• Non ci sono risultati.

Tra Don Chisciotte e Dupin: Sciascia, i personaggi, la storia

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 168-178)

Ne I vecchi e i giovani, il romanzo pirandelliano della delusione postrisorgi-mentale vissuta sullo sfondo dei fasci siciliani e dello scandalo della Banca Ro-mana, il personaggio per eccellenza interprete di una classe dirigente tra affari e politica, Flaminio Salvo, si trova a confessare ad Aurelio Costa, giovane da lui protetto fino a farne il direttore delle sue zolfare: «– Invecchio, sì; perdo il gusto di comandare. Me lo fa perdere la servilità che scopro in tutti. Uomini, vorrei uomini! Mi vedo attorno automi, fantocci che devo atteggiare così o così, e che mi restano davanti, quasi a farmi dispetto, nell’atteggiamento che ho dato loro, finché non lo cambio con una manata».

Rappresentante di una classe imprenditoriale che sostiene i propri interessi in un torbido intreccio con la politica, Flaminio Salvo manovra spregiudicata-mente quanti lo circondano, a cominciare dal suo ex-cognato, Ignazio Capo-lino, da lui sostenuto nell’elezione a deputato del partito clericale e della cui bella, giovane e vivace moglie Nicoletta apprezza particolarmente le grazie. Eppure, in sintonia con le ombre che si allungano su tutti i personaggi di que-sto romanzo, anche su questa figura cala una maschera di tragica malinconia, dovuta alle traversie private (la morte dell’unico figlio maschio, la pazzia della moglie, la fragilità psicologica della figlia Dianella), in parte anche allusive ad angosciose proiezioni di un autore che, in queste pagine, ha certo riversato parte importante della propria familiare biografia. Non a caso, Cesare Pavese, negli appunti del Mestiere di vivere, alla data del 13 gennaio 1937, parlava de I vecchi e i giovani come di un «romanzo sbagliato», frantumato com’è in figure deter-minate dalla legge interiore della solitudine che le conduce «alla pazzia, al-l’inebetimento, al suicidio o alla morte senza eroismo». Una sfilata di singoli solitari, insomma, che non accedono coralmente a un’epopea della solitudine.

Insomma, l’“uomo solo” pirandelliano, del resto riconosciuto a chiare lettere dal suo autore a ideale protagonista del suo cosmo narrativo. Ed è dunque nel suo statuto di “uomo solo” che il pur intrigante Flaminio Salvo, inteso ad accre-scere la propria rete di potere dando in moglie la sorella Adelaide al principe Ip-polito Laurentano, di provata quanto anacronistica fede borbonica, può farsi portavoce di uno dei cardini della poetica pirandelliana: la morte dell’eroe nella scena storica contemporanea.

In una novella pubblicata nel 1898 su “Ariel” e mai compresa in raccolta, La scelta, Pirandello metteva in scena il se stesso bambino accompagnato alla fiera dei giocattoli dal magro e lungo aio Pinzone e affascinato, fra tutte, dalla «ba-racca dove si vendevano le marionette, ch’eran la sua passione» restando a lungo

166

incerto «tra i paladini di Francia e i cavalieri Mori». Ma il narratore dell’oggi al-l’odierna fiera non troverà più eroi ed eroine per i propri romanzi e novelle ma incontrerà soltanto «miseri, inani, affliggenti fantocci»: «le creature nate dai pen-sieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sen-timenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli». Se è qui visibile il marchio della «degenerazione», divulgato, nel dibattito culturale del-l’Europa di fine secolo, da un libro come Entartung di Max Nordau, apparso in Italia, in tempestiva traduzione, tra il 1893 e il 1894, con una lunga dedica a Lom-broso, l’impotenza dello scrittore a trovare «un eroe, non qual è, ma quale do-vrebbe essere» lo condurrà senz’altro ad optare, come dichiarato nell’Umorismo, per quelle «novelle senza eroi» già rinvenibili nelle pagine di Thackeray.

