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Cronache scolastiche di Regalpetra: quando la scuola è dei poveri

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 66-78)

In un incontro di studi che tocca il tema dell’eredità di Sciascia da molti punti di vista, per la letteratura, la scrittura, la lingua, l’interpretazione del reale, è da spiegare perché possa essere interessante guardare alle Cronache scolastiche, un testo-sezione delle Parrocchie di Regalpetra che costituisce un unicum nella produzione sciasciana, non caratterizzato dalla serialità e dalla notorietà po-stuma di altre opere (inchieste, gialli), ancora oggi molto lette.

In verità noi possiamo parlare di eredità di un’opera in diversi modi: eredità è ciò che resta, come lingua salvata e come modello di scrittura letteraria e di azione intellettuale. Ma, anche quando c’è una caduta nel silenzio, quando un’opera non diventa un modello immediatamente riconoscibile nella “lingua salvata” da altri, ci sono in letteratura i motivi per riemergere dal silenzio e mettersi a rileggerla. Come scriveva Ingeborg Bachmann, ogni opera letteraria, come miscuglio di cose passate e cose che ritroviamo, è sempre un regno aperto sul futuro e fa in modo che ciò che ha già preso forma grazie al lin-guaggio «partecipi di ciò che non è stato ancora detto»; ogni testo «apre una la-cuna che noi colmiamo dandole una possibilità»1.

E questo vale per ciascun testo rispetto ai successivi dello stesso autore, che colma nel tempo le domande che si era posto, e per ciascuna opera d’autore ri-spetto a quelle che verranno poi, volgendo lo sguardo alle stesse domande e agli stessi contesti, pur nell’evoluzione temporale.

Che le Cronache scolastiche, all’interno del macro-testo Parrocchie di Regalpetra, costituiscano un nucleo fondante, nel quale Sciascia al contempo «inventa e trova se stesso»2; un nucleo da cui si irradia la relazione che Sciascia instaura e instaurerà anche in seguito tra soggetto narrante, cristallizzazione letteraria ed esperienza concreta, tra verità e scrittura, è cosa non solo acclarata criticamente, ma evidenziata dalla stessa storia editoriale del testo. Come lo stesso scrittore ci racconta nella prefazione all’edizione del 1967 per Laterza, egli nell’anno 1954, a fine anno scolastico, mentre, giovane maestro elementare di Racalmuto, tra-scriveva sul registro la sua relazione finale, fu colto dall’idea di scrivere una cronaca “vera” di un anno di scuola intero. Qui l’attributo “vero” si contrap-pone all’artificioso e perfetto burocratichese delle scritture scolastiche.

L’opera è sottoposta a Calvino nell’autunno, che la destina alla rivista “Nuovi Argomenti”, su cui le Cronache escono, nel n. 12 di gennaio-febbraio del 1955. Ma le Cronache spingono Vito Laterza a suggerire a Sciascia un intero libro sulla vita di un paesino siciliano: e in effetti, una volta che si era deciso a

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fare i conti con questa sua realtà originaria, Racalmuto diventata Regalpetra, allo scrittore non è difficile risalire alle cause storiche recenti e remote che l’hanno generata. È quanto avviene negli altri capitoli: La storia di Regalpetra, Breve cronaca del regime, Sindaci e commissari, Diario elettorale; il libro, bell’e pronto nel 1956, non senza incoraggiamento di Tommaso e Vittore Fiore, esce nella collana Libri del Tempo e si colloca al fianco di testi come Un popolo di for-miche di Tommaso Fiore o Contadini del sud di Rocco Scotellaro, o alle inchie-ste di Bianciardi e Cassola sui minatori della Maremma. Non stupisce perciò che Le parrocchie venissero interpretate da subito come saggio-denuncia, come un libro che contribuiva alla costruzione di un nuovo meridionalismo e alla comprensione della realtà nazionale a partire dal livello locale. Alla metà degli anni Cinquanta, ormai lontani dal neorealismo di maniera, estetizzante, ci si appuntava sul realismo tout court, come scrive Ambroise, senza che questo fosse stato definito con una riflessione estetica vera e propria (si pensi che Mi-mesis di Auerbach esce solo nel 1956).

