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Tra il sistema curtense e la mezzadria poderale

Come accennato poco fa, il primo capitolo del libro di Conti prende le mosse dal modo in cui presumibilmente si presentava il paesaggio agrario delle campagne italiane prima e a ridosso dell‟anno Mille: la terra era suddivisa in base alle unità di conduzione designate di volta in volta come mansus o sors e queste, a loro volta, costituivano i nuclei fondamentali del complesso aziendale noto come curtis. Organizzata secondo la “classica” bipartizione tra dominicum e

massaricium, la curtis, tuttavia, non era quasi mai un insieme compatto, dal momento che le sue

appendici e pertinenze potevano collocarsi a notevole distanza (a volte molti chilometri) dal centro curtense; gli stessi mansi, d‟altronde, erano ben lungi dall‟essere l‟uno uguale all‟altro: se spesso venivano occupati da più di un nucleo famigliare, in alcuni casi risultavano invece privi di

5 Prendo l‟aggettivo da J

ONES 1968, ora in ID. 1980, cap. VII, pp. 377-383, utilizzato alle pp. 388, 393 e 497. Del XII secolo si è occupato anche Enrico Faini, allargando la ricerca di Conti anche agli altri maggiori archivi del Fiorentino (è il già citato FAINI 2010, in particolare p. 52 ss.): tornerò più avanti su questo contributo.

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coltivatori (erano cioè absi)6. Tale forma gestionale, comunque, sarebbe stata tipica delle sole proprietà di chiese e monasteri, mentre i piccoli e medi allodieri, che pure dovevano essere numerosi, non hanno lasciato tracce sufficienti per studiare le modalità di conduzione dei loro beni7.

Anche quando, tra la fine del X secolo e l‟inizio dell‟XI, la documentazione cresce per quantità, essa rimane poco utile dal punto di vista descrittivo: anzitutto non ci sono polittici e gli elenchi che abbiamo si riducono a liste di nomi di luogo di dubbia affidabilità; le misure delle terre, poi, possono essere convertite nelle corrispondenti misure odierne solo approssimativamente; infine, e in generale, la serie degli atti privati utilizza una terminologia assai vaga, dalla quale sarebbe sbagliato cercare di trarre informazioni sicure: «La povertà di linguaggio è impressionante, le formule sempre ricorrenti di una monotonia estrema» è lo sconsolato commento di Conti8.

Stando così le cose, studiare i rapporti tra la struttura agraria medievale e quella moderna sulla base dei soli formulari notarili pare impossibile. Per ovviare al problema, Conti si avvale della toponomastica rurale quale guida principale per sondare continuità e rotture nella storia dei paesaggi e dei regimi agrari: laddove i nomi di luogo e una, per quanto scarna, descrizione delle strutture organizzative ad essi legate si è conservata nel corso dei secoli, è possibile tentare una lettura complessiva di caratteristiche e trasformazioni del lavoro agricolo in una determinata zona. Da questo punto di vista la straordinaria ricchezza del Diplomatico di Passignano per i secoli centrali del Medioevo si presta alla causa: ed è proprio con lo studio delle pergamene passignanesi che Conti esporta, a tutti gli effetti, il metodo statistico nella storiografia socio-economica delle campagne medievali, sostituendolo alle interpretazioni forzatamente impressionistiche basate sullo studio di fondi archivistici più poveri.

A partire, dunque, da questi presupposti, il filo rosso della ricerca è rappresentato dalla seguente domanda: come si arriva dal mansus dei Franchi al podere moderno? Quali cambiamenti sono intervenuti nel corso di una lunghissima transizione che dalla curtis ha portato alla mezzadria? Per rispondere alle due domande diventa imprescindibile un‟analisi delle fonti riguardanti il periodo della “dissoluzione curtense”: e sono fonti il cui trait d‟union è costituito da quella che Conti definisce «polverizzazione agraria» 9 . In verità, inizialmente, lo studioso fa uso di una documentazione molto tarda - quella relativa alle terre non ancora appoderate tra XIV e XV secolo - per sostenere la propria tesi10, ma nel prosieguo del discorso riconosce nell‟alto livello di frammentazione delle unità in cui era suddiviso il suolo un fattore di lungo periodo, ravvisabile,

