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Il mondo di Leonardo Sciascia tra privato e pubblico

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 28-34)

Dopo Luisa Adorno e Antonio Motta, ho voglia anch’io di tenermi su un piano autobiografico, autorizzato da tanti ricordi, nella misura in cui autobiografia non è aneddotica, ma è voler almeno tentare di parlare del mondo di Leonardo Scia-scia tra privato e pubblico. Tra questi due livelli non vi è discrepanza e tanto-meno conflitto: per questo la moralità dei suoi comportamenti pubblici e privati non è genericamente politica, ma è una regola esistenziale che si inscrive pure nelle modalità della scrittura. È anche per questo che l’attualità della sua figura intellettuale e delle sue opere viene fuori sempre quando sentiamo il bisogno di un letterato che si impegni sul piano civile.

Come ho scritto altre volte, le sue opere, ancorché possano suscitare dissenso, appartengono a quella specie in cui Leopardi faceva rientrare i «libri elemen-tari» perciò degni, quantunque i suoi autori siano «spiriti liberi e irregolari», di diventare classici. Dare esemplarità alla sua stessa irregolarità è la scommessa di Sciascia, sia nell’invenzione letteraria, sia nell’azione politica. A parte il suo tirocinio antifascista a Caltanissetta, Sciascia esercitò il suo impegno intellet-tuale e la sua più intensa militanza politica negli anni Settanta, gli anni di mag-giore polemica con lo Stato, con ilPCI, da qui il Contesto, Todo Modo, Candido, L’affaire Moro e poi anche Atti sulla morte di Raymond Roussel e La scomparsa di Ma-jorana. In questi libri la ricerca della verità, il pessimismo sulla giustizia e lo Stato, la letteratura come sede della verità mettono in discussione la magistra-tura e la sua infallibilità, la posizione dello Stato, il centrosinistra e il compro-messo storico. Sciascia non fu certo un uomo politico ma un intellettuale, anzi un letterato che si occupava della politica quando questa coinvolgeva interessi primari della società e delle istituzioni. Da qui la sua attenzione, manzoniana-mente ma pure zolianamanzoniana-mente, sempre in funzione di una ricerca di verità, al problema della giustizia e della sua conduzione in rapporto alla società civile e allo Stato. Dai partiti e dai loro dirigenti pretendeva chiarezza ideologica e one-stà nei comportamenti. Solo la parola “compromesso” gli faceva venire l’aller-gia e sull’aggettivo “storico” si esercitava la sua ironia. Quanto ai compromessi “storici” palermitani, durante la breve esperienza di consigliere comunale della città di Palermo, non poteva sopportare che una riunione consiliare convocata per le prime ore del pomeriggio si svolgesse quasi a notte dopo dispersivi e di-speranti conciliaboli in corridoio tra maggioranza e opposizione.

Alla campagna elettorale per un “buon governo” di riforme partecipai anche io facendo dei comizi con lui: rischiai pure di essere eletto perché presi molti più

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voti di quanto me ne aveva attribuito la federazione cittadina delPCI. I dirigenti furono stupiti e pensarono a chissà quali manovre. Ma già allora c’era una parte di quella che poi sarà chiamata società civile che gradiva il modo in cui mi oc-cupavo di organizzazione culturale: io venivo da una grande esperienza napo-letana con Amendola.

Sciascia non è mai stato un militante del partito comunista e dunque i suoi comportamenti pubblici non potevano essere quelli di Renato Guttuso cui lo legò un rapporto, pure di stima e di amicizia, ma di fondo conflittuale.

A lui dedicò un ottimo saggio parlando del particolare realismo della sua «grande figurazione» e lì vi è anche un ritratto molto positivo dell’uomo. Per questo egli si sentì tradito due volte quando Guttuso non confermò per fedeltà di partito i termini del colloquio sul terrorismo e sulla politica estera tra Berlin-guer e Sciascia svoltosi in sua presenza. Guttuso infrangeva, secondo Sciascia, i vincoli di un’amicizia e soprattutto non si batteva in quel caso per la verità. Io sono stato più volte nello studio e a casa di Guttuso, qualche volta con Sciascia, e dal loro affettuoso stare insieme Sciascia non si aspettava certo un voltafaccia. Vero è che soffrirono tutti e due per questa separazione. Ma le ragioni della ve-rità per Sciascia erano imprescindibili.

