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Mio figlio mi pedina

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 110-116)

Nel 1912, quando mio figlio Edoardo aveva due anni, mi capitava spesso la sera di affacciarmi al balcone insieme all’amico Casalini. Né lui socialista né io radicale avevamo letto Marx, ma la nostra amicizia era stata messa mille volte in pericolo dalle violente leticate sui libri di questo filosofo. I diverbi si svol-gevano di mattina all’ufficio o di pomeriggio al caffè; la sera, quando appog-giavamo i gomiti sulla ringhiera del mio balcone, io mi sentivo una gran voglia di abbracciare, non soltanto l’amico che mi stava accanto, ma anche le sue idee, ed egli, da parte sua, borbottando dei «però… a volerci riflettere… natural-mente, quello che dici tu», mi faceva capire che in quel momento stava pro-vando un fortissimo e inconfessabile piacere a pensare con la mia testa. In verità l’antipatia verso i ricchi, alla quale egli si abbandonava con tutto il cuore, era assai più debole dell’odio verso i ricchi che io riuscivo a comprimere ogni minuto, per quel dovere, che ho sempre sentito, di non odiare nessuno. Ma di sera, al buio, affacciati sulla strada formicolante di cenciosi che applaudivano alle chitarre dei loro poveri barbieri a cui non erano riusciti a pagare il taglio dei capelli del mese avanti, e suonando gli uni ascoltando gli altri dimentica-vano insieme il loro debito e il loro credito, Casalini ed io facevamo mille im-maginazioni sul palazzo che ci stava davanti, tanto simile a una galea coi ricchi, inebriati d’aria e di luce, sulla tolda, gli sciagurati privi di respiro nelle stive.

Rientravamo nella sala da pranzo e subito, guardando i miserabili oggetti di cui era ammobiliata la mia casa, egli scoppiava in una tremenda difesa di me stesso: «Un lavoratore come te», diceva, rivolgendo sguardi scrutatori su mia moglie che lo ascoltava rapita, «non può nemmeno comprarsi una sveglia! Dove la guarda, l’ora, la tua signora?». Io gl’indicavo in silenzio l’orologio il-luminato del Tribunale. «E i libri, dove li tieni? Nel fumo della cucina! E le sedie, i letti?... Sono queste le sedie e i letti di un uomo intelligente e laborioso come te?».

«Non voglio uno stato tirannico!» ribattevo io fumando la pipa, e lo pregavo di non difendermi troppo.

Nei giorni in cui la povertà si faceva sentire gravemente, io invitavo a casa l’amico Casalini e lasciavo che la mia sveglia ferma, le sedie rotte, i libri senza librerie venissero rinfacciati come delitti nella sua tremenda tirata contro la so-cietà borghese.

Sicché, quando nel 1934 egli fu arrestato e condannato a vent’anni, io piansi per venti notti di seguito, e mia moglie mi diceva: «Prima di tutto mi sembra esagerato che tu debba piangere per un estraneo… e infine, se vuoi piangere, hai tanto tempo di giorno…».

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La mia casa m’era diventata insopportabile, per la mancanza del mio amico e specialmente per l’autorità che vi aveva assunto mio figlio Edoardo. Dal ’30 al ’43 io sono stato considerato dalla mia famiglia un vero e proprio rimbam-bito.

«Ascolta, papà», mi diceva Edoardo leggendo un giornale: «“Questo è il tempo in cui si fondano le città e si redime la terra!”». Dal moto di ripugnanza che mi torceva subito lo stomaco, capivo che quelle parole erano del capo del governo. «Non senti che in questo discorso c’è più poesia che nei versi di Leo-pardi?».

«No, non lo sento».

«Ma come? Parole così semplici che descrivono fatti degni dei tempi di Omero… “Si fondano le città, si redime la terra”… Non ti piacciono?».

«No!».

«Tuo padre è un vecchio! Lascialo stare!» gridava mia moglie dalla stanza accanto.

