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scritti di Leonardo Sciascia 1. I volti della morte

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 178-190)

Nella produzione di Sciascia, oscillante tra il noir e il libro inchiesta, la morte, nelle forme diversificate in cui irrompe nella vita umana, è certamente un mo-tivo dominante. Annunciata, minacciata, attesa o temuta alla fine è sempre e solo un colpo secco che rompe la continuità del racconto, l’intreccio dei rap-porti, il corso delle vite. La morte entra perciò nelle cronache, è dato per ec-cellenza delle storie umane. Nella sua inappellabilità è il segno stesso, o forse si potrebbe dire il sintomo di un potere silenzioso e invisibile, simile a una ma-lattia, che solo alla fine, quando più nulla è possibile fare per difendersi, si rende visibile e riconoscibile, solo per essere oggetto di racconto e di testimo-nianza in altre forme, in altri luoghi e tempi da parte di chi sopravvive. Per la sua repentinità e inappellabilità la morte sembra condividere del vissuto sem-plicemente una frazione impercettibile di tempo, quasi solo un ultimo mo-mento, sospeso tra vita e morte, tra lo spessore dell’esistenza e l’abisso del nulla, tra il corpo della persona e l’impersonalità del cadavere. Le rappresen-tazioni della morte si sforzano di penetrare questo mistero, isolando il tratto di ineluttabilità inquietante, che i vivi rivestono con riti, abitudini, volti a miti-garne la violenza, a creare una sorta di lenta gradualità1. Da questo punto di vista che sia fine naturale, o che sia provocata dall’esecuzione di una pena o da un delitto, il racconto o la testimonianza non esauriscono la valenza simbolica della morte. La morte chiama in causa i vissuti, le cornici, le abitudini, tutto quanto passa sotto il nome di antropologia2.

La prossimità della morte si segnala nella progressiva resa all’invadenza del-l’esterno, nella dipendenza dagli altri che investe intenzioni, movimenti, pen-sieri di colui che sarà toccato dalla morte. Quando arriva, però, la morte è morte, non ha parentele, passaggi, analogie con la vita, lascia il muto cadavere ad altri, toglie ogni profondità: di essa resta solo, come Rembrandt ci mostra, un freddo, opaco corpo a disposizione dei vivi3.

Quando ci si interroga sul morire, se ne individua la causa nella vecchiaia, nella malattia, nella violenza, nel suicidio. Da qui il paradosso di una possibile narrazione attraverso i vissuti che intrecciano la vita alla morte, i vivi ai morti, preservando la continuità del genere umano caratterizzato da un più-che-vita4. Nell’impossibilità di mutare il dato residuano almeno i racconti, in cui Sciascia riconosce l’evolversi dei costumi nel senso della “secolarizzazione” che carat-terizza la morte moderna, sottratta al trascendente, al magico e affidata alla

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potenza terapeutica della scienza5. In questa prospettiva la morte investe l’etica, come profilo della vita umana che è sempre vita comune, tra gli altri, nel mondo.

In definitiva secondo Sciascia si vive come si muore all’interno di un conte-sto comune nella cui articolazione conte-storico-culturale i modi del nascere e del fi-nire si decidono, si testimoniano in un gioco tra individuo e comunità, tra passato e presente coltivato e mantenuto vivo da chi riconosce e pratica l’eser-cizio della cultura come difesa della dignità umana.

