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Sciascia e il cinema

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 160-168)

Il rapporto tra Leonardo Sciascia e il cinema è stato forse il più intenso tra quelli poligamici (come li ha definiti Gian Piero Brunetta) stabiliti in Italia nel corso del Novecento tra la settima arte e la letteratura.

Non solo lo scrittore siciliano si è sempre dichiarato legato al linguaggio ci-nematografico e suo debitore per la formazione culturale, ma la qualità stessa della sua forma di scrittura è abitata, attraversata dal cinema e dai suoi pri-mari moduli di funzionamento. Del resto, i rapporti fra cinema e letteratura rappresentano uno straordinario strumento per verificare, attraverso la coe-renza o la discordanza delle idee, non solo i sorprendenti atteggiamenti in pro-posito, ma soprattutto la pregnanza dei meccanismi di comunicazione intersemiotica1.

È noto come la totalità dei titoli ispirati ai romanzi di Sciascia abbiano con-tribuito a mettere in luce presso ampie fasce di pubblico, la fecondità e la pro-fondità presenti nella sua opera e, in particolare, la loro capacità di diventare lo specchio critico e spietato delle principali contraddizioni del “caso italiano”. I film tratti dai testi dello scrittore, per essere ancora più espliciti, si ritrovano sparsi in più di trent’anni della produzione nostrana: a partire da A ciascuno il suo (Elio Petri, 1967), passando per Il giorno della civetta (Damiano Damiani, 1968), Un caso di coscienza (Gianni Grimaldi, 1970, tratto dalla raccolta Il mare colore del vino), Cadaveri eccellenti (Francesco Rosi, 1975, dal romanzo Il contesto), Todo modo (Elio Petri, 1976), Una vita venduta (Aldo Florio, 1976, ispirato al racconto L’antimonio, compreso nella raccolta Gli zii di Sicilia), Porte aperte (Gianni Amelio, 1990, can-didato all’Oscar), Una storia semplice (Emidio Greco, 1991), fino a Il consiglio d’Egitto (Emidio Greco, 2002), a cui si aggiunge il film Gioco di società per la Tv, diretto da Nanni Loy nel 1989.

In particolare, rievochiamo i titoli che mettono meglio in evidenza questo rap-porto sempre motivato e spesso creativo. A ciascuno il suo, diretto da Petri, segna la nascita del sodalizio del regista con lo sceneggiatore Ugo Pirro (che con que-sto film riceverà il Premio per la sceneggiatura al 20° Festival di Cannes) e con Gian Maria Volonté. Vincitore di quattro Nastri d’Argento, la pellicola tratta del-l’omicidio eseguito durante una battuta di caccia di due uomini: il farmacista Manno, già oggetto di lettere minatorie per le sue presunte relazioni extraco-niugali, e il dottor Roscio, identificato come semplice testimone e vittima inno-cente. A questa doppia esecuzione, seguono le indagini che verteranno principalmente su Rosina (adolescente probabilmente sedotta da Manno) e i suoi familiari. Nell’opera di Petri è di prammatica percepire il forte intento di

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nuncia alla mafia che s’incastra, però, in maniera del tutto anti-convenzionale in una ricostruzione d’ambiente straordinariamente lucida e penetrante. Il giorno della civetta, diretto da Damiani, tratta, invece, dell’indagine eseguita da un uffi-ciale dei carabinieri, Bellodi (Franco Nero), su un caso di omicidio avvenuto in un piccolo centro isolano. Traspare, nel lavoro del regista d’origine friulana, l’opprimente atmosfera di omertà esistente nel paese che riesce a trasmettere allo spettatore il senso dell’onnipresenza della corruzione in ambienti appa-rentemente insospettabili, da quello politico a quello giudiziario e a quello ec-clesiastico.

Cadaveri eccellenti costituisce nella filmografia sopracitata un unicum, utile soprattutto come documento di eccezionale chiarezza circa l’universo morale e psicologico della mafia, ottenuto grazie alla profondità di descrizione di cui godono sia i personaggi sia ciò che essi rappresentano. Rosi dettaglia, infatti, il tortuoso percorso dell’ispettore Rogas a caccia dei misteriosi assassini di tre alti magistrati: le indagini arriveranno sino a Roma, dove gli sarà a poco a poco possibile scoprire il complotto finalizzato a un golpe destrorso. L’uscita del film fu segnata da molte critiche e polemiche soprattutto per quanto riguarda la suspense connessa a una “verità” che non sempre è “rivoluzionaria” come pretendeva la vulgata radicaleggiante dell’epoca. Si tratta, in effetti, di un apo-logo sui generis sul tema della cosiddetta strategia della tensione, costruito su un parallelo tra sogno e realtà e riempito di rimandi a Pirandello (il gioco delle parti, il potere anonimo) e Kafka (ambienti abnormi, vasti spazi che oppri-mono i protagonisti). Grazie a questo volutamente ambiguo background, la pel-licola non può certo limitarsi a essere assimilata, come pure è stato fatto, a una scolastica e alquanto sconclusionata metafora sull’essenza metafisica del po-tere.