«Al posto d’un eroe troviamo don Abbondio», ovvero «don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto», scrive appunto, nel 1908, il Pirandello saggista de L’umorismo. Manzoni, tuttavia, nella sua transazione tra ideale e reale, oggettivava sì il suo sentimento del contrario nella figura del troppo umano e terreno curato, ma se ne compensava, risollevando il suo ideale religioso nei personaggi di Fra Cristoforo e del Cardinal Borromeo. Pi-randello non si concede alternative di sorta. In questo, forse, più che a un Man-zoni è simile a quel Cervantes che, come si legge ancora nell’Umorismo, «non può consolarsi in alcun modo perché, nel carcere della Mancha, con Don Qui-jote – come egli stesso dice – genera qualcuno che gli somiglia».

Lo Sciascia critico che torna sui rapporti Pirandello-Cervantes (con il capitolo Con Cervantes del suo saggio pirandelliano), è anche lo Sciascia scrittore che crea personaggi che portano don Chisciotte nel cuore. Valgano per tutti l’ispet-tore Rogas de Il contesto (1971) e il suo amico, lo scritl’ispet-tore Cusan, da lui coin-volto nel rischioso gioco investigativo nei confronti di poteri di loro troppo più forti. In un ristorante fuori porta, i due amici si votano, con rassegnato eroismo, alla missione impossibile, nonostante «la delizia del luogo, del cibo, del vino; le buone e care immagini paterne e materne in atto di ripetere il “chi te lo fa fare?” che due millenni di storia del paese rendevano fatidico e vatici-nante; i ricordi della spensierata giovinezza che ad ogni loro incontro si affol-lavano; il vagheggiamento delle cose ancora da capire, del mondo ancora da vedere, dei libri ancora da leggere». Il loro sarà consapevole donchisciottismo se, morto Rogas, Cusan, persuaso di essere ormai a sua volta condannato, de-cide di nascondere il proprio memoriale tra le pagine di un libro: «un libro da salvare, un libro che salvi il documento», per cui, tra il Don Chisciotte, Guerra e pace, la Recherche, sceglie «naturalmente», il primo.

Il rimpianto per la scomparsa dalla scena contemporanea del prototipo clas-sico dell’eroe sarà destinato ad allargarsi a macchia d’olio, coinvolgendo anche quella generazione di ventenni che, come Corrado Alvaro – nome non casual-mente in sintonia pirandelliana – si affaccerà allo scenario bellico in cerca di gloria per sé e per la patria. «– Ma dove sono gli eroi? Non ci sono più eroi né

167

Tra Don Chisciotte e Dupin: Sciascia, i personaggi, la storia

capi. L’umanità è divenuta piccola. Dove sono un Achille, un Napoleone, un Garibaldi? C’è nessun eroe da queste parti?» è la preliminare domanda di At-tilio Bandi, nei Vent’anni di Alvaro, al nuovo amico, Luca Fabio, che, in una fi-deistica attesa, ribatte: «– Magari ci son già, e noi non sappiamo ancora come si chiamino».

Le parole di Flaminio Salvo da cui siamo partiti sono potenzialmente desti-nate a creare più cerchi concentrici. Nel famoso vis-à-vis finale de Il giorno della civetta (1961) fra Don Mariano e il capitano Bellodi, assistiamo infatti a un im-barazzato (da parte di Bellodi) saluto delle armi tra il capitano e il capo mafia che si produce nella famosa categorizzazione della cosiddetta umanità («bella parola piena di vento») nelle cinque degenerative categorie a scalare, di uomini, mez-z’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. Alla prima categoria degli “uo-mini” è esplicito che appartengono entrambi gli interlocutori, pur combattendosi su fronti opposti. Nel disagiato riconoscimento del capitano Bellodi, don Ma-riano acquista dunque – al pari del pirandelliano Salvo – una statura epico-tra-gica (un «Innominato non toccato dalla conversione», l’ha definito Walter Mauro), avvalorata da una malinconica solitudine e dall’irreversibile condizio-namento di un fangoso immobilismo storico:

Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro ed informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida?