2. La medicalizzazione della vita. Il nuovo abito della morte

Là dove vita e morte dunque riempiono lo spartito sul quale si declina la com-media umana, la cultura provvede a vestire con abiti diversi la semplicità di-sarmante dell’esistenza in cui la morte esercita il “suo” potere o meglio in generale gioca “nel” potere. In queste diverse configurazioni l’uomo cerca e trova la tonalità peculiare di ogni sua esperienza. Quanto più la cultura si omo-loga, dalle città ai piccoli paesini, quanto più velocemente il progresso rag-giunge gli angoli più remoti, tanto più per Sciascia una forma di sapere/potere, offrendo esperienze straordinarie (dalla luce nelle case, al cinema, ecc.), de-termina una sorta di espropriazione dell’uomo a se stesso, per tutto quanto in lui rimane lento, inadeguato a modelli di efficienza e benessere come la ma-lattia. In questo orizzonte all’idea della morte portatrice della consapevolezza della fragilità originaria della vita si sostituisce un “interdetto sulla morte”, dietro il quale si cela il peso ideologico di una scienza che di quella antica fra-gilità vuole essere terapia. Di qui la possibilità di una riflessione sulla “storia della morte” suggerita da un saggio di Ariès ed estesa alle tradizioni di un pic-colo paese della Sicilia, dove inesorabilmente, anche se più lentamente, giun-gono i segni di profondi mutamenti antropologici6.

Questo l’oggetto di un breve scritto incluso in Cruciverba, in cui Sciascia si sofferma appunto sulla «medicalizzazione della vita» come passaggio antro-pologico consumato attraverso il movimento da «un’idea della morte all’in-terdetto sulla morte», alla luce delle trasformazioni che toccano la vita dell’uomo e che sembrano tanto più eclatanti in un piccolo paese, quello a cui Sciascia associa il ricordo delle consuetudini antiche legate alla morte7. La me-dicalizzazione della vita è per Sciascia quasi il simbolo della violenza che la scienza, fattasi tecnologia, e le istituzioni esercitano sulla malattia e sulla morte degli individui in nome di una promessa di guarigione che alla fine non muta la fragilità, la vulnerabilità di ogni vivente dinanzi a questo passaggio inelut-tabile. Se la verticale di questo cruciverba è data dalla morte, l’orizzontale come declinazione di questa esperienza è data dalle varianti culturali che segnano i vissuti della morte. Il discrimine non è nell’evento, ma nel rapporto con il

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pere medico, o meglio con il potere ad esso riconosciuto. Una volta «chiamare il medico» era un atto puramente formale, nota Sciascia, come chiamare il prete, che non ha facoltà né nel bene, né nel male sul corso della vita8. Nell’uno come nell’altro caso prevaleva la rassegnazione all’ineluttabile della morte, per cui la presenza delle due autorità, religiosa e scientifica, al momento del tra-passo dava il segnale che nulla era stato tralasciato per rendere quel passaggio decoroso, pur nella sua inevitabilità: in quella morte intima, in quell’accetta-zione, si celebrava un atto di grande responsabilità, a parere dell’autore. Quella compostezza nel dolore era il simbolo dell’accettazione del limite e della in-colmabilità della distanza tra i due mondi, tra le due condizioni, tra i due stati a cui nessun potere o sapere poteva trovare compensazione. Al morto perciò una volta era riconosciuto il ruolo di messaggero dei vivi nel regno dell’al di là, nella misura in cui proprio l’irreversibilità del passaggio conferiva una di-gnità specifica alla condizione di moribondo.

La percezione della distanza tra i due mondi e la speranza nella gradualità del trapasso erano tali che una morte improvvisa era augurata solo a un ne-mico, nella misura in cui rendeva impossibile questo sia pure effimero con-tatto tra mondo dei vivi e mondo dei morti, che sembrava alleviare il dolore del distacco. In qualche modo si coltivava la speranza e l’augurio di un’esperienza piena del trapasso, che era parte significativa dei rituali della comunità, sim-bolo della solidità e coerenza della famiglia che al medico riconosceva, solo alla fine e marginalmente, la possibilità di intervento sull’intimità di questo evento.

Con l’affermarsi del potere della scienza, invece, la cornice rituale ha ceduto sempre più il posto a un’oggettivazione neutrale della morte, che ha contami-nato lo spazio privato del dolore con lo spazio pubblico del sapere. In questo passaggio dal privato al pubblico nasce l’interdetto sulla morte nella medi-calizzazione della vita, in cui si dà il paradosso di una censura, di un divieto quasi, su qualcosa di ineluttabile, o meglio, sulla stessa ineluttabilità che tocca vite singole, ridotte a voci della casistica scientifica. Spogliando le vite del loro senso specifico, riducendo le esistenze a corpi, inevitabilmente è venuta meno anche la sacralità della morte. Il gesto moderno dell’emancipazione dell’uomo, la fiducia nel potere del sapere ha privato di senso quel vissuto, che resisteva ancora forse solo in piccoli paesi in cui la civiltà tardava ad arrivare. La lette-ratura legge il sottofondo umano di questo passaggio secondo Sciascia ripor-tando nella narrazione il peso dell’esperienza individuale andata a fondo.