Scrive Vittore Fiore, recensendo il libro nel 1956:

Socialismo, decentramento, democrazia sono termini vuoti di ogni significato se non li confrontiamo con le varie esperienze storiche e culturali delle regioni e dei comuni, delle diverse tradizioni.

Dunque, secondo Fiore, un libro necessario per le sorti del nostro vivere ci-vile, per impostare una lotta politica moderna, un libro nel quale

ti accorgi che bisogna cominciare da lì, da Regalpetra, per risalire le vie di una nazione distante e lontana, di un’Europa ancor più lontana, avvolta nelle neb-bie del cosmopolitismo […]. Sciascia sa che si è veramente europei nella misura in cui si è meridionalisti, lo sa come scrittore, come poeta, come uomo moderno. Regalpetra è l’Italia, è l’Europa4.

Sul senso saggistico, di denuncia della sua opera, è lo stesso Sciascia ad aval-lare il giudizio:

Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione5.

Ed una vera e propria «nevrosi da ragione», ragione come valore, raziona-lismo come scelta ideologica contrapposta all’impostura, affliggeva l’autore in quegli anni – come egli confessa alla Padovani nell’intervista Sicilia come me-tafora6.

E basti questo sui rapporti in orizzontale tra Le Parrocchie e altre opere coeve. Ma andiamo ad una considerazione in verticale dell’opera, alla sua apertura

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verso il futuro; a me sembra che le Cronache scolastiche, per noi lettori “po-stumi”, possano essere collocate almeno in due linee:

I. Da un lato esse rappresentano – lo dice bene Massimo Onofri nella sua Sto-ria di Sciascia7– il prius logico e cronologico delle Parrocchie prima e dell’opera sciasciana poi: come affermerà lo stesso autore, nella succitata prefazione del 1967, in questo libro sono contenuti tutti gli altri suoi libri, libri che in tutto ne fanno uno, cioè

un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati8.

E la citazione verghiana – la fiumana del progresso che travolge i vinti – non può sfuggire al lettore attento.

E infatti già nelle Cronache, come nel resto delle Parrocchie, troviamo a batte-simo tutte le successive investigazioni storiche, la materia criminale – «questo è un paese di mafia […] e uno spiffero di mafia entra anche nella scuola»9– che nutrirà il genere del giallo-inchiesta, e soprattutto gli atti di “scomoda” de-nuncia sociale e politica, contro lo Stato e il Potere, l’istituzione metafisica della burocrazia («e come istituzione metafisica bestemmiata, trova un vertice di con-sacrazione nella firma»10) per i quali Sciascia si distinguerà fino alla morte:

Vengono a scuola i ragazzi dopo che la famiglia riceve la cartolina di precetta-zione con citati gli articoli di legge e ricordata la multa; la posta non porta loro che di queste cartoline, per andare a scuola per il servizio di leva per la tassa. Spesso la cartolina non basta, il direttore trasmette gli elenchi degli inadem-pienti all’obbligo scolastico al maresciallo dei carabinieri; il maresciallo manda in giro l’appuntato a minacciare galera e – io vi porto dentro – i padri si rasseg-nano a mandare a scuola i ragazzi. […] E allora a me, maestro pagato dallo Stato che paga anche il maresciallo dei carabinieri, veniva voglia di mettermi dalla parte di quelli che non volevano mandare a scuola i figli, di consigliarli a resis-tere, a sfuggire all’obbligo. La pubblica istruzione! Obbligatoria e gratuita, fino a quattordici anni; come se i ragazzi cominciassero a mangiare soltanto dopo…11.

A proposito della denuncia a mezzo letteratura, viene in mente quel che Scia-scia – come ricorda Traina – dichiarerà anni dopo, in La palma va a Nord: la let-teratura è l’unica forma di conoscenza possibile di una realtà che sempre di più sfuma nel letterario:

io credo che all’uomo, l’uomo umano, rimanga solo la letteratura per riconoscere e conoscere la verità. Il resto è soltanto macchine, statistiche, totalitarismo. È il sistema della menzogna12.