Il vento degli avvenimenti, capace solo di cambiare il colore delle parole «su una realtà immobile e putrida», non può che rimandarci, ne I Vicerè di De Ro-berto, al discorso finale di Consalvo, principe di Francalanza, alla vecchia zia, donna Ferdinanda, disgustata dalla campagna elettorale, inneggiante a libertà e democrazia, condotta dal nipote, uscito tuttavia «primo eletto del popolo». Al suo sprezzante anatema («Tempi obbrobriosi!... Razza degenere!»), Con-salvo ribatte:

Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia nuovamente alla testa del paese... Forse le duole il mezzo col quale questo risultato si è rag-giunto... Creda che duole a me prima che a lei... Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo [...] è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato... L’importante è non lasciarsi sopraffare [...] Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai re; ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di fatto [...] e poi il mutamento è più apparente che reale [...] La storia è una monotona

ripeti-168

zione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni este-riori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale, non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza.

Sulla traccia, dunque, di un immobilismo imputabile alla presenza di un’umanità-gregge, in servile attesa solo di chi la sappia comandare («Il gregge umano, numeroso ma per natura servile», secondo l’affermazione sempre di Consalvo), si giunge al famigerato «se vogliamo che tutto rimanga come è, bi-sogna che tutto cambi», enunciato da un Tancredi, in tono per l’occasione se-rioso, al principe zio. Siamo dunque a quel Gattopardo in cui anche don Fabrizio, alla fine dell’incontro con Chevalley, enunciava una sua personale gerarchia nella scala umana, con in testa, ovviamente, i gattopardi, e, a sca-lare, dopo i vecchi leoni, sciacalletti e iene e pecore.

L’incontro/scontro di Sciascia con le pagine di Tomasi di Lampedusa fu pro-babilmente più fruttuoso di quanto, a caldo, facessero presagire le sue risen-tite riserve, alla data del 1959, verso un romanzo risolto in «un gran bel giuoco» tracciato da «un gran signore» di «raffinato qualunquismo», da un autore-prin-cipe-letterato, affetto da «congenita e sublime indifferenza» verso la questione sociale e la cui Sicilia pativa un vizio di astrazione geografico-climatica. Un giudizio che tuttavia sarà rivisitato a distanza di un ventennio (I luoghi del Gat-topardo, 1979), quando Sciascia dichiarerà di esser pronto, nell’oggi, «a ricono-scere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricu-sare o tentare di ricuricu-sare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle».

Sulla classe nobiliare siciliana radiografata al momento dello sbarco garibal-dino, Sciascia aveva detto già la sua nel racconto Il quarantotto degli Zii di Sicilia (1958). Il trasformismo del borbonico barone Garziano pronto a festeggiare e fo-raggiare a volontà Garibaldi e i suoi, è qui smascherato nella sua ipocrisia da un garibaldino di nome Ippolito Nievo – spia di una sintonia Sciascia-Calvino – , anche se, a dire il vero, con venature di una qualche retorica populistica: «Perché – disse Nievo – io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agi-tano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono; i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli». Parole che costituiscono proba-bilmente la piattaforma per l’accusa poi rivolta a Sciascia di voler ridisegnare la “pianta-siciliano”.

Ne Il quarantotto, l’io narrante, il figlio del giardiniere del barone, che, ragazzo al tempo dello sbarco dei Mille, seguirà il Generale in tutte le sue campagne, ri-percorre per noi lettori i suoi ricordi nella solitudine di un rifugio campestre in cui evitare la cattura, stavolta, non da parte dei gendarmi dei Borboni, ma da