Edoardo raccattava il giornale con un sorriso di disprezzo e tornava a leggere per conto suo le parole che aveva letto a voce alta. Ammettevo di non capirlo, ma una sera fece una azione che capii benissimo. Capii quanto fosse brutta. Da una settimana, veniva da noi il farmacista Casalini, fratello del mio amico arrestato, e parlavamo insieme… immaginate in quali termini! Edoardo, lo seppi da lui stesso, mandò la seguente lettera al segretario federale:

«Come fascista ho il dovere di segnalarti che bisognerebbe sorvegliare il far-macista Casalini». Tre giorni dopo, il farfar-macista era deferito alla commissione per il confino. Io montai su tutte le furie: «Ma come? Denunziare un ospite! Una persona!» gridavo da una stanza all’altra. «Fare la spia!».

Mia moglie stava zitta e guardava Edoardo. Io passeggiavo nervosamente, fermandomi di tanto in tanto per sentire se finalmente egli fosse scoppiato a piangere. D’un tratto, m’arrivarono queste parole: «Caro papà, denunzierei anche te se lo ritenessi necessario alla Causa che servo!».

«E denunziami!» urlai fuori di me. «Denunziami subito! Meglio in carcere coi galantuomini che fuori con persone come te!».

«Non ti denunzio perché sei innocuo» fece egli col solito sorriso di disprezzo. Andai a denunziarmi io stesso; ma invece di arrestarmi mi lodarono come padre di un giovane di valore e mi consigliarono un mese di riposo come la-voratore dalla mente indebolita.

Cominciai a passare le serate passeggiando nel parco semibuio insieme ad altri miei coetanei considerati rimbambiti a casa loro.

Scoppiò la guerra. Mio figlio s’imbarcò come giornalista e descrisse ogni giorno la flotta italiana, annunziando ogni giorno ai lettori del suo giornale che dormissero tranquilli perché l’Inghilterra era uscita dal Mediterraneo. Nel 1942 fu mandato in Russia e descrisse la fine dell’esercito sovietico. Un giorno però descrisse un «colcoz» in un modo singolare: si sarebbe detto che lo

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mirasse. Dopo quella corrispondenza, non lessi più la sua firma e non ebbi più sue notizie.

Nel 1943, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, riacquistai un po’ di credito in casa mia e lo mantenni per alcuni mesi. Mia moglie mi diceva piangendo che avevo ragione e pregava la Madonna che facesse morire tra atroci spasimi gli uomini che avevano portato il loro Paese alla rovina e chiuso in carcere suo fi-glio. Perché Edoardo era stato arrestato dai fascisti. Io piangevo di ansia per la sua sorte e insieme di consolazione. Sognavo il giorno in cui sarebbe tornato, con la mente finalmente uscita dal gelo dei vent’anni, umano, comprensivo, amabile, generoso, leale. Nei miei sogni, lo vestivo delle più care virtù. Seppi che le sue idee erano di sinistra, e il mio pensiero corse subito al mio vecchio amico Casalini.

«Pazienza, litigheremo di giorno», mi dicevo commosso, «e la sera, affacciati al balcone, avremo una grande voglia di abbracciarci!... E poi, dico la verità: mi piacerebbe risentire un bel discorso contro l’ingiustizia che io abbia a casa mia dei mobili così sconquassati!».

Nel 1945, Edoardo tornò a casa. Ma quanto diverso da come lo avevo so-gnato e quanto simile all’Edoardo che conoscevo! Nes-suna umiltà nei miei confronti e nessun ravvedimento; appena un po’ d’affetto, accompagnato da un’aria di commiserazione per la debolezza della mia mente. Eccolo di nuovo alzare la voce: il fascismo sarebbe stato un bene, se fosse stato quello che egli immaginava; e in ogni modo non era stato un male per le ragioni che portavo io: il suo nuovo Credo non potevo capirlo… Io tornavo ad essere in casa mia «quello che non capisce».

