Rousseau dà prova del suo esibizionismo16, Sciascia giudica il Ginevrino «ridicolo e malvagio», anche per il suo ostinarsi a scrivere, come sosteneva Voltaire, «contro il genere umano»17. Questo Rousseau lontano dagli enciclopedisti e criticato da Voltaire è allora per Sciascia un pensatore «inadatto ai rapporti sociali, umani, d’amicizia e d’amore» e addirittura «malvagio»; e questo forse spiega la ragione per cui «nei bilanci del secondo centenario della loro morte, nel 1978, come nel gioco della torre i più hanno voluto tenersi Rousseau e buttar giù Voltaire». Sciascia ripropone ed

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“Il secolo educatore”: Leonardo Sciascia e l’Illuminismo

fatizza l’opposizione tra Voltaire e Rousseau, tra il difensore della critica e del libero pensiero e il teorizzatore della «volontà generale» – e in quanto tale anche l’«ideologo» di tutti gli eccessi storici e rivoluzionari18. Ma in questo rifiuto del Ginevrino e in questa dichiarata ostilità per il suo pensiero si cela anche il senso più profondo dell’Illuminismo di Sciascia. Per lui l’Illuminismo è essenzial-mente un rapporto positivo e costruttivo con la propria vita e con quella degli altri, lontano da ogni misantropia, un «fare con gioia» che già si trova pro-grammaticamente enunciato in Montaigne e che nel secolo XVIII si incarna nella nuova concezione ideale e pratica – «la gioia della conoscenza, dell’intelligenza, dell’armonia delle parti nel tutto»19 – enunciata dall’Enciclopedia e da Diderot. Un Illuminismo entro il quale Rousseau rimane sostanzialmente estraneo e in-compreso.

Ma questo secolo ragionevole ed educatore è anche capace di immaginare un futuro diverso e di impegnarsi per cambiarlo in nome della ragione, della tol-leranza religiosa e dei diritti civili e penali. Così

l’idea che i deboli fossero buoni, le guerre stupide, gli ‘atti di fede’ mostruosi, le giustizie feudali ingiuste, e che alla dura fatica dovesse corrispondere il godi-mento del frutto, si faceva strada. Al centro del secolo, come un sole allo zenit, stanno – 1759, 1763, 1764 – il Candide e il Traité sur la tolérance di Voltaire, il Dei

delitti e delle pene di Beccaria20.

Uno scritto, quest’ultimo, potremmo aggiungere, che, tradotto in francese dall’Abbé Morellet nel 1766, suscitò immediatamente da parte del Patriarca di Ferney un Commentaire (1766) complice e idealmente partecipe in nome dei co-muni principi della tolleranza.

Da queste tre opere collocate «al centro del secolo» e dai loro autori – Voltaire e Beccaria – emerge l’idea propriamente illuministica di Sciascia, legata a un pensiero capace di incidere nella società in nome di ideali legati alla tolleranza e alla giustizia. L’idea che il progresso intellettuale non sia disgiunto da quello politico o sociale e che la liberazione dai “pregiudizi” produca effetti concreti, offrendo garanzie formali e giuridiche a tutti – compresi coloro che probabil-mente a questi “pregiudizi” non intendono rinunciare – rimangono un punto d’arrivo irrinunciabile al quale Sciascia resterà fedele nel suo itinerario civile e morale, dai primi racconti di ambientazione siciliana fino a L’affaire Moro.

In questa prospettiva il Settecento si configura come un ideale ancora valido, nel quale anche il ruolo della donna è stato profondamente ridiscusso. Infatti «la sen-sibilità, la vivacità, le luminosità del secolo XVIII […] moltissimo deve alle donne. È un secolo femminile e, senza alcuna teoria o polemica, come naturalmente, fem-minista»21. Ne è esempio il frontespizio del Newtonianesimo per le dame di France-sco Algarotti nel quale il suo autore non si fa ritrarre insieme a Voltaire ma a Madame du Châtelet22. Comunque il vero emblema del secolo è Diderot, ed è

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lui a rappresentare quella nuova professione intellettuale che pare inventata dal secolo XVIII:

Diderot è la chiave del secolo. Quest’uomo che voleva esser nulla, ‘ma nulla del tutto’, ha come inventato il secolo in quel che noi gli riconosciamo di più pro-prio, di più originale, di irripetibile. […] Ha inventato una professione: la più li-bera che si potesse immaginare – e per non averne alcuna. E da questa sua professione, da questa sua non-professione, è venuta l’Encyclopédie. E

dall’En-cyclopédie una nuova concezione del fare, delle attività umane, del lavoro23.

Questa nuova idea di lavoro – e di lavoro intellettuale – porta poi con sé anche quella di grazia o di gioia, come traspare ad esempio dalla voce«gusto»

di Montesquieu (Essai sur le goût dans les choses de la nature et de l’art), che si trova nel settimo tomo dell’Encyclopédie24.