In questo scritto perciò la cornice, quasi la guida della riflessione di Sciascia, è un esempio di grande narrativa. Il racconto di Tolstoj La morte di Ivan Il’ic offre in maniera esemplare la descrizione della malattia attraverso la sua messa in scena o meglio attraverso l’emarginazione del malato dalla scena dei sani9. La patologia si aggira nella casa di Ivan Il’ic come un fantasma, rimane un non-detto, dietro la narrazione delle visite mediche, la somministrazione dei

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maci, lasciando colui che soffre emarginato in uno spazio angusto della casa. Un lento processo di neutralizzazione traduce il legame affettivo in ipocrisia familiare e il rito in formalismo sociale. Attraverso il vissuto di Ivan Il’ic nella percezione dell’isolamento spaziale ed emotivo, Sciascia riconosce la prima, rudimentale forma di ospedalizzazione attraverso la quale avanza l’esorcizza-zione della soffrenza, la negal’esorcizza-zione ipocrita della fragilità mascherata nell’ap-parente mentalità progredita, che si lascia alle spalle la semplicità inefficace della cura domestica. Al medico, prima ancora che alla morte, è affidato il giu-dizio finale, quello neutrale che non guarda torto e ragione, ma afferma in ma-niera impersonale il potere della cura10. Egli è «imperscrutabile, come il giudice. Come il giudice, non tenuto a render conto di nulla – e soprattutto delle sentenze che emette […] il medico fa astrazione dalla malattia e dalla sa-lute, poiché quello che conta è l’affermazione della medicina, cioè della “mé-dicalisation de l’idée de la vie”»11.

In defintiva dallo spazio “a parte”, alla relazione sottratta o eccedente il ritmo familiare, alla delega al sapere medico, la malattia in qualche modo passa nella neutralità di una burocrazia medica: chi soffre è affidato a un protocollo, ogni cosa si neutralizza, indifferente alla pervasività della sofferenza del corpo. Non è quest’ultima, infatti, a essere sconfitta, Ivan e tutti i malati continuano a sof-frire. Cambia solo il posto del malato nello spazio comune, quasi che la sola vista possa offendere il decoro della vita dei sani, nella netta separazione tra i confini della sofferenza e dell’impotenza e quelli della sanità e del potere. Il de-coro, appunto, che deve nascondere il corpo sofferente per salvare l’apparenza del mondo della normalità12. Perciò anche l’esperienza della morte nel gioco delle parti del mondo borghese scivola nella dialettica dell’“apparire”, sia pure nel limite paradossale della negazione stessa dell’apparire. Rimuovere l’avan-zare della morte è negare il suo farsi irreparabile evento, riducendo la costel-lazione dell’apparire nello svanire non del corpo, che dura nel freddo cadavere, ma di ciò che lo anima, rendendo possibile il sopravvivere dei ricordi. Quasi che l’immagine del corpo offeso dal dolore mettesse in pericolo la memoria stessa. Anche gli affetti cedono all’onnipotenza del decoro, cercando di pre-servare per i sopravissuti, più che che per i moribondi, il volto accettabile della malattia e della morte. Il trasferimento dell’esperienza della malattia prima e della morte poi nella dimensione per così dire pubblica produce per Sciascia una sorta di occultamento: si cancella o si rimuove la malattia nella sua mise-ria sostituendola con l’asetticità della cura, in cui sembra sospeso ogni tempo, quello della sofferenza diretta e indiretta, nel calcolo scientifico13. Questa la metafisica banalità della morte in cui la se/dicente legge della scienza e delle istituzioni produce una spersonalizzazione per la quale fa poca differenza se la morte sia violenta, oppure causata da malattia o da vecchiaia. E non perché la “morte è morte”, ma perché i morti sono tutti uguali in questa burocratiz-zazione della morte.