6 C ONTI 1965, pp. 8-10. 7 Ivi, p. 11. 8 Ivi, cit. p. 13.

9 Cit. ivi, p. 4 e passim. 10 Ivi, pp. 37-39.

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benché in modo meno sistematico, già nella fase compresa tra l‟XI ed il XIII secolo11 : «un sovraccarico umano […] non così forte come nella seconda metà del Dugento e nei primi decenni del Trecento […] ma sensibile in confronto alla situazione che si instaurerà nei primi secoli dell‟età moderna»12. Il fondamento di questa conclusione trova proprio nello studio dei nomi dei luoghi una delle sue principali giustificazioni: l‟«esplosione di toponomastica»13 è, infatti, tra le più importanti acquisizioni dell‟indagine contiana, perché rappresenta la prova di un‟accentuata parcellizzazione della terra e della conseguente necessità di dare un nome ad appezzamenti tra loro anche vicini, ma sempre più piccoli ed appartenenti a proprietari e/o locatari diversi, in un contesto di vero e proprio sovraffollamento che dovette portare il ceto contadino ad impoverirsi e a vivere in sempre maggiori ristrettezze, poiché sempre più ristrette erano le risorse messe a disposizione dall‟ambiente naturale. Quella che emerge dall‟opera di Conti è un‟immagine del mondo rurale a tinte molto fosche, dove, oltre alle consuete e “normali” soperchierie di cui erano bersaglio, i laboratores dovevano fronteggiare anche gli effetti negativi di un vertiginoso aumento demografico14.

Questa, a grandi linee, l‟impalcatura su cui si regge il grande lavoro del professore fiorentino: vale dunque la pena di focalizzare l‟attenzione sugli assi portanti che riguardano più direttamente la questione del sistema curtense e di svolgere alcune riflessioni.

Anzitutto, si sarà notato che la ricostruzione delle strutture agrarie altomedievali, per forza di cose congetturale, poggia su un modello di régime domanial classique assunto non senza qualche schematismo: sebbene nel 1965 la storiografia non avesse ancora insistito su questo punto, bisogna pur notare che, oggi, l‟attribuzione di forme curtensi della proprietà ai soli patrimoni ecclesiastici non può più essere accettata pacificamente. La ricerca attuale mostra situazioni ben più fluide: chiese e monasteri che hanno beni gestiti secondo modalità non assimilabili al système bipartite, a volte accanto a curtes classicamente intese; e aristocratici laici i cui terreni, invece, paiono divisi in

dominicum e massaricium, o almeno sembrano gestiti, parzialmente, in regime di economia

diretta15.

Inoltre, anche l‟individuazione nel mansus o sors dell‟unità di conduzione per eccellenza deve essere leggermente ritoccata: si tratta di termini duttili, che a volte sono rari nelle serie

11 Ivi, p. 61.

12 Cit. ibidem. 13 Cit. ivi, p. 135. 14

«Questa dispersione significava lavoro perduto, colture irrazionali, miseria e fame: i classici malanni di una società sottosviluppata e troppo numerosa. Era un circolo chiuso, da cui il nostro territorio sarebbe uscito soltanto per un intervento esterno, pagato a caro prezzo dai contadini»: cit. ivi, p. 143. Si può qui apprezzare la distanza, ben sottolineata da Mario Nobili, che separa le riflessioni di Conti da quelle di Cinzio Violante: questi, infatti, individuava nei secoli pienomedievali un periodo di sostanziale miglioramento delle condizioni del ceto contadino (cfr. NOBILI 1993 e, per quanto riguarda l‟opinione di Violante, VIOLANTE 1991).

15 Rimando al capitolo sui ʻconti di Pisaʼ e, per limitarmi a due indicazioni di contributi recenti sul tema, a D

EVROEY- WILKIN 2012 e a FREUDENBERG 2013.

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archivistiche di età carolingia e post-carolingia e compaiono o ricompaiono nel pieno Medioevo16. Certo, la frammentazione del suolo, e dunque la parcellizzazione del mansus, è un fenomeno documentabile solo intorno e dopo il Mille: ma (ed è un altro punto meritevole di essere sottolineato) non possiamo essere sicuri che l‟aumento di atti attraverso i quali tale fenomeno è visibile sia l‟effetto, e non invece la causa, di questo spezzettamento. In che misura, cioè, la documentazione riflette uno stato di cose reale e in che misura, al contrario, distorce una realtà la cui comprensione è fatalmente condizionata dagli “arcani” della conservazione archivistica? Manca infatti, nell‟opera di Conti, una riflessione compiuta ed organica sul perché abbiamo i documenti che abbiamo, segnale, se vogliamo, di un approccio ancora venato di positivismo.