Ma se Diderot ha inventato quella nuova professione dell’intellettuale che è propriamente moderna e che contribuisce a mantenere vivo il rapporto tra la nostra epoca e il secolo dei Lumi, egli si mostra anche – e proprio per questo – un grande educatore:

Per non averne alcuna, Diderot ha dunque inventato una professione: quella dell’intellettuale. Nonostante le difficoltà, i pericoli, il carcere, i bisogni, è da cre-dere l’abbia esercitata con gioia. Prendeva tutto sul serio ma con tanta legge-rezza da dare l’impressione che non si prendesse sul serio. […] Non si cura di dare alle stampe tutto quello che scrive, e anzi ne dà pochissimo; ma nulla di ciò che ha scritto è ‘postumo’ se non accidentalmente. Sta dentro il suo secolo come ogni uomo nella propria pelle. Eppure è soprattutto attraverso la sua opera che il secolo XVIII ci raggiunge, ci occupa, ci offre strumenti e misure25.

E dopo avere ricordato i positivi giudizi su Diderot di Lessing, di Goethe e di Schiller, questo saggio si conclude con l’affermazione: «Grande educatore in un secolo educatore»26.

III. Se ne Il secolo educatore Sciascia configura un itinerario che dal Diction-naire di Bayle arriva all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert – dove ha origine una nuova professione, quella dell’intellettuale – egli compie anche una rico-struzione storiografica dell’età dei Lumi per più versi classica, nella quale i rin-vii critici appaiono rivelatori della peculiare sensibilità letteraria dello scrittore siciliano. Sciascia cita Ortega y Gasset per la centralità del pensiero francese del Settecento, recupera ampiamente le annotazioni di Paul Valéry alle Lettres per-sanes di Montesquieu27e rinvia a Cocteau per parlare di un Rousseau inattuale e «postumo» rispetto al suo secolo.

Sarà invece con un giudizio di Anatole France sul Candide – «buttato giù in tre giorni per l’immortalità» – che inizia la Nota critica di Sciascia al racconto

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“Il secolo educatore”: Leonardo Sciascia e l’Illuminismo

di Voltaire28. E anche qui si ritrovano precisione storica e attenzione docu-mentaria nel ricordare i milleduecento esemplari usciti «dai tipi di Gabriel Cra-mer, stampatore a Ginevra» nel gennaio del 1759, di cui «mille spediti a Parigi, e duecento a Amsterdam», e come «subito esplosero, dovunque, delle con-traffazioni». E ancora, si rammenta come il volume «suscitò l’attenzione della polizia» a Parigi, «sicché molti esemplari furono sequestrati e distrutti», men-tre un mese dopo «a ruota, seguì la condanna del Consiglio di Ginevra alla di-struzione»; inoltre, iniziarono anche a circolare le traduzioni e «nello stesso anno 1759 usciva la prima traduzione italiana»29.

Così il Candide, testo esemplare per la stretta connessione tra la velocità della sua composizione e il suo destino di immortalità, è anche un testo eccentrico che non tollera di venire codificato entro un genere letterario – fosse pure quello di opera comica –, e che viene ancora letto oggi «con lo stesso diletto» e «forse con più acuta riflessione»30. Anzi, Sciascia è convinto, in maniera insieme lucida e pessimistica, che Candide godrà di nuova fortuna e avanza «la previsione che quanto più il mondo diventerà irragionevole (e in questo senso velocemente corre) tanto più i ragionevoli, con amaro diletto, vi si rifugeranno»31.

Ma è il fatto – o la leggenda – che sia stato scritto in appena tre giorni a solle-citare alcune riflessioni. Così, al di là del tempo effettivamente impiegato per la sua stesura, questo racconto «dà l’impressione di essere stato scritto, per così dire, senza levare la penna dai fogli, con una continuità e una rapidità da stato di grazia»32. Inoltre nelle sue pagine «vi trascorre un’allegria, una felicità, una gioiosa sollecitazione al fare, per cui Gide lo mette tra i pochissimi libri che con-siglia come ‘mezzi di allettamento e di eccitamento al lavoro’: e basta, dice, leg-gerne poche righe, ma devotamente»33. Anzi, l’elemento propriamente affascinante del Candide consisterebbe proprio nella maniera irriverente e in fin dei conti gioiosa in cui si esprime il “pessimismo” di Voltaire: «E questa è la grande, affascinante contraddizione di Candide: che un libro scritto a fondare il pessimismo e a irridere l’ottimismo, scorre effettualmente a infondere ottimi-smo». Con la conclusione, a tutti gli effetti paradossale, che «un mondo in cui c’è stato un uomo che ha scritto Candide e in cui ancora ci sono uomini che con uguale spirito lo leggono, è davvero il migliore dei mondi possibili»34.

Ma se Sciascia concorda con Gide sull’allegria e la felicità che percorrono queste pagine e sul fatto che Voltaire «Scrive il Candide per divertirsi; e, diver-tendosi, diverte»35non concorda invece con lo scrittore francese, ma anzi pensa che abbia «decisamente torto, Gide, quando dice che se Voltaire ‘tornasse oggi tra noi, sarebbe indispettito di aver trionfato così poco di tante cose, che egli at-taccava male e che aveva torto di attaccare; e di avere fatto il gioco di molti

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 52-66)