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Ed effettivamente Sciascia su Racalmuto rompe un silenzio di secoli, una pa-lizzata di mutismo e diffidenza13. In tutta l’opera, la potenza della letteratura come strumento di interpretazione e denuncia della realtà viene esaltata; ad esempio, un capitolo, come Sindaci e commissari, non ha di certo nulla da invi-diare al più recente saggio di sociologia politica, e come tale andrebbe letti per comprendere le modalità assunte ancor oggi, in Sicilia, in Campania, in Italia, da antichi vizi come il consociativismo, la pratica delle collusioni e dei com-missariamenti, il gioco delle parti tra i partiti. Quella di Sciascia è una lettera-tura che riproduce la verità e che al tempo stesso la produce, cioè la reinventa attraverso la tensione della lingua e della scrittura letteraria. Ben vide Pasolini l’importanza nelle Parrocchie dello stile vigoroso e disadorno, a tratti fuori mo-da: uno stile pluristratificato, di matrice regionale – informale nella fraseolo-gia ma felicemente ipotattico nella sintassi – perfettamente aderente alla realtà narrata14.

Certo, rispetto a Verga – la cui presenza come modello è molto più “inva-dente” dei contemporanei Dolci e Scotellaro – non c’è in Sciascia la sicurezza dell’intellettuale certo della propria collocazione. Il Verga di Vita dei Campi e de I Malavoglia è già risalito da quel mondo che narra, ne è molto lontano, e può assumerlo come condizione eterna e immutabile; Sciascia al contrario è ai suoi inizi di scrittura, e, come vedremo, quel mondo se lo sente ancora vicinissimo, suscita in lui un’ansia divorante di riscatto umano.

II. La seconda linea è quella che fa delle Cronache scolastiche un testo di scon-certante attualità, quasi spiazzante. Esse infatti – ed è questo il punto di vista su cui vorrei soffermarmi – si collocano come un inizio anche all’interno di una linea narrativa, anzi di una tendenza della letteratura contemporanea, che fa del racconto di scuola, del tema dell’educazione e dell’esperienza del mae-stro, uno specchio, un focus per la rappresentazione della società e delle sue storture e imposture.

Di questo filone l’opera di Sciascia non ha il peggiore dei difetti, che è l’au-toreferenzialità, la quale ha comportato negli anni la progressiva trasforma-zione del racconto di ambientatrasforma-zione scolastica in un genere di corto respiro, o per addetti ai lavori, o, il che è peggio, in un modo in cui insegnanti-scrittori si auto-rappresentano (in una sorta di compensazione consolatoria) e narrano di sé senza alcun distanziamento dalla materia narrata, spesso con una punta di narcisistico vittimismo.

Anche Sciascia si pone duramente al principio, parlando di sé:

Non amo la scuola e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Non nego che in altri luoghi e in diverse condizioni

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un po’ di soddisfazione potrei cavarla da questo mestiere di insegnare. Qui, in un remoto paese della Sicilia, entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie15.

Il punto di vista è netto: una discesa negli inferi, la scuola in Sicilia, una dura presa di posizione contro il buonismo e la retorica pedagogica il suo racconto. Commenta Luigi Cattanei: «La professione di sfiducia nelle scuole può sgo-mentare solo chi si ostini a separarla dal contesto etico dell’antitesi ragione-impostura. Nell’aula siciliana Sciascia avverte la distorsione e inaugura una stagione contestativa; legge l’assurdo della società nei visi e nei modi dei suoi scolari, nelle presenze “formali” dei suoi colleghi. […] La scuola risulta spec-chio, non maestra di vita»16.

