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7. Beni fondiari di altre famiglie dell’aristocrazia laica in Tuscia: una panoramica (X inizio XII secolo)

7.1 Gli Aldobrandesch

È opportuno cominciare dalla famiglia di titolo comitale per la quale disponiamo di una monografia completa, ovvero gli Aldobrandeschi studiati da Simone Collavini: il volume113, centrato soprattutto sui nessi tra detenzione di uffici pubblici, possesso di un cospicuo patrimonio fondiario ed evoluzione dei poteri signorili, passa in rassegna i documenti che ci informano sull‟ubicazione e (in qualche caso) sull‟estensione e sulle caratteristiche delle proprietà aldobrandesche.

Nella parte iniziale del lavoro di Collavini si mette in luce come i beni dei discendenti di Ildebrando si collocassero, nel IX secolo, essenzialmente in quattro aree: quella immediatamente

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circostante Lucca, la zona meridionale della diocesi cittadina, l‟insieme di possessi centrati su «Asilatto» (alla foce del fiume Cecina) e, infine, le diocesi di Roselle e Sovana114.

Dalle pagine del libro risulta che le forme di gestione e di organizzazione variavano a seconda della localizzazione geografica dei nuclei patrimoniali: in Lucchesia, dove densità demografica e livello di antropizzazione della campagna erano alti, la proprietà si presentava frammentata (tanto più quanto maggiore era la vicinanza alla città) e poche sembrano essere state le

curtes coese sotto il profilo territoriale ed organizzativo (tra queste ultime bisogna ricordare Marlia,

San Pietro a Vico a nord e a nord-est di Lucca e Tufolo, in Garfagnana). Nel sud dell‟attuale Toscana, invece, in un‟area scarsamente popolata, le condizioni erano favorevoli «per la costruzione di efficienti aziende curtensi»115: si noti, tra l‟altro, che proprio la limitata presenza di uomini e, conseguentemente, di agglomerati urbani costituisce il dato di base a partire dal quale è possibile comprendere le ragioni di creazione e mantenimento delle cellae di San Salvatore al Monte Amiata, site nella medesima zona, se non una delle cause della fondazione stessa del cenobio. Per questo, comunque, e per le implicazioni socio-economiche di tale forma organizzativa, si rimanda al capitolo specificamente dedicato al monastero dell‟Amiata.

Proseguendo, il punto successivo del testo in cui Collavini si sofferma sugli aspetti patrimoniali e, nella misura in cui le fonti lo consentono, gestionali dei beni aldobrandeschi riguarda un importante documento dell‟anno 973, anch‟esso conservato nella serie amiatina, nel quale Ildebrando III vende a Ropprando «presbitero» quarantacinque tra «curtes» e castelli, nonché l‟intero monastero di San Pietro di Monteverdi, al prezzo, elevatissimo, di diecimila libbre di oro e argento: la cifra, che, come rileva Collavini, è inserita in un negozio fittizio (i beni venduti saranno poi ricomprati), mostra tuttavia l‟esigenza di adeguare, sebbene in modo approssimativo (si ricorre ad un numero tondo), l‟importo dell‟acquisto alla impressionante quantità complessiva e alla mole delle singole unità di cui si compone il patrimonio ceduto116.

Ciò per cui il documento riveste importanza ai fini della presente ricerca è la testimonianza che ci offre sull‟importanza (certo crescente, ma ancora in fase di consolidamento) acquisita dagli elementi di fortificazione nel plasmare il paesaggio rurale: sfugge purtroppo, in questo come in altri documenti dello stesso genere (e rimando, per un confronto tipologico, al penultimo paragrafo sui ʻconti di Pisaʼ) quale sia il preciso rapporto tra centro aziendale e siti incastellati117

. Basti dunque

114 Ivi, p. 61 ss.

115 Cit. ivi, p. 69.

116 Ivi, p. 80 ss. Il documento in questione è CDA 203: sul perché della sua conservazione all‟interno della serie amiatina cfr. infra.