169

Tra Don Chisciotte e Dupin: Sciascia, i personaggi, la storia

parte, piuttosto, dei carabinieri e soldati del Regno d’Italia che arrestano, in tutti i paesi della Sicilia, «gli uomini che lottano per l’umano avvenire». Siamo ai Fasci siciliani: l’io narrante, come il Carlino di Nievo, suo modello palese, ha at-traversato un lungo e denso periodo della storia della nascente nazione italiana, ma, diversamente da lui, conclude la sua esistenza senile («sono vecchio e stanco») su una disillusione. Più che a Carlino lo potremmo allora apparentare, classe sociale a parte, a quel Lando Laurentano, figlio del principe Ippolito, che, nel finale de I vecchi e i giovani, troviamo braccato e nascosto, sulla via dell’esi-lio, avendo fatto parte del Comitato centrale dei Fasci. Il nuovo eroe proletario di Sciascia, nel suo incontro con la storia, condivide più il disilluso destino di sconfitta pirandelliano che il travagliato ma positivo approdo dell’eroe nuovo, costruito da Nievo, sull’ambiguo crinale di differenziazione e compenetrazione fra classi diverse, nel personaggio di Carlino, discendente secondario e negletto dei conti di Fratta. Per l’io narrante de Il quarantotto, come poi per quello di un altro racconto quale L’antimonio, ovvero lo zolfataro che acquista coscienza so-ciale e storica nel confronto con la guerra di Spagna, parrebbe allora davvero, come ha detto Claude Ambroise, che il solo momento positivo dell’incontro con la storia sia quello in cui se ne scopre l’orizzonte.

La provocazione intellettuale e sentimentale dichiarata alla lettura del Gat-topardo è anche, per Sciascia, l’avvio a una rimeditazione sul romanzo storico che lo condurrà, dopo Il giorno della civetta, a Il consiglio d’Egitto (1963), am-bientato in un Settecento in cui l’immobilismo storico parrebbe debellato dal grande evento rivoluzionario francese, sotto l’egida della fiducia illuministica nella ragione umana.

Due figure, mosse da intenti e passioni diverse, maturano nel giro di queste pagine un loro personale (e fallimentare) scontro con la storia: violentata, di-storta, modificata nella grande impostura ordita dall’inventività dell’abate Giu-seppe Vella, alla ricerca di un personale benessere; sovvertita alla luce del diritto e dell’illuministica ragione nel tentativo rivoluzionario progettato dal giovane avvocato Francesco Paolo Di Blasi. L’ordine codificato e quello costi-tuito hanno la meglio sui tentativi eversivi della fantasia e della ragione: lo smascheramento della truffa dell’abate e la morte di Di Blasi suggellano il fal-limento del singolo a modificare il mondo in cui opera.

Nel Giornale di guerra e di prigionia, relativo alla guerra ’15-18 ma cominciato a pubblicare negli anni Cinquanta, Gadda stigmatizza la “bella morte” se inu-tile, se ricercata solo per punto d’onore e di impegno, nel vano sacrificio proprio e altrui. Ne è esempio l’episodio dell’assurdo sacrificio di un colonnello, im-molatosi dopo aver fatto fallire un attacco per la sua insipienza strategica. Alla “morte bella” occorre dunque unire, per Gadda, altro, ineliminabile aggettivo, apparentemente anacronistico, “utile”: analoghe rivendicazioni percorrono del resto anche Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, nella polemica contro una morte gratuita, dall’univoca esemplarità cavalleresca.