Cito un altro passo significativo, nel quale si manifesta la potenza di una scrittura che coniuga ironia sferzante, e “spietata pietà” (così Trombatore, re-censendo l’opera17); si parla dei ragazzi ritenuti irredimibili e confinati in classi-ghetto:

A me, non so se perché il direttore confida nelle mie positive qualità o, al con-trario, perché mi ritiene affatto sprovveduto, tocca di solito una classe di ripe-tenti. Se mi ritiene capace di risollevare le condizioni della classe, il direttore si illude di certo, come si illuderebbe su chiunque altro, nessuno essendo capace di un miracolo simile; se invece intende dare un calcio alla classe, mandarla al diavolo, e me con la classe, bisogna riconoscere che concretamente capisce le cose della scuola […] Da sei anni, da quando ho cominciato ad insegnare, mi pare di avere sempre la stessa classe, gli stessi ragazzi. Il fatto più vero, di là dalle scolastiche valutazioni, è che non una classe di asini o di ripetenti mi tocca ogni anno, ma una classe di poveri, la parte più povera della popolazione sco-lastica, di una povertà stagnante e disperata. I più poveri di un paese povero […]. E io me ne sto tra questi ragazzi poveri, in questa classe degli asini che sono sempre i poveri, da secoli al banco degli asini, stralunati di fatica e di fame18. Anche stavolta, in questo racconto della scuola che si fa specchio della re-altà, come in molte delle sue opere e dei suoi interventi, Sciascia gioca d’anti-cipo: non dimentichiamo che le Cronache arrivano alcuni anni prima della deprimente rappresentazione della vita impiegatizia offertaci dal Maestro di Vigevano di Mastronardi nel 1962, ben 10 anni prima della denuncia attiva e prorompente della scuola di Barbiana, che attaccava la perpetua coincidenza tra la scuola degli asini e la scuola dei poveri. La lettera a una professoressa esce nel maggio del 1967 (e di lì a poco Sciascia ristampa le Parrocchie e prende le distanze, nella prefazione, da ogni lettura positiva, “stalinista”, dei suoi per-sonaggi)19.

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toreferenzialità, l’inconsistenza di un sogno ideale, la scuola inclusiva di de-mocrazia, la realtà di una istituzione deludente e disorganizzata, lontanissima dai suoi obiettivi, nella quale la vacua retorica delle parole – incarnata nelle fi-gure del direttore o dell’ispettore – e i proclami burocratici non cancellano le disparità, le differenze sociali e il destino subalterno dei figli dei poveri20.

E assai prima della scuola di Barbiana, delle opere di Don Lorenzo Milani, le Cronache sono uno dei più incisivi attacchi all’inefficienza del sistema di istruzione in quegli anni. La critica ad una macchina che ratificava le diffe-renze invece di annullarle, che faceva della scuola sin da allora un parcheggio, non un’opportunità, e che non rispondeva in alcun modo ai bisogni reali dei suoi destinatari, che a Racalmuto sono bisogni materiali (come la mensa, di cui si descrive il rancio disgustoso, e nemmeno destinato a tutti).

Memorabili le pagine in cui lo scrittore tratteggia dal vivo i suoi studenti, in-tenti a infilare per gioco lamette metalliche nei banchi mentre parla il prete, a impiegare il tempo libero con i lavori più umili, oppure a prendere in giro l’ispettore, bestemmiando e litigando, che è un modo per reagire al degrado della propria condizione e forse un costume che anticipa gli atteggiamenti ma-lavitosi di chi (implicitamente lo si comprende) diventerà entro breve tempo manovalanza della mafia:

io li incontro per strada, i miei alunni, mentre gridando domandano chi ha uova da vendere, li vedo intorno alle fontane che litigano e bestemmiano aspettando il loro turno per riempire le grandi brocche di creta rossa, in giro per le botteghe. Poi li ritrovo dentro i banchi chini sul libro o sul quaderno a fingere attenzione, a leggere come balbuzienti. E capisco benissimo che non abbiano voglia di ap-prender niente21.

Dieci anni dopo, in una lettera di Don Milani (3 agosto 1966) leggiamo: «La scuola sarà sempre meglio della merda. Lo dice un ragazzo, per esprimere che prima di venire a scuola qui doveva sconcimare la stalla a 36 mucche». Qualcosa si è mosso, forse, in quei dieci anni. Ma non troppo, e non dappertutto, come di-mostrano a tutt’oggi i dati sulla dispersione scolastica nel Mezzogiorno.