117 Qualcosa emerge solo da documentazione più tarda: ad esempio, la «repromissionis pagina» con cui il conte Ugo e la moglie riconoscevano il pegno in favore del vescovo di Lucca riguardante «curte et castello illo, qui dicitur Suvereto» (a. 1080) offre l‟immagine di un sito castellare con un‟azienda ad esso associata nella quale, inoltre, si distinguono -

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sottolineare, sulla scorta di quanto scrive Collavini, che nella Tuscia meridionale i 24 complessi di beni menzionati abbiano ancora il loro centro su una curtis di cui i castra sono pertinenze, a prova della perdurante preponderanza delle aziende agrarie come quadri di riferimento del territorio e della prassi notarile anche in un periodo di progressiva maturazione del fenomeno di incastellamento118.

Tali aziende, almeno in alcuni casi, dovevano avere caratteristiche spiccatamente curtensi all‟inizio del secolo XI: è quanto emerge da una vendita effettuata dal conte Rodolfo III nel 1009, dove tra i beni ceduti figurano cinque «masce», tre «in ipso loco Camuliano [Camugliano nel

Comune di Ponsacco (Pisa), in Valdera]» e due a «Silva Gherardi», descritte come appartenenti ai

dominici e ben distinte dai beni tenuti dai massari, insieme a più generiche res «qui sunt de donicato loco Gonfingno»119. Un‟organizzazione per mansi, dunque, che pare ben salda a quest‟altezza cronologica.

Ma torniamo ai castelli: per sondare l‟avanzamento della “rivoluzione castrense” occorre aspettare i decenni a cavallo tra XI e XII secolo, quando intorno all‟Amiata la presenza degli Aldobrandeschi, forte e destinata ad ampliarsi, appare fondata prima di tutto sul possesso di castra e sul parallelo compattamento dei beni fondiari, che porta con sé il rafforzamento pienamente signorile dei diritti sugli uomini: il processo risulta ben documentato per l‟area a sud del Monte grazie ad un celebre “polittico delle malefatte”120

, la lettera inviata dai monaci dell‟Amiata a Enrico IV, nel 1084, per lamentare le usurpazioni compiute dagli Aldobrandeschi a danno, tra gli altri luoghi, dei castelli di Selvena, Marino, Radicofani, della corte di Gravilona (presso la quale era sito un castrum degli Aldobrandeschi dove questi «custodias atque clausuras ab hominibus ecclesie tue [dell‟imperatore Enrico] cotidie iubet fieri»121 ) e della «villam» di Santa Fiora, nonché l‟imposizione di obblighi signorili su «Campusona» e «Plano» (Piancastagnaio)122

. Nella stessa area si collocavano il castello e la curtis di Buceno, ceduto per metà nel 1108 a San Salvatore123: nel complesso, dunque, un patrimonio dove ai centri castellari si alternavano anche centri aziendali non fortificati. Da qui la privatizzazione delle funzioni pubblicistiche si farà più marcata e, conseguentemente, più stringente l‟esercizio delle prerogative signorili, benché tali processi, nota sebbene l‟informazione sia contenuta all‟interno di un‟espressione formulare - beni «tam donicatis, quam et massariciis» (per le citazioni cfr. MDL, IV/2, n. 108, pp. 154-155).

118 Ivi, p. 85.

119 ASLu, Arch. Guinigi, n. 8. Per lo stesso periodo, cfr. una menzione di beni dominici in U

GHELLI, I, 1341-4 (permuta tra il conte Rodolfo ed il vescovo di Volterra, a. 1007). Ancora, di un casalino meo ubi iam fuit casa et curte donicata illa si parla all‟interno di una vendita effettuata dal conte Ugo nel 1053 (ASFi, Diplomatico, Vallombrosa, copia del 1501). Su quest‟atto cfr. COLLAVINI 1998, p. 96.

120 Espressione, come è noto, coniata da Vito Fumagalli per il titolo del IV capitolo della sua opera sui Canossa (FUMAGALLI 1971).

121 CDA 309. 122 Ibid.

123 CDA 329 e le altre fonti citate in C

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Collavini, si basassero sulla «potenza militare e l‟autorità politica dei conti, almeno in parte indipendentemente dal supporto del possesso fondiario»124.

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