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3. La morte violenta salva dalla morte naturale

Il cavaliere e la morte, l’incisione di Dürer dà il titolo a un altro scritto di Scia-scia. Vi è uno strano intreccio in questo racconto tra morte naturale e morte violenta. La scena è il commissariato dove si indaga sulla morte di un uomo potente. Fa da sfondo la famosa incisione di Dürer che accompagna uno degli investigatori in tutti i suoi trasferimenti, in cui giocano tutte le simbologie della condizione umana, impotente dinanzi alla morte falciatrice nonostante ogni esibizione di forza e coraggio del cavaliere.

«L’aveva sempre più inquietato l’aspetto stanco della Morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente arrivava quando ormai della vita si era stan-chi. Stanca la Morte, stanco il suo cavallo», talmente stanco il diavolo «da la-sciare tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui», solo il cavaliere sembrava difendersi con la sua corazza e la sua armatura, nella quale si na-scondeva la vera morte14. Un gioco di specchi sui cui riflessi si snoda la storia in cui ogni cosa sembra mostrare un lato imprevisto.

Il racconto ha in Vice, un commisario di polizia poco poliziotto, il protago-nista: fiaccato nella sua forza investigativa e nella sua energia vitale dalla ter-ribile malattia che lo accomuna al personaggio di Tolstoj, forse allo stesso Sciascia che avverte l’incalzare della malattia.

Nella scelta della trama, dei nomi e delle circostanze l’autore disegna una sorta di gioco tra il potere mondano dell’ucciso, il potere investigativo di un semplice “vice” e il potere ultramondano e imperscrutabile della morte.

Qui la morte è evocata dal quadro, o dall’assassinio del potente e dall’inda-gine del poliziotto, o dall’avanzare del cancro: in ogni caso, solo alla fine, im-provvisa e secca, arriva quella vera che colpisce all’improvviso, tagliando il filo delle vite. Un intreccio di morti attraversa la narrazione. Figura apparen-temente minore per grado e per stile di esistenza nel gioco dell’apparire so-ciale, il Vice coltiva, al di là delle convenzioni professionali, il paradosso, l’eccesso, il contraddittorio. Non potrà mai arrivare al comando, perché non gli interessa il gioco del potere, nemmeno di quello invincibile della morte. Come suggerisce il suo nome, che ricorda qualcosa di incompiuto, di subal-terno, il Vice conduce un’esistenza liminare, sfidando persino il divieto di fumo negli uffici e il pericolo del fumo per la sua salute, il suo sguardo sfiora ogni cosa con un certo distacco e scetticismo. Afflitto da una sorta di difficoltà di vi-vere, che non gli impedisce di entrare nella logica del delitto, il Vice è più si-mile a Dupin, personaggio letterario creato da Poe, che al suo capo, un vero investigatore riconosciuto socialmente. Come Dupin il Vice gioca tra il disor-dine e l’ordisor-dine, costruendo mosaici attraverso le piccole tessere che si presen-tano sulla scena del delitto. Muovendosi con metodo poco poliziesco, forse anche poco scientifico, è più affascianto dall’enigma del delitto, dai meandri della mente, che interessato ad arrestare il colpevole, si muove con distacco

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più caratteriale che ricercato. Intuitivo, apparentemente freddo e intelligente gioca come in un solitario fino a quando riesce a piazzare le carte nel loro or-dine, per ricomporre la scena nell’unica combinazione possibile delle tessere. Alla fine cerca e trova il colpevole, ma cade sotto i colpi dell’assassino; non si difende, né usa precauzioni – gesti per lui poco frequenti – portando con sé nella morte il segreto. Il Vice si era impeganto per ore a risolvere quel solita-rio, in cui rimaneva sempre soltanto una carta da sistemare, quando alla fine, uscendo di casa, incontra il suo assassino. Con il colpo ogni cosa si dissolve come la vita «alla fine del tempo di cui» varca la soglia «per confondersi nella mente», capace di mescolare vero e falso, in cui si riproduce l’eterno gioco tra apparenza e realtà15.