Il Signore volle confortarmi di questa nuova delusione facendomi riabbrac-ciare il mio amico Casalini, finalmente liberato dalla prigione. Oh vecchiezza maledetta, come ci rendesti buffi quel giorno! Io mi sentii mancare le ginocchia e caddi sul tappeto, Casalini, accecato dalle lacrime, non sapeva dove io fossi e brancolava nella stanza illuminata come nel buio più fitto. E tutto questo sotto il sorriso ironico di Edoardo.

Casalini ha velato di molti dubbi i suoi furori politici, e viene considerato da Edoardo un «traditore del popolo»; ma non ha perduto l’umore d’un tempo e spesso la sera, giocando a carte, ci scambiamo degli scherzi che non fanno mai ridere il mio tetro e disgraziato figlio. Davanti alla sua faccia, che la giovinezza ha passato in fretta alla vecchiaia, come un oggetto del quale non sapesse che farsi, anche noi tratteniamo il riso. E da un anno ho preso l’abitudine d’incon-trarmi col mio amico in un circolo di cacciatori. Qui convengono altri uomini della mia età e qui non abbiamo vergogna di mostrarci lieti e burloni nei mo-menti in cui gli acciacchi ce lo consentono.

Mio figlio mi ha domandato spesso: «Dove vai, la sera?». E io gli ho risposto in modo vago perché so che fa parte di una «cellula» e informa minutamente non so chi di tutte le nostre risate che per lui, a quel che ho capito, suonano

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fesa a non so chi altro. La mia risposta vaga lo ha messo in sospetto; ed egli, da tre giorni, si è dato a pedinarmi.

Anche oggi, mentre rasento il muricciolo di una casa distrutta, percepisco il suo passo alle mie spalle.

Mentre mi sbizzarrisco a farlo fermare di soprassalto e poi a fargli accele-rare il passo e poi a farglielo rallentare, perché sono io in fondo che comando questa marcia in fila indiana, mille tristi pensieri affollano la mia mente…

In città accusano Edoardo di volubilità e incoerenza per il fatto che è pas-sato da un partito all’altro. E invece la sua mala sorte gli è che è sempre lo stesso, e non ho speranza che cambi: generosità, pietà, lealtà, allegria, genti-lezza, comprensione, oggi come ieri, gli rimangono estranei; per la Causa che serve, oggi come ieri, è disposto a denunziare suo padre; i popoli, la cui vita è finemente regolata dalle libere opinioni, oggi come ieri gli riescono odiosi. E così, con questi sentimenti, indossando una giacca a vento di soldato ameri-cano, un basco nero che gli rimane sul cocuzzolo, un paio di scarpe di soldato inglese, e fumando le sigarette americane che gli regala un marchese, amato, ma non amante delle donne, col quale compila la rivista Orrori della libertà per la cui copertina ha fotografato da tutte le parti il ciabattino che mi risuola le scarpe, Edoardo mi segue di strada in strada.

Perché è venuto su in questo modo? Non sarà mia la colpa? Ho forse con-dannato con troppa severità la delazione, la tetraggine, l’impotenza di com-prendere e compatire, perché il Signore abbia voluto incarnare questi difetti, anch’essi umani, nel corpo che mi suscitò maggior tenerezza coi suoi primi va-giti, e anche ora me ne suscita quando, per ragioni di salute o per caso, gli sfioro la guancia con la guancia?

Mi fermo di botto, e anche il passo di mio figlio s’arresta. Il vicolo cade nel silenzio. Guardo il cielo e mi faccio il segno della croce. La volontà del signore è misteriosa: ci sarà pure una ragione che io debba avere per figlio uno stu-pido.

Così sconfortato, riprendo a camminare. E dietro di me, con le sue scarpe da soldato inglese, anche mio figlio si rimette in cammino.

Da “L’Europeo”, IV, 50 (163), 12 dicembre 1948. In occhiello: «Gli anni difficili continuano per i padri». Vitaliano Brancati

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