Elio Petri riporta lo scrittore siciliano sul grande schermo con Todo modo in cui, nel tentativo di allestire una parodia amara e realistica dell’apparato di classe che detiene dal dopoguerra il primato politico nazionale (la Democra-zia Cristiana), si avvale di toni particolarmente cupi e farseschi. Il tratto mar-catamente espressionista della pellicola si fa dunque preponderante, con l’obiettivo dichiarato di denunciare la corruzione, il malcostume, l’imperver-sare degli interessi personali nella gestione della cosa pubblica ricorrendo al grottesco come ultima/unica arma plausibile. La sua struttura è di conseguenza alquanto enigmatica, circostanza che non a caso provocò, accanto alla preve-dibile ripulsa del partito di maggioranza, la sospettosa indifferenza di quello comunista.

Toccò in seguito a Gianni Amelio affrontare un nuovo testo di Sciascia: Porte aperte riscosse un successo internazionale usufruendo, tra l’altro, ancora una volta di un monumentale Gian Maria Volonté come protagonista. Presentato

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nella Quinzaine des Réalisateurs al 43° Festival di Cannes, il film si concentra su di un giudice che nella Palermo degli anni Trenta è determinato a opporsi, sia pure rispettando i termini della legge, a un sin troppo annunciato verdetto di condanna alla pena di morte. Ispirato a un fatto realmente accaduto, la rico-struzione si mantiene lontana da qualsiasi facile demagogia tenendo salda – gra-zie soprattutto all’armonia delle recitazioni – la suspense in chiave umanistica e finendo, forse proprio per tale scelta, col mostrarsi amaramente pessimista sul quesito centrale, il giusto rapporto da preservare a ogni costo tra il delitto e la sua punizione.

Una storia semplice inizia con la scoperta di un uomo morto nella propria villa: accanto al cadavere ci sono l’arma del delitto e un foglietto riportante la scritta «Ho trovato». Le indagini falliscono a più riprese, dato che quasi tutti i testi-moni tendono a confondere vieppiù i fatti: la regia di Emidio Greco ricalca un diligente ritmo televisivo che, per una volta, non nuoce troppo alla composi-zione del giallo ancora supportato da Volonté, il mattatore antidivo più legato al connubio cinema/letteratura sotto il segno di Sciascia.

Questo nutrito repertorio confluisce sotto l’etichetta del cinema civile al-l’italiana, un filone talmente ramificato e durevole da poter essere tranquilla-mente localizzato tra il 1963 di Le mani sulla città di Francesco Rosi e il 2008 di Il divo di Paolo Sorrentino, secondo un criterio classificatorio che ha spesso di-sorientato la storiografia cinematografica tradizionale perché in grado d’in-cludere nella sua area autori e drammaturgie tra di loro assai differenti. Nonostante le plateali divaricazioni d’impianto drammaturgico – prim’ancora che ideologico –, è oggi, infatti, pacifico affiancare le riletture di La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, che ha inserito l’originalità di una cadenza thril-ling-avventurosa, a quelle dei capodopera generazionali di autori ribelli o ir-regolari come Marco Bellocchio, Salvatore Samperi e addirittura molti dei sottovalutati artigiani inventori di quel bizzarro monstrum che è il western al-l’italiana.

In un certo senso più fluido e naturale è il rientro delle tematiche sciasciane nel panorama degli anni Settanta, soprattutto per quanto riguarda il primo quin-quennio in cui s’incrociano, si mescolano e configgono sul campo mitopoietico peculiare del cinema, tormenti e rancori purtroppo destinati a sfociare nel bru-tale ridimensionamento del libertarismo sessantottino per mano della sangui-naria stagione del terrorismo. Basterà ricordare alcuni punti fermi di tale periodo di transizione, nello stesso tempo favorevole e ostile alle sottili quanto taglienti suggestioni che Sciascia aveva fornito in anticipo al medium di massa per eccel-lenza… Il 1970 è l’anno di Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, diretto da Elio Petri, pellicola premiata da un insolito successo internazionale come di-mostra l’Oscar ottenuto nella categoria del migliore film straniero; ovvero il thril-ling semi-grottesco di un capo della Squadra Omicidi della questura romana (a cui un irresistibile, inimitabile Volonté conferisce tratti di paranoica pertinenza)

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che prima uccide l’amante e poi semina volutamente tracce e indizi per dimo-strare come, in quanto garante della legge e rappresentante del potere, riesca a mantenersi sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto.