Di altro segno l’amicizia con Bruno Caruso che è stata diversamente limpida, non ombreggiata e tanto meno appesantita dal ruolo di scrittore e artista im-pegnati.

Nello studio di via Mario dei Fiori, molto prima di quello successivo in piazza del Colosseo, aleggiava sempre un sorriso, un’ironia che direi brancatiana. Na-turalmente vi erano momenti attraversati da profonda indignazione per fatti di mafia o per le malformazioni della politica. Sciascia era affascinato non solo dagli straordinari disegni e pitture di Caruso, che tra l’altro questi ci donava genero-samente, ma soprattutto dalla sua cultura che spazia dall’antichità classica al-l’epoca medievale e su fino all’Ottocento e al Novecento. Sciascia viaggiatore tra i libri si godeva i vagabondaggi reali di Caruso per l’Europa, il Medio e l’Estremo Oriente che gli hanno permesso di seguire un corso di calligrafia persiana a Te-heran e di incontrare il generale Giap e Pham Van Dong. Godeva degli incontri di Caruso con Albert Camus, Thomas Mann, Igor Strawinski, Aurelio Millos. E ciò che gli piaceva era che Caruso di questi incontri parlasse senza presun-zione, senza iattanza.

La presenza di Sciascia in quello studio a Roma fu determinante per costi-tuire un cenacolo di amici alcuni stabili, altri di passaggio.

Tuttora questo avviene nello studio di piazza del Colosseo, ma l’assenza dello scrittore si percepisce anche fisicamente. I suoi commenti erano sintetici ma ful-minanti; e poi raccontava passando dalle piccole cose della sua Racalmuto a vi-cende editoriali di scrittori amici. Queste riunioni si scioglievano o nella tarda mattinata o nel primo pomeriggio, per andare per lo più, Sciascia, Caruso ed io, per antiquari, bancarelle, spingendoci a volte fino a Porta Portese. Anche a

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lermo, nelle gallerie d’arte “La tavolozza” e “Arte al Borgo”, riuniva intorno a sé amici e artisti a lui cari. A volte avvenivano scene paradossali di encomio e corteggiamenti: Leonardo pure tentato dal compiacersene, in realtà non amava gli sciocchi turibolari. Una sera a una signora, che voleva passare per intendi-trice di letteratura, venne in mente di affermare perentoriamente che i racconti di Sciascia erano più importanti e belli delle novelle di Verga. In galleria si fece un grave silenzio e pure io per un momento mi tacqui per poi esplodere: «Que-sti paragoni sono improponibili e sciocchi». E la cosa finì lì. Come di consueto più tardi, nell’accompagnare Leonardo a casa, allora si abitava vicini, io stavo sulle spine e cercai di spiegare le ragioni del mio scatto. Ma il grande amico mi interruppe: «Se tu non avessi fatto quelle osservazioni, non avrei riconosciuto il buon amico e il buon critico che sei». Credo che pochi scrittori d’oggi, amanti delle adulazioni più sfrenate, si comporterebbero in questo modo.

Anche nei rapporti privati egli metteva quelle doti, insieme umane e intel-lettuali, che si evidenziano come moralità e ironia. Tra serietà e scherzo è la dedica con la quale egli mi regalò una copia rara delle Riflessioni politiche intorno all’efficacia e necessità delle pene di Tommaso Natale marchese di Monterosato1: «A Natale (Tedesco) / questo libro di Natale (Tommaso) / nel Natale 1970 / con tanti auguri per la sua “recherche” siciliana, / dal suo Leonardo Sciascia».