Sia chiaro, non è mia intenzione instaurare alcuna relazione superficiale tra opere di segno e taglio profondamente diverso, ma piuttosto isolare qualche nodo di affinità e continuità che spiega perché il genere del racconto, della cro-naca di scuola, diventerà così vitale, tra le forme della scrittura che si relaziona con la verità: e il focus su cui vorrei appuntarmi è il tema del risentimento mo-rale e civile, che si manifesta nelle Cronache quando lo scrittore commisura la sua vicenda personale a quella della collettività di cui si è parte. E che rimanda da vicino al tema della responsabilità.

Accade infatti che nell’opera la materia narrata costringa il narratore a ride-finire la relazione – o per meglio dire il conflitto – tra il ruolo sociale, quello di

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maestro (che tende a distanziarsi da ciò che vive) e il suo status, quello del-l’intellettuale, che invece sente la responsabilità che, all’interno della narra-zione, gli deriva dall’esser tale. Ha scritto Ambroise:

Se uno del paese che come mestiere fa il maestro si mette a scrivere del paese cosa cambia? Per il paese nulla, è realtà che permane. Ma per chi scrive il paese non è più lo stesso, cioè realtà quotidiana esperita, ma verità22.

Ne deriva una condizione di disagio esistenziale e morale, il disagio di chi vive la duplice condizione del maestro e dell’uomo di cultura: e si colloca su un bordo, sull’orlo tra le due, documentando dall’esterno tutto l’assurdo che si vive all’interno. Ma la prima condizione, quella di maestro, non può (come os-serva felicemente Massimo Onofri23) non incidere sulla seconda e caricarla di significati, rendendola problematica, inquieta e inquietante.

A volte il passaggio lungo il “bordo” avviene all’interno della stessa pagina:

Forse è come quando si entra in una sala anatomica; c’è chi ne viene fuori scon-volto e non ci metterà più piede, chi invece vincerà la prima impressione e len-tamente si abituerà. Poiché non sono ancora scappato, credo mi abituerò. Ma non sarà come per chi studia anatomia, che acquista conoscenza. Se io mi abi-tuerò a questa quotidiana anatomia di miseria, di istinti, a questo crudo rap-porto umano, se comincerò a vederlo nella sua necessità e fatalità, come di un corpo che è così fatto e diverso non può essere, avrò perduto quel sentimento, speranza e altro, che credo sia in me la parte migliore24.

A credere di essere pronto ad «abituarsi» è il maestro protagonista, ma a rea-gire, dopo poche righe, è lo scrittore, che testimonia angustiato il fondo oscuro che si cela dietro ogni fatalistico adattamento.

Il disagio del maestro assume a sua volta una fisionomia complessa: non solo vi incide il senso di inadeguatezza, lo scoramento umano di cui si è detto; esso è anche manifestazione di un complesso di inferiorità, in cui affiora la frustra-zione di chi, già agli inizi della seconda metà del Novecento, ha interiorizzato il senso della sconfitta, vedendo retrocedere la propria posizione nella scala sociale e avvertendo la propria sostanziale ininfluenza in un mondo che si di-rige verso altri valori. Troviamo già in queste pagine la fotografia della mar-ginalità, dell’impiegato sottopagato che, avvertendo con nettezza questa condizione, vorrebbe farsi indifferente al degrado che lo circonda. È il tema che con sviluppi differenti seguirà Lucio Mastronardi, contrapponendo, nel-l’Italietta del boom economico, la triste figura del maestro elementare alla pic-cola borghesia imprenditoriale delle fabbrichette del Nord, grassa e rozza. Rispetto a Mastronardi, però, nel Sud di Sciascia c’è un elemento aggiuntivo, che aggrava il senso di emarginazione: infatti chi è il maestro in Sicilia? È sì un

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poveraccio, ma non per il paese: per i veri poveri, egli è il rappresentante di uno Stato vissuto come nemico, estraneo, è come il carabiniere. Insomma, un po-veraccio che non può dirsi tale. Doppiamente escluso.

Pochi sono i ragazzi che mi si affezionano e, benché io ne senta il disagio, so che non c’è ragione perché in loro nasca un sentimento di affetto. Io sono lontano da

Nel documento ISBN 978–88–6719–000–3 (pagine 66-78)