La morte può arrivare perciò inaspettata, anche quando una grave malattia dà l’illusione di poterla governare difendendosi semplicemente dal dolore, perché la morte è nel gioco della vita, una sorta di partita a scacchi in cui nulla si decide prima della mossa dell’altro. «Con la vita che se ne andava fluida, leggera, scompariva anche il dolore, lasciando libera la mente per la verità», quella verità nascosta dietro la tragica commedia della vita e delle apparenze: il nome e il perché della morte, quell’altra di cui cercava il colpevole16.

Certo un’altra morte annunciava il suo corpo dolorante che lo aveva spinto a immaginare di poter morire scomparendo, in solitudine, in un’intimità pro-tettrice; la fine, quella vera, la incontra nell’inseguimento, guastando una scena tante volte immaginata, pensata e meditata nella solitudine. Spesso il Vice aveva pensato alla morte dei cani che si ritirano progressivamente dalla vita. A differenza del cane che difficilmente muore ammazzato, il Vice cade ucciso. Un destino che può toccare chi come il Vice non si apparta, ma insegue il gioco del potere, in cui vince sempre chi sopravvive. E il Vice non sopravvive nean-che per morire naturalmente accompagnato dal pudore di sé, lontano dalle persone care come aveva letto tante volte nel Montaigne di Gide17, compagno dei suoi spostamenti come l’incisione di Dürer. La sua morte è quella morte che legge negli occhi del suo assassino, che immagina raccontata nei titoli dei gior-nali, dove si perpetuano menzogne e ipocrisie, alimentate dalla Morte, per i so-pravvissuti.

4. Il potere dei sopravvissuti

Al di là del talento letterario, del piacere della ricostruzione e della cronaca, della passione civile, per Sciascia malattia, morte, violenza sono spesso spunti per una riflessione sulla fragilità delle vite e dei legami umani. La narrazione si muove sempre tra passato e presente, tra la cronaca di una vita e la scena in cui si raccolgono i sopravvissuti, che in quanto tali possono raccontare, dete-nendo se non altro il potere sulla memoria della vita di chi finisce. La morte

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sancisce quello che gli ospedali e i medici preparano: corpi come materia di elaborazione di lutti, illusioni, delusioni, aspettative per un mondo di vivi che vampirescamente si alimenta dei cadaveri inermi e inerti. Un gioco dell’appa-rire senza più debiti verso l’essere, verso una qualche forma di autenticità o partecipazione. Ne Gli atti relativi alla morte di Raymond Roussel18, per esempio, Sciascia ricostruisce la storia di una morte per molti versi misteriosa e im-provvisa servendosi degli atti relativi all’inchiesta su questa morte. I piccoli errori di trascrizione, le sfumature, i falsi ricordi nelle testimonianze portano alla luce, talvolta anche in maniera ridicola, la distorsione prodotta dall’og-gettivazione estraniante presente in questi documenti. Il protagonista, speri-mentatore nell’arte del linguaggio19, finisce vittima delle parole, oltre che della morte, nei rapporti e nelle trascrizioni pubbliche per la singolare fine che fa in un albergo di Palermo. Quei freddi e contorti documenti indiziari si sforzano di dare ragione di una morte inaspettata e disperata forse, di un personaggio famoso rifugiatosi a Palermo, sconosciuto per coloro che su quella morte in-dagano. Linguaggio poliziesco, dichiarazioni giuridiche, sentenze mediche e legali coprono l’esistenza misteriosa di Roussel senza riuscire a ricostruire la scena, né la vicenda della sua tragica fine.

Una morte, come tutte le morti, imprevedibile, questa volta non annunciata come nel caso del Vice, ma cercata attraverso un tentativo di suicidio. Là dove

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 178-190)