Preme ora mettere in luce un altro aspetto del libro in questione. Come si sarà certamente notato anche solo dalle brevi note che ho fornito, il fattore demografico ha un‟importanza centrale nel determinare cambiamenti nelle realtà agrarie. È anzi l‟elemento più utile a spiegare, nella ricostruzione contiana, la disgregazione del manso, fenomeno altrimenti oscuro e difficilmente sondabile sulle fonti17, e dunque la scomparsa delle unità di conduzione carolinge organizzate nel quadro delle curtes classiche. Se ne ricava, a mio avviso, una conseguenza di grande portata: le forme di gestione del patrimonio dal Mille in poi sono, letteralmente, in balia di condizionamenti che sfuggono al controllo, se non alla comprensione, degli uomini del tempo; prima della “rivoluzione” poderale e mezzadrile i tentativi di restituire una assetto razionale, o almeno più razionale, a quelle che erano state antiche sortes si infrangono contro uno spezzettamento del suolo in costante crescita, risultato di sforzi continui, ma poco mirati quando non del tutto disorganici e quindi inefficaci, volti a ristabilire «il difficile equilibrio fra la produzione e il consumo familiare»18. Un equilibrio, in definitiva, troppo precario per poter essere definito davvero tale: di qui la causa principale dell‟immiserirsi delle condizioni di vita dei contadini cui si è accennato poco fa19.

Conti è perfettamente consapevole delle difficoltà che si incontrano e delle cautele da utilizzare nella sovrapposizione del modello del régime domanial a una qualunque serie archivistica, per quanto cospicua come quella di Passignano20. Tuttavia, una conclusione emerge chiaramente: il sistema curtense non giunse alla propria fine sulla base di un qualche “progetto”, di qualche cambiamento pilotato e consapevole; la sua scomparsa fu il risultato non voluto di processi

16 Cfr. il paragrafo successivo, dove il termine masia compare nel tardo XII secolo, dopo decenni di assenza dalle pergamene, all‟interno di un polittico. Cfr. poi alcuni esempi relativi al Monte Amiata in CDA III/2, p. 403. Vedi poi il classico FUMAGALLI 1977, in particolare pp. 476-477, per quanto riguarda l‟ampio utilizzo della parola mansus nelle fonti di XII e XIII secolo relative all‟Italia settentrionale.

17 Cfr. ivi, p. 134. Qui Conti è debitore delle riflessioni di Carlo Maria Cipolla (C

IPOLLA 1950, poi ripreso con titolo diverso per il I volume della Storia dell‟economia italiana - CIPOLLA 1959 -), che infatti cita.

18 Cit. ivi, p. 142.

19 Cfr. ivi, pp. 142-143 e supra, in particolare nota 13. 20 Cfr. ivi, p. 110 ss.

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economici più generali e profondi. Lo studioso fiorentino si sbarazza così delle argomentazioni fondate sulla presunta “irrazionalità” della curtis carolingia, e, anzi, ne propone una che sembra andare in direzione diametralmente opposta21.