170

Nel Consiglio d’Egitto, lo stesso Di Blasi, dopo aver sopportato con nobile co-raggio e con l’ausilio dei versi dei grandi poeti, Dante in testa (e come non ri-cordare un Primo Levi confortato dai versi di Dante a preservare nel lager la propria umana dignità?) «per cinque volte la corda, per quarantotto ore la ve-glia, per sette volte il fuoco», finirà con l’assimilare il suo abortito tentativo di congiura, in cui ha trascinato anche altri, con l’impostura ordita dal Vella: «È stata un’impostura anche la tua, una tragica impostura», dirà a se stesso. Al-l’ultimo messaggio dell’abate che chiede perdono della sua frode, l’avvocato ri-sponderà che, fra le tante imposture di cui pullula la vita, quella del Vella ha almeno il merito di essere allegra e anche, in certo senso, utile. L’aprioristica inutilità della congiura da lui ordita e conclusa in frustrante tragedia è, allora, l’ultima consapevolezza del Di Blasi, prima di trapassare nel mondo della ve-rità. Sempre ammesso che il mondo della verità non sia invece questo, «degli uomini vivi, della storia, dei libri»: sospetto balenato in ultimo anche all’in-quieta mente dell’abate. Il quale dalla sua opera d’invenzione avviata con spi-rito da don Abbondio in cerca di materiale benessere si è davvero affacciato alla storia, incidendovi il segno della propria energia creatrice, da lui stesso magnificata nella lettera al Re in cui, negando i falsi, sottilmente li ammette, sottolineando giustezza e vigore della propria fantasia e rivendicando al-l’eventuale impostore, creatore di opere così singolari, fama ben più alta di quella attribuibile al modesto traduttore di due codici arabi. L’allegria ricono-sciuta dal morituro Di Blasi alla letteraria impostura del Vella è ben altra dalla melanconia che ha condotto il giovane avvocato, vedovo della moglie dopo soli due anni di matrimonio e preoccupato della saluta materna, a imbastire in-genuamente una congiura di sapore suicida.

Eroe solitario e sconfitto era anche il capitano Bellodi de Il giorno della civetta, tragicamente impresso dalla citazione shakespeariana del titolo (dall’Enrico VI): dove la solitudine è accentuata dalla “lontananza”, che implica la diversità e lo straniamento di chi, venendo da un divergente “altrove” (Parma, in que-sto caso) si incunea nel compatto conteque-sto siciliano. E la “lontananza” era ca-tegoria, oltre che di Montesquieu, tutta pirandelliana, come ben testimoniano novelle quali Lontano (imperniata sulla condizione di un marinaio norvegese, Lars Cleen, approdato, moribondo per il tifo, in terra siciliana, guarito e lì ri-masto, per amore, ma sempre forestiere e sperduto «come una gru») e Zaffera-netta (storia di una bambina congolese trapiantata in Italia, dove rischia di morire per emarginazione e nostalgia). Eppure il settentrionale Bellodi non ri-nuncia, anch’egli donchisciottescamente, alla lotta: sullo sfondo di una Parma notturna, «incantata di neve, silenziosa, deserta», il capitano deciderà di ritor-nare in una Sicilia dalle rare nevicate e dal molto, forse troppo sole, pur nella consapevolezza di andare incontro a una rinnovata sconfitta: «Ma prima di ar-rivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. / – Mi ci romperò la testa – disse a voce alta».

171

Tra Don Chisciotte e Dupin: Sciascia, i personaggi, la storia

Non per modificare l’esistente, ma per gusto del divertissement intellettuale, agisce invece il protagonista di A ciascuno il suo (1966), il professor Laurana, «uomo onesto, meticoloso, triste […] riflessivo, timido, forse anche non co-raggioso», che non vuole sostituirsi alla polizia ma misurarsi con un gioco di intelligenza: un eroe intellettuale, come piace a Sciascia tratteggiare, fors’anche su conforto, come già suggerito da Giuseppe Traina, di un saggio del 1961 di Victor Brombert, The intellectual hero. Ma la catena indiziaria pazientemente ri-costruita da Laurana col supporto del caso e di illuminanti intuizioni, sulla scia di Dupin, oltre a farlo cadere in un agguato grossolano, offuscatogli da una perturbante presenza femminile, si rivelerà surclassata dalla voci e dai pettegolezzi che corrono l’intero paese, rendendo tutti perfettamente consa-pevoli – Laurana e la madre esclusi – di come realmente si sono volti i fatti. Per cui, degno epitaffio per il professore, misteriosamente (ma non tanto) scom-parso, altro non può essere, da parte dei compaesani, che un lapidario: «– Era un cretino». E che Laurana fosse «non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità», l’aveva ammesso sin dall’inizio lo stesso io narrante.

Più volte riaffiora, del resto, nelle pagine di Sciascia il modello di Dupin, il detective di Poe, giovane gentiluomo ridotto in povertà, amante dei libri e della

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 168-178)