Nello stesso anno, Francesco Maselli realizza e interpreta (insieme, tra gli altri, al regista-attore Nanni Loy) Lettera aperta a un giornale della sera, l’apologo derisorio di un gruppo d’intellettuali comunisti anestetizzati dal velleitarismo, tanto più estremista quanto più imbelle, che si dichiarano pubblicamente di-sposti a partecipare al fianco dei vietcong e contro gli yankee alla guerra del Viet-nam. Meno significativi e meno coraggiosi sul piano dell’ideazione e della messinscena, ma affini agli interrogativi posti da un autore scomodo e anti-manicheo come Sciascia possono inoltre considerarsi L’istruttoria è chiusa: di-mentichi di Damiano Damiani (tratto dal romanzo Tante sbarre di Leros Pittoni, la storia vera di un architetto finito in carcere a seguito di un’accusa d’omici-dio colposo e destinato ad accorgersi come in quel contesto la mafia continui a esercitare un dominio assoluto provvedendo a gestire soldi, protezioni e di-scriminazioni); lo scomposto e urlato La classe operaia va in paradiso, ancora di Petri, che, nonostante la Palma d’oro ex aequo vinta a Cannes, porta ai limiti del paradosso il ritratto della condizione operaia congelato dalla rissa continua tra sindacato e nuova sinistra, movimento studentesco e colletti bianchi tec-nologicizzati; o anche Trevico-Torino… Viaggio nel Fiat-Nam di Ettore Scola, ro-manzo di formazione in chiave neo-marxista di un giovane avellinese assunto alla Fiat e progressivamente coinvolto nei risvolti più aspri del risorgente scon-tro di classe.

Alla collaudata equidistanza tra cinema d’autore e cinema popolare si con-trappone, così, un veemente mix di polemica, radicalismo denuncia anti-isti-tuzionale con la relativa e sbrigativa apertura alle “vitalistiche” ragioni della contestazione giovanile. Tuttavia, proprio nell’automatismo di tale combina-zione, destinato a riprodursi nella routine del cinema cosiddetto impegnato di qualsiasi era e qualsiasi nerbo, diventa preponderante il taglio di manicheo conformismo che dell’ideale pantheon cinéfilo aspira a sostituire solo le statue, anziché le prerogative stilistiche che dovrebbero certificare nuovi e in qualche modo eversivi punti di vista e livelli di coscienza.

All’interno di un filone consolidato che apre molti interrogativi tendendo, però, a “chiudere” le risposte, la sigla Leonardo Sciascia verrà dunque utiliz-zata ad libitum per incrinare, più o meno volutamente, il delicato rapporto isti-tuito tra realtà e finzione dalle trasposizioni; mentre la maggioranza dei critici inducono a giudicare, come in base a un riflesso pavloviano, quasi solo il leit-motiv delle storie, trascurando sempre di più il congegno affabulatorio attra-verso cui Sciascia ha esplorato la complessità criminogena dei comportamenti e della mentalità mafiosi.

Il versante egemonico di un genere ormai identificabile col termine

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drama impedisce, in prospettiva, di accedere alla distinzione tra la qualità delle opinioni politico-sociali, dell’estrazione etica, culturale e sociale e del profilo psicofisico dei personaggi. Inoltre, si rischia di non cogliere in pieno lo spirito di un “rimodellamento” artistico, volto a dare misura, essenzialità e ritmo al racconto originario su pagina. Operazione che, al contrario, hanno portato a termine in epoche e condizioni diverse numerosi registi genericamente bollati come reazionari, da Don Siegel a John Milius, da Clint Eastwood a Michael Ci-mino. Proprio quest’ultimo, per fare un esempio, è stato capace di dimostrare con Il Siciliano (1987, tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo) come si pos-sano trasformare materiali di un repertorio in apparenza parassitario in pura epica hollywoodiana.

Un’ipotesi, in questo senso, potrebbe essere quella indicata dall’opportunità di trasgredire dall’interno di una vocazione spettacolare i canoni scettici e ci-nici della cultura siciliana, secondo la quale la mafia è un ordinamento giuri-dico alternativo rispetto allo Stato. La tesi di una riscrittura filmica più convincente, pour cause in senso sciasciano, resta, però, secondo noi quella at-tuata da Il Gattopardo di Visconti nel segno di un verosimile filmico “control-lato”, meno nazional-popolare di quel che si pensi e di un’accentuazione nichilistica delDNAlocale tanto ribellistico quanto, in pratica, rassegnato2. Men-tre l’antitesi, volentieri incarnata dal conformismo di cui abbiamo parlato, va senza dubbio ascritta ai professionisti dell’antimafia che allignano, ahimé, anche nel rutilante universo del glamour.

Note

1«Il letterato… non vuole, né spesso possiede gli strumenti per vedere ciò che l’opera gli mostra: preferisce piuttosto rimproverare al film di non mostrargli quello che lui conosce di un determinato fatto o evento storico e all’autore di avere letture di riferi-mento difformi dalle sue», in G. P. BRUNETTA, Spari nel buio, Venezia, Marsilio, 1994.

2«Anche se i critici letterari avevano incoraggiato a credere che lui e Lampedusa fos-sero ai poli opposti nella loro concezione della Sicilia, Sciascia stesso alla fine degli anni Sessanta cominciò a nutrire dei dubbi in merito alla cosa. Nei suoi articoli apparvero ri-ferimenti farevoli verso il Gattopardo e l’ammirazione di Sciascia per le concezioni stori-che di Lampedusa crebbe al punto stori-che alla minima occasione lo citava come un’autorità in materia», in D. GLAMOUR, L’ultimo Gattopardo, Milano. Feltrinelli 1989.

STORIA E MEMORIA

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IMONA

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Tra Don Chisciotte e Dupin:

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