L‟analisi qui riassunta è svolta sulla base di fonti del secolo XI, ma l‟impressione di trovarsi davanti ad una situazione sostanzialmente caotica si ricava anche dalla lettura della serie pergamenacea del secolo successivo; lo stesso Conti, d‟altronde, aveva notato come i tentativi di conferire una maggiore coerenza alle proprietà monastiche in quest‟ultimo periodo fossero da attribuire ad «una conquista di carattere giuridico, non economico. Le terre su cui i monasteri venivano accumulando diritti si rifrantumavano in un variopinto mosaico di unità di coltura, senza alcun legame fra loro, in cento mani diverse»22. Se dunque, sotto la spinta dell‟affermazione dei poteri signorili, si assiste ad un qualche sforzo di riorganizzazione della proprietà che renda più facile l‟esercizio di quegli stessi poteri, non si può tuttavia parlare di un accorpamento mirato delle piccole e sparpagliate parcelle terriere volto a ricavare il maggior profitto possibile dal lavoro agricolo. Mi pare che, mutatis mutandis, Conti sia qui debitore dei ragionamenti fatti trent‟anni prima da Johan Plesner: tutto teso a mostrare l‟irriducibile diversità tra proprietà e giurisdizione signorile, lo studioso danese, pur concentrandosi solo sull‟area all‟interno e immediatamente al di fuori del castrum di Passignano, era giunto alla conclusione che l‟obiettivo di far coincidere proprietà e signoria fu perseguito dall‟abate e dai suoi monaci soltanto a cavallo tra Due e Trecento, mentre prima la detenzione e l‟estensione di diritti giurisdizionali da parte di San Michele era a lungo convissuta con una longeva molteplicità di proprietà e di proprietari23.

Perdurante frammentazione del suolo, dunque, e prevalente attenzione del monastero verso la dimensione “feudale” del suo dominio sono gli spunti con cui Conti conclude il secondo capitolo del suo libro e attraverso i quali propone di caratterizzare il secolo XII.

Come già detto, lo studioso fiorentino non ebbe modo di dare seguito alle sue intuizioni: la sfida è stata però raccolta in tempi recenti da un altro fiorentino, Enrico Faini, all‟interno del volume su Firenze nell‟età romanica (l‟arco cronologico qui interessato è compreso tra il Mille e l‟anno 1211)24

. Il giovane ricercatore, dichiarando esplicitamente il suo debito nei confronti di Conti, ha dedicato un capitolo alla campagna, alle sue caratteristiche e alle sue trasformazioni, ma lo ha fatto nel quadro di un‟indagine fondamentalmente “urbanocentrica”, volta cioè a mostrare i prodromi dello splendore comunale della Firenze di Due e Trecento (in questo senso, aggiungerei, la si può tacciare di un lieve teleologismo): comunque, nelle pagine dedicate alla Storia della

21 Cfr. a tal proposito il capitolo introduttivo. 22

Cit. ivi, p. 216. 23 Cfr. P

LESNER 1979, capp. II e III, pp. 57-103. Sul tema della diversità tra proprietà e signoria e sul tentativo di farle coincidere è ormai classico il contributo in ROMEO 1957 relativo ad Origgio.

24 Il già ricordato F

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proprietà, Faini muove proprio da Conti per poi ampliarne l‟analisi al secolo XII e agli altri fondi

diplomatici riguardanti il Fiorentino (oltre a Passignano vi ha aggiunto Coltibuono, Badia, Canonica ecc.). Particolarmente utile per il presente lavoro è la statistica relativa al lessico curtense ed alle sue attestazioni: sebbene fatta, come lo stesso Faini dice esplicitamente, sulla base di una ricerca «automatizzata»25 (dove, cioè, parole come curtis, mansus, sors sono state semplicemente estrapolate dal documento di provenienza e dunque decontestualizzate), i suoi risultati sono di grande utilità ed interesse nel mostrare l‟eclissi quasi totale della terminologia tipica del régime

domanial classique alle soglie del Duecento26.

La statistica di Faini e il seguito della sua ricerca non toccano direttamente il problema delle forme gestionali, se escludiamo il paragrafo dedicato alla rendita agraria e l‟argomentazione, lì contenuta, relativa al prevalere dei canoni in natura nel corso del XII secolo27: escludendo dall‟analisi il problema del rapporto tra gestione diretta ed indiretta e dunque, contestualmente, quello delle operae, la scomparsa del lessico curtense risulta sì un‟acquisizione molto importante, ma meritevole di essere integrata da ulteriori sondaggi documentari.

È ciò che proverò a fare ora partendo, qui come altrove in questo lavoro, dalla “struttura” delle fonti e dunque dalla loro “affidabilità”: bisogna cioè chiedersi, anche per un fondo eccezionalmente vasto come quello passignanese, se le pergamene che abbiamo siano una buona guida per la storia della proprietà e delle modalità di conduzione delle aziende agrarie. Cominciamo dunque da due pezzi d‟archivio che, per tipologia, sono piuttosto rari non solo nel nostro

Diplomatico, ma in tutta la Toscana medievale.

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