Alla fine dello stesso dicembre 1970 sarebbero uscite le mie Testimonianze Si-ciliane con la dedica: «a Leonardo Sciascia una prova di speranza», dedica che si giustificava con il profilarsi degli anni difficili che dovevamo affrontare. Pe-raltro, al di là dello scherzo, erano i contenuti di quel libro che Sciascia mi sot-tolineava, e questo mostra come la tematica della morte in specie dovuta a pene corporali, alla pena capitale, era ben radicata in lui, e la meditazione di opere come quella del Natale o gli Avvertimenti cristiani di Argisto Giuffredi stanno alla base già del suo Consiglio d’Egitto e poi del più tardo Porte aperte. Chi legge ora Porte aperte deve sapere che questa difesa che Sciascia fa del-l’uomo, questo suo opporsi alla pena di morte, alle pene corporali, egli li aveva trovati nella tradizione siciliana a partire dal Cinquecento e poi dal Settecento, via via fin quando in lui s’incorpora e si enuclea con maggiore consapevolezza in posizione di forza. Essa non è legata esclusivamente alle polemiche del mo-mento; il garantismo di Sciascia, insomma, è sotto il blasone di questa grande e singolare tradizione.

Nella sua casa, in contrada Noce, a Racalmuto, sono stato più volte anche per accompagnare dei visitatori, o dei giornalisti che volevano intervistarlo. Leo-nardo, che non mangiava nulla fuori dei pasti, a tavola non disdegnava mani-caretti speciali, i dolci agrigentini della pasticceria Amato, se non ricordo male. E ciò divertiva i suoi commensali, fino ad un momento prima colpiti dal parco eloquio. Anche lui veniva a Villa Palagonia. Ma chi dei suoi sodali intellettuali non veniva a Palagonia? Anche Borges volle ‘sentire’ questo luogo. L’ultima volta che accompagnai Leonardo nella sua visita fu in occasione di una

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nenza di Italo Calvino a Palermo. Si può dire che l’intensità del loro interesse, dei loro sguardi curiosissimi, fossero compensati da lunghi silenzi colmi appunto di silenti interrogativi. Ben sapendo del mio attaccamento alla dimora di mia madre e di me fanciullo (cui poi avrei dedicato un grosso volume) mi regalò un’sione originale di Houel, raffigurante l’antico arco di ingresso della villa, inci-sione comprata a Parigi in una bancarella sulla Senna.

La generosità umana di Sciascia era grande puntuale e generalizzata, sia quando regalava acqueforti e libri delle opere che ciascuno aveva desiderato da sempre, sia quando regalava consigli editoriali: un consulente privato ge-nerosissimo ai grandi e piccoli operatori del settore che hanno goduto gratis in-tere edizioni dei suoi libri. Questi sono pochi aneddoti minimi sull’uomo Sciascia, ma da essi si può partire per spiegare l’intellettuale Sciascia e il suo rapportarsi alla realtà del nostro tempo con un peculiare anticonformismo cul-turale e pure politico, basti pensare ai diversi casi dell’Affaire Moro, dell’affare Tortora: sempre polemista generoso fino all’ingenerosità e all’intransigenza, pure verso se stesso.

In un luogo centrale di uno dei suoi ultimi libri, Ore di Spagna, da me curato, si legge perentoria l’affermazione che «la letteratura è figlia della verità» e noi sappiamo che è un caposaldo della poetica di Leonardo Sciascia. Tale convin-zione si enuncia e si realizza all’interno del concreto esercizio dello scrivere, dove per esempio si evidenzia come la bellezza della parola è tutt’uno con la verità della parola, per cui, nel suo farsi atto di significazione plurima, può as-sumere un valore sia letterario che civile (si rileggano fra i suoi primi racconti L’antimonio e La sesta giornata). E ciò spiega pure il rapporto intrinseco che nel mondo di Sciascia si istituisce tra privato e pubblico.

Note

1T. NATALE, Riflessioni politiche intorno all’efficacia, e necessità delle pene, Palermo, Stam-peria Bentivegna, 1772.

PUBBLICO E PRIVATO

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OMENICA

